A fine agosto si sono riaccese a Tripoli le violenze fra i diversi gruppi armati che si contendono il controllo del paese. In particolare, la Settima brigata di Tarhuna, un raggruppamento di milizie che già in passato ha provato a prendere la capitale, ha sferrato un attacco contro milizie rivali, fedeli al Governo di accordo nazionale (Gna) guidato da Fayez al-Sarraj. Gli scontri, che hanno registrato una settantina di vittime, si sono arrestati solo dopo che l'Onu era riuscita a raggiungere una tregua il 4 settembre. Tregua che è stata però in seguito violata con il lancio di alcuni razzi sull’aeroporto di Tripoli. In questa situazione di precarietà nel campo della sicurezza, appaiono sempre più improbabili le elezioni previste per il 10 dicembre 2018, come si era stabilito nel vertice di Parigi del 29 maggio. L’ultimo episodio sembra testimoniare come la crisi libica si protragga nel tempo e come la situazione di ingovernabilità derivante dalla mancata ricostituzione del monopolio dell’uso della forza sia difficilmente sovvertibile nel breve periodo. Nel tentativo di accompagnare il paese verso le elezioni, il governo italiano sta organizzando una nuova conferenza internazionