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Focus Mediterraneo Allargato n.8

Focus paese: Giordania

Eugenio Dacrema
28 settembre 2018

La monarchia hashemita di Giordania rappresenta un paradosso nel cuore del Levante arabo. Da una parte, il piccolo regno emerge da anni come un esempio di stabilità, moderazione e continuità delle alleanze in una regione da decenni sconvolta da conflitti più o meno caldi, guerre civili ed estremismi di diverso tipo. Dall’altra, a dare un’occhiata più da vicino ai suoi fondamentali economici, al livello di disoccupazione, ai livelli di fiducia nelle istituzioni e di discontento sociale, si potrebbe tranquillamente dire che la Giordania sia una società da anni in bilico, a un passo dal collasso politico ed economico. Ogni tanto le tensioni affiorano al di sopra della superficie di stabilità.

Quadro interno

Durante la primavera di quest’anno il paese è stato attraversato da un’ondata di proteste, che a molti hanno ricordato le manifestazioni del 2011, in piena Primavera araba, quando la Giordania per alcune settimane sembrò sul punto di seguire la sorte della Tunisia e dell’Egitto. Nel 2011 alcune caratteristiche specifiche della società giordana impedirono però ai tumulti di arrivare al punto di mettere in pericolo il regno, ormai ventennale, del sovrano Abdullah II. Tra queste caratteristiche vi è prima di tutto l’antica divisione interna tra i cosiddetti “transgiordani” – gli abitanti originali del territorio giordano prima della sua trasformazione statuale, perlopiù composti dai membri di tribù arabe con stretti rapporti famigliari e culturali con gli abitanti della penisola arabica – e i palestinesi – gli abitanti originari dell’area a est del Giordano che comprende l’odierna Israele e i Territori occupati. La maggior parte dei palestinesi giordani sono i discendenti di coloro giunti durante la dominazione hashemita della Cisgiordania (dal 1948 al 1967) e dei profughi dei numerosi conflitti arabo-israeliani e israelo-palestinesi avvenuti dal secondo dopoguerra a oggi. Anche se non esistono stime ufficiali, i palestinesi costituirebbero circa il 70% della popolazione giordana. La maggior parte detiene la cittadinanza, concessa da re Hussein – padre dell’attuale sovrano – in seguito alla firma del trattato di pace con Israele nel 1994. La scelta di concedere la cittadinanza ai palestinesi residenti in Giordania era animata dall’obiettivo di rendere più facile la formazione di uno stato palestinese che non dovesse preoccuparsi del ritorno di milioni di rifugiati apolidi ancora stanziati nel regno. Dall’altra parte, però, si era trattato di una decisione sofferta.

Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta l’allora minoranza palestinese, guidata dall’ Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) di Yasser Arafat, aveva infatti tentato di destabilizzare la monarchia hashemita e di sostituirle la propria leadership. Nel settembre del 1970 – il cosiddetto “Settembre nero” – una vera guerra civile scoppiò nel paese combattuta, da una parte, dai miliziani palestinesi e, dall’altra, dalle truppe fedeli al sovrano hashemita, composte quasi esclusivamente dai membri delle comunità transgiordane, che si risolse in decine di migliaia di morti e nell’espulsione dell’Olp dalla Giordania (andrà poi a insediarsi in Libano). Tali antiche tensioni hanno alimentato un clima di mutuo sospetto e divisione fra le due principali componenti della popolazione che ha reso difficile trovare unità d’intenti per promuovere istanze socioeconomiche comuni.

Negli anni, le due comunità si sono inoltre divise i principali settori dell’economia nazionale. Da una parte, i transgiordani occupano saldamente tutti i gangli del consistente settore pubblico, con nomine e promozioni spesso regolate secondo appartenenze tribali e famigliari. Dall’altra, i palestinesi dominano il settore privato, a cominciare dalla finanza, il commercio e le costruzioni. Questa borghesia imprenditoriale costituisce però una piccola minoranza; gran parte della comunità palestinese risiede infatti perlopiù nei sobborghi poveri delle grandi città. Questa distribuzione demografica che vede i grandi centri urbani abitati prevalentemente dai palestinesi e le aree rurali abitate dalla tradizionale popolazione transgiordana si riflette nella contestata legge elettorale che regola la selezione dei membri del parlamento nazionale. Secondo tale legge le aree rurali godono di una rappresentanza parlamentare che eccede significativamente la loro dimensione demografica; al contrario, le aree urbane sono sottorappresentate al fine di garantire una maggioranza parlamentare composta da transgiordani nonostante oggi quest’ultimi siano minoranza nel paese. Anche se nei decenni seguenti la concessione della cittadinanza i contatti tra le due comunità hanno cominciato a intensificarsi, restano ostacoli significativi a intraprendere iniziative condivise, soprattutto nei momenti di malcontento e di contestazione. Nel 2011 le proteste hanno dovuto evitare qualunque tipo di simbolismo palestinese, spesso impedendo la saldatura tra le istanze delle componenti più svantaggiate di entrambe le comunità.

