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Commentary

Focus paese: Iraq

Chiara Lovotti
28 settembre 2018

Dopo la vittoria contro lo Stato islamico (IS), proclamata dal primo ministro iracheno Haider al-Abadi nel dicembre 2017, l’Iraq è alla ricerca di un nuovo equilibrio politico, istituzionale e securitario, fondamentale per affrontare la delicata fase di ricostruzione del paese ed evitare di ricadere nuovamente nella polarizzazione etno-confessionale. Le prime elezioni nazionali dalla sconfitta di IS, tenutesi il 12 maggio 2018, hanno costituito in questo senso un momento di estrema importanza. Sebbene con la consapevolezza delle molte difficoltà che lo accompagnavano, l’appuntamento elettorale era atteso come un appuntamento cruciale, potenzialmente capace di dare una svolta alla politica irachena. Il quadro emerso, tuttavia, sembra riflettere l’immagine di un paese che versa in una profonda incertezza e dove ancora si fatica a parlare di stabilità.

Quadro interno

Le elezioni nazionali hanno portato alla luce uno spaccato della società irachena, facendo emergere da una parte le speranze di chi ha visto nelle elezioni un momento di svolta, dall’altra la disillusione di un gran numero di iracheni, che hanno preferito invece boicottare i seggi. Il malcontento della popolazione verso l’establishment, considerato per lo più corrotto e inefficiente, si è infatti tradotto in un’affluenza alle urne estremamente bassa, che non ha superato il 45%, e che in parte spiega i risultati inaspettati che si sono registrati. Inoltre, le votazioni sono state accompagnate da numerose irregolarità, sospetti di frode e accuse reciproche fra le varie forze politiche, che hanno complicato il conteggio dei voti. A seguito del rilascio da parte della Commissione elettorale irachena dei primi voti suddivisi per provincia (17 maggio), le irregolarità registrate hanno portato numerosi esponenti politici a spingere per un riconteggio manuale dei voti su base nazionale. Le richieste sono state accolte, benché i vertici della Commissione elettorale irachena (International High Elections Commission, Ihec) abbiano in seguito disposto il riconteggio solo nelle province dove si sono verificate le irregolarità maggiori. Il lungo processo dei controlli, iniziati ufficialmente il 3 luglio sotto la supervisione di rappresentanti delle Nazioni Unite ed esponenti delle autorità locali, hanno protratto la pubblicazione dei risultati ufficiali e, di conseguenza, la formazione del nuovo esecutivo.

Il risultato elettorale è stato inaspettato per più di una ragione. Innanzitutto, il premier Haider al-Abadi, nonostante fosse dato come candidato favorito, anche per la sua immagine di leader moderato, gradito alle opposizioni e che ha saputo traghettare il paese nella fase della guerra contro lo Stato islamico, non ha vinto le elezioni. La coalizione da lui guidata, “Alleanza per la vittoria” (“Nasr al-Iraq”), ha ottenuto 42 seggi in Parlamento, classificandosi soltanto come terza. Stupisce in particolare la debole performance di al-Abadi nella capitale, Baghdad, dove il premier aveva concentrato la propria campagna elettorale e dove gode del maggiore supporto. Al secondo posto con 48 seggi si è posizionata la coalizione capitanata da Hadi al-Ameri, leader delle Unità di mobilitazione popolare (Pmu), il cappello di milizie che hanno combattuto la guerra allo Stato islamico al fianco dell’esercito regolare iracheno, per poi dotarsi di un braccio politico e concorrere alle elezioni nazionali. Un risultato, questo, che certamente favorisce il vicino Iran, con cui queste forze militari e politiche hanno stretti legami, e spaventa invece la comunità sunnita, che ancora una volta si conferma priva di un riferimento politico forte e destinata a giocare un ruolo marginale.

A ottenere il maggiore numero di consensi senza però avvicinarsi alla maggioranza necessaria per governare, è stata la lista di stampo nazionalista, anti-settaria e populista guidata da Muqtada al-Sadr, a capo della coalizione “Alleanza dei rivoluzionari per la riforma” (“Al-Sairoon”), che ha ottenuto 54 seggi. Esponente del clero religioso sciita noto per le sue posizioni non certo moderate, al-Sadr già in passato si era dimostrato capace di adattarsi a situazioni mutevoli e abile nel cercare alleanze con forze politiche storicamente e ideologicamente lontane da lui, prime fra tutte l’Arabia Saudita e le frange comuniste e secolari della politica irachena. Di fronte a questa importante tornata elettorale, la prima del “nuovo Iraq” post-IS, al-Sadr è sicuramente riuscito nell’intento di mostrarsi come la risposta più credibile alla crisi del paese, prima guidando i movimenti di protesta e poi sapendo mettere in piedi una coalizione organizzata e credibile1. Tuttavia, nemmeno la coalizione elettorale guidata da al-Sadr è riuscita ad assicurarsi la maggioranza necessaria per andare al governo (165 seggi su 329).