Durante le proteste di quest’anno, però, la divisione etnica è apparsa meno netta, forse anche a causa della composizione sociale delle manifestazioni. Le più importanti sono infatti scoppiate dopo l’introduzione da parte del governo guidato da Hani Mulki di un decreto volto ad allargare il bacino di soggetti sottoposti alla tassa sul reddito, un provvedimento che sarebbe andato a colpire gli interessi delle classi medie e medio-alte, le quali solitamente popolano gli ordini professionali come quello degli avvocati e dei medici. Tale provvedimento rientrava in una serie di riforme introdotte nel quadro delle condizioni poste dal Fondo monetario internazionale per la concessione di una nuova linea di credito allo stato. Alle manifestazioni indette dai leader degli ordini professionali si sono però uniti ben presto molti cittadini più poveri che protestavano per il continuo rialzo dei prezzi e i tagli dei sussidi avvenuti nell’ultimo biennio, sempre nel quadro delle condizionalità imposte dal Fmi, che hanno colpito soprattutto gli strati sociali più svantaggiati. Le proteste sono state quindi iniziate e guidate dai membri di classi sociali solitamente più privilegiate, tra le quali la divisione etnica tra palestinesi e transgiordani ha un valore relativo. I leader dei vari ordini professionali coinvolti hanno inoltre prestato attenzione a non lasciare degenerare le proteste, evitando che slogan e richieste prendessero di mira il regime monarchico. Ne è scaturito un compromesso che ha portato alle dimissioni del primo ministro Mulki e alla nomina al suo posto di Omar Razzaz, il quale ha bloccato alcuni dei provvedimenti del premier uscente, compreso il decreto contestato. Tale mossa ha messo al riparo il sovrano il quale, come spesso accade nelle monarchie costituzionali arabe come Giordania e Marocco, nonostante detenga la maggior parte dei poteri esecutivi riesce spesso a usare il proprio governo come scudo contro il malcontento popolare.

Nonostante lo scampato pericolo, però, gli avvenimenti di questa primavera sono suonati come un chiaro campanello d’allarme. Un campanello che è risuonato prima di tutto nelle stanze del potere di Amman, ma che è stato udito chiaramente anche dai principali alleati regionali e internazionali del piccolo regno: Stati Uniti e Arabia Saudita. Per tutta la sua storia, infatti, il regno hashemita ha abilmente barattato l’interesse di potenze più grandi sue alleate nella sua stabilità e nella sua posizione strategica per ottenere sostegno economico e militare. Soprattutto l’economia è diventata nel tempo la prima preoccupazione della leadership giordana, alle prese con una crescente popolazione giovanile in cerca di lavoro e una congiuntura economica resa ancora più negativa dall’isolamento geografico del paese causato dai conflitti in Iraq e Siria. L’economia giordana è infatti caratterizzata da un profondo deficit di partita corrente (-10,6%), dovendo importare quasi tutti i beni di consumo, a cominciare da quelli alimentari, fino ad arrivare ai prodotti industriali più sofisticati. Priva di significative risorse naturali, il settore più sviluppato della Giordania è infatti quello dei servizi, a cominciare dal turismo, che ha visto però in questi anni una forte contrazione dovuta soprattutto alle instabilità che hanno caratterizzato il Levante a cominciare dai tumulti del 2011. Per pareggiare la propria bilancia dei pagamenti il governo giordano è quindi tradizionalmente ricorso agli aiuti economici dei propri alleati, una dipendenza diventata ancor più cronica negli ultimi anni. A fronte delle proteste di quest’anno sia Washington sia Riyadh sono intervenuti aumentando significativamente il proprio contributo economico alla Giordania. Ma i flussi di aiuti, spesso fragili e dipendenti da equilibri politici contingenti, non bastano più per far fronte alle necessità di una popolazione più che sestuplicata dal 1960 a oggi. Il paese ha quindi dovuto ricorrere al sostegno di organizzazioni internazionali come il Fmi, che in cambio di prestiti agevolati ha imposto alla Giordania un’agenda di riforme economiche volte a ridurre la spesa pubblica, a cominciare proprio da alcuni dei generosi sussidi di cui per anni l’intera popolazione ha goduto. Ma se tali misure sembrano le uniche in grado di riequilibrare un’economia profondamente sbilanciata senza rischiarne il collasso, esse hanno richiesto negli anni un prezzo politico sempre più alto, diventato in alcuni momenti insostenibile per la leadership al potere, come dimostrato dall’ultima ondata di proteste. Le dimissioni di Mulki hanno di fatto ulteriormente rinviato nuove riforme, mettendo fine alle manifestazioni ma aumentando il rischio di forti instabilità economiche in futuro. La leadership sembra sperare di poter riprendere il processo di riforma in una congiuntura economica più favorevole, resa possibile dalla graduale riapertura dei commerci con Siria e Iraq e dalle possibili ricadute positive dovute agli ingenti investimenti, per ora solo potenziali, per la ricostruzione siriana.

Relazioni esterne

Ma non è solo l’economia a complicare il quadro del paese e a minarne la stabilità. I recenti sviluppi relativi al lungo conflitto israelo-palestinese – con l’ormai prossima presentazione del piano di pace per il Medio Oriente dell’amministrazione Trump – hanno infatti intrapreso una direzione potenzialmente rischiosa per la stabilità sociale della Giordania. Prima di tutto, il sovrano Abdullah II si è opposto pubblicamente al riconoscimento da parte americana di Gerusalemme come capitale dello stato israeliano e al conseguente spostamento dell’ambasciata statunitense da Tel Aviv alla Città Santa. La decisione mina infatti l’autorità della corona giordana come protettrice dei luoghi santi di Gerusalemme, riconosciuta dal trattato di pace del 1994, ponendoli de facto sotto la tutela unica israeliana. Inoltre, la decisione americana è stata percepita come un tradimento dello spirito stesso con cui il trattato di pace fu firmato, ovvero quello di favorire al più presto la formazione di uno stato palestinese lungo i confini precedenti alla Guerra dei sei giorni del 1967 in cui fosse garantito il diritto al ritorno dei palestinesi ancora residenti all’estero e, non meno importante, avente Gerusalemme est come capitale. Infine, la pubblica opposizione alla decisione di Trump è da leggere come il tentativo della monarchia di non creare nuove tensioni con la comunità giordano-palestinese, diventata ormai maggioranza nel paese. Ma i rischi per la stabilità della Giordania dovuti al nuovo piano di pace americano non si limitano alla questione di Gerusalemme capitale. Tra gli ultimi punti del piano trapelati al pubblico ci sarebbe infatti quello di unire il futuro stato palestinese – privato di Gerusalemme est e di numerosi territori cisgiordani oggi occupati dagli insediamenti israeliani – alla Giordania sotto forma di una confederazione. Tale progetto non è una assoluta novità, ma rispecchia un’idea rilanciata sin dagli anni Settanta e particolarmente popolare tra la destra israeliana, secondo la quale la realtà demografica giordana qualifica il paese già di fatto come una nazione palestinese in essere, al quale la restante popolazione palestinese oggi residente nei Territori occupati dovrebbe essere annessa senza creare un nuovo stato totalmente indipendente. Tale progetto è però sempre risultato particolarmente avverso, sia alla leadership palestinese cisgiordana e di Gaza sia alla monarchia hashemita. Per la prima, infatti, la realizzazione di un tale progetto risulterebbe in una definitiva perdita di legittimità e indipendenza a favore di un attore molto più consolidato e forte come lo stato giordano. Per la seconda, l’unione confederativa avrebbe un duplice effetto: da una parte, i circa due milioni di palestinesi oggi residenti in Giordania ma privi della cittadinanza dovrebbero essere naturalizzati e, dall’altra, la monarchia hashemita dovrebbe accettare l’unificazione confederativa con un nuovo stato abitato da altri sette milioni di palestinesi. La base di potere dell’attuale regime ne risulterebbe quindi irrimediabilmente minata e diluita in una maggioranza palestinese divenuta schiacciante, riproponendo i rischi di un nuovo Settembre nero. Per la corona si tratta quindi di un pericolo esistenziale, e il fatto che tale piano sia stato ideato dal suo più importante alleato internazionale, gli Stati Uniti, e sostenuto da quello più importante a livello regionale, ovvero l’Arabia Saudita, complica molto le cose per Amman. Il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman è infatti considerato uno dei principali ideatori del piano Trump, insieme al genero del presidente statunitense Jared Kushner e, seppur in modo discreto, ne starebbe supportando la realizzazione.

La monarchia giordana si trova quindi a dover giocare con cautela le proprie carte diplomatiche. Da una parte, cercando di sensibilizzare i propri alleati rispetto ai rischi che i loro piani per il Medio Oriente presentano per la stabilità socio-politica della Giordania ed evitando, dall’altra, di scontentarli in modo irrimediabile, rischiando di perdere un supporto economico diventato ormai vitale, anch’esso, per la sopravvivenza dell’attuale regime.

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