Di fronte al mancato raggiungimento di una maggioranza politica, il processo di formazione del governo è stato complesso e si è retto da un compromesso tra diverse forze politiche, ognuna pronta a ritagliarsi la propria parte nel nuovo governo. A più di tre mesi dalle elezioni, a inizio settembre sono cominciati i lavori del nuovo parlamento iracheno, il cui presidente è Mohammed al-Halbousi. Nonostante al-Sadr non fosse in corsa per la carica di primo ministro, il suo ruolo è stato centrale per la formazione del governo. La coalizione guidata da al-Sadr ha cercato al tempo stesso una convergenza con Ammar al-Hakim, clerico sciita, e Iyad Allawi, esponente della comunità sunnita, e con la coalizione di al-Amiri, leader delle Pmu, dimostrando – almeno apparentemente – la volontà di creare una coalizione ampia e anti-settaria, che racchiuda le molteplici anime del paese. Dopo l’apertura alle forze politiche più disparate, al-Sadr non ha mancato di cercare l’alleanza con al-Abadi; designato per un secondo mandato da primo ministro, Abadi rappresenterà dunque il trait d’union del nuovo governo. Leader apprezzato per la sua moderazione e apertura al dialogo, al-Abadi rappresenta in qualche modo una fonte di rassicurazione tanto per gli attori interni quanto per quelli internazionali, sebbene il suo ruolo in questo mandato rischia di essere molto più limitato rispetto al mandato precedente, in cui il clerico sciita al-Sadr non godeva del peso politico di cui gode ora.

Fra le molte incertezze, appare evidente che il nuovo governo si troverà a dover affrontare numerose sfide. Innanzitutto, si sta deteriorando la situazione economica e di sicurezza nel sud del paese, e in particolare nella provincia di Bassora, dove a inizio luglio sono scoppiate violente proteste popolari, rapidamente diffusesi a macchia d’olio in tutto il sud del paese fino a Baghdad, che puntano il dito contro gli alti tassi di disoccupazione, la corruzione e soprattutto la mancanza di servizi di base. Inoltre, il nuovo governo si troverà ad operare in un clima ancora teso sul piano prettamente securitario. La piaga del terrorismo di matrice jihadista infatti continua a colpire l’Iraq, come dimostrato dagli attentati suicidi verificatisi nelle scorse settimane in diverse province. Lo stesso leader dello Stato islamico, Abu Bakr al-Baghdadi, dopo mesi di silenzio è tornato a parlare ai propri seguaci tramite un messaggio audio pubblicato il 22 agosto, incitandoli a continuare a perpetrare attentati e a credere nel ritorno dello Stato islamico2. Il timore di osservatori e forze sicurezza è che il gruppo terrorista non si sia estinto, ma abbia piuttosto preferito muovere momentaneamente in ritirata, per riprendere fiato e riorganizzare risorse e strategie in vista di una nuova insorgenza.

Infine, permane una situazione di forte instabilità e incertezza in merito alla questione curda. Le elezioni nazionali sembrano avere confermato il Partito democratico del Kurdistan (Kurdistan Democratic Party, Kdp) di Barzani come il partito di maggioranza nella regione semi-autonoma; il partito guidato da Barzani ha ottenuto 25 seggi in parlamento, distanziando l’Unione patriottica del Kurdistan (Patriotic Union of Kurdistan, Puk), che ha vinto 18 seggi, e il Gorran che ne ha conquistati solo 5. Questa situazione ha di fatto “cristallizzato” la crisi interna al panorama curdo, che cerca ora di muovere alle elezioni parlamentari che potrebbero tenersi a Erbil il 30 settembre.

Relazioni esterne

Sul piano delle relazioni esterne, il nuovo governo nei prossimi mesi si troverà nella difficile situazione di dover cercare un equilibrio nei rapporti con i vari attori regionali e internazionali.

La vittoria registrata da Muqtada al-Sadr non è stata accolta con grande entusiasmo in Iran. L’Iran per la prima volta si trova a dover fare i conti con l’opposizione sciita e con un leader storicamente ostile a ogni ingerenza iraniana nel proprio paese. Allo stesso tempo, però, si è consolidato l’asse che lega strettamente Teheran alla compagine delle milizie sciite irachene. È anche attraverso il costante sostegno economico, logistico e finanziario accordato dalla Repubblica islamica che alcune fra le più influenti milizie all’interno delle Pmu sono riuscite a guadagnare sempre più spazio e influenza all’interno del panorama politico iracheno, fino a maturare le condizioni per trasformarsi, di fatto, da milizia a partito politico e ottenere ottimi risultati alle scorse elezioni. Continua inoltre la convergenza Iran-Iraq sul piano economico, funzionale a Teheran per fronteggiare gli altri competitor dell’area, primi fra tutta l’Arabia Saudita.

Allo stesso modo, l’Iraq rappresenta per l’Arabia Saudita un palcoscenico fondamentale nel quale contrastare l’influenza iraniana, soprattutto ora che il risultato elettorale ha consolidato la crescente influenza delle milizie sciite legate a Teheran e dato loro un ampio spazio nella politica irachena. Già nei mesi precedenti l’Arabia Saudita si era attivata per recuperare terreno nel paese, attraverso il rafforzamento delle relazioni bilaterali con Baghdad, e in particolare con Muqtada al-Sadr, leader storicamente ostile alle ingerenze della Repubblica islamica, e attraverso aiuti per la ricostruzione del paese. Il risultato elettorale sembra dunque lasciare aperta la porta del rapprochement tra sauditi e iracheni: la riconferma di al-Abadi al ruolo di primo ministro e il ruolo centrale di al-Sadr nella nuova compagine governativa, infatti, lasciano spazio per un proseguo delle relazioni tanto con i sauditi quanto con gli iraniani.

La Turchia ha invece mantenuto un approccio abbastanza neutrale nei confronti del risultato elettorale iracheno. I rapporti bilaterali, incrinatisi qualche mese fa in ragione delle operazioni aeree condotte da Ankara contro i militanti del Pkk attivi nel Kurdistan iracheno, lungo il proprio confine meridionale, sembrano ora più distesi. In un recente incontro avvenuto ad Ankara, il presidente turco Erdoğan e il premier iracheno al-Abadi hanno discusso della riapertura dell’oleodotto che da Kirkuk arriva fino a Ceyhan. Se da una parte la Turchia di Erdoğan ha bisogno della partnership irachena per la propria sicurezza energetica nel grave periodi di crisi economica che la attraversa, dall’altra anche Baghdad spera di trarre benefici dal partner turco, un interscambio che sembra dunque normalizzare le relazioni sull’asse Baghdad-Ankara.

Allargando lo sguardo oltre la regione, le posizioni degli attori internazionali in merito alle elezioni irachene sono state abbastanza moderate. Né gli Stati Uniti e nemmeno l’Unione europea si sono sbilanciati nel valutare il volto scelto dalla popolazione irachena alla guida del paese. Tuttavia, appare evidente che la vittoria di al-Sadr non possa essere di particolare gradimento all’amministrazione americana, che nel clerico sciita rivede lo storico oppositore della presenza statunitense in Iraq, colui che aveva guidato dell’esercito del Mahdi, il cartello di milizie che combatteva gli americani nel 2003. Paradossalmente, però, i legami di al-Sadr con i sauditi e la sua storica connotazione anti-iraniana, potrebbero fornire a Washington un punto di incontro con il leader iracheno. Al momento, ad ogni modo, gli Stati Uniti sembrano limitarsi a un impegno sul fronte della ricostruzione del paese, attenti in questa fase post-bellica a non sbilanciarsi eccessivamente né in favore di un disengagement dal paese, né di un impegno strettamente vincolante. Tuttavia, ora più che mai, di fronte a una relazione sempre più tesa con l’Iran, gli Stati Uniti non sembrano nella posizione di poter abbandonare lo scenario iracheno: l’Iraq continua infatti a rappresentare un teatro debole e precario nei confronti del quale serve una visione di lungo termine da parte di Washington per non vanificare gli sforzi per prevenire una nuova ondata di terrorismo3.

Infine, il contesto iracheno, e in particolare il panorama della ricostruzione, non manca di offrire ricche opportunità anche all’altro grande attore dei giochi mediorientali, la Russia. Un trend, questo, già in parte dimostrato da una serie di accordi che il colosso petrolifero russo Rosneft sta stringendo in particolare con Erbil, nella regione curda a nord dell’Iraq. Inoltre, la scoperta da parte della stessa azienda di nuovi giacimenti petroliferi in aree finora inesplorate nel sud del paese offre alla Russia l’opportunità di espandere la collaborazione ben oltre la regione curda.

 

1 Kirk H. Sowell, “Understanding Sadr’s Victory”, Carnegie Endowment for International Peace, https://carnegieendowment.org/sada/76387

2 H. Hassan, “ISIS is ready for a resurgence”, https://www.theatlantic.com/international/archive/2018/08/baghdadi-recor...

3 R. Alaaldin, “What Iraq’s Election Results Mean for US Foreign Policy There”, https://www.brookings.edu/blog/order-from-chaos/2018/05/18/what-iraqs-el...


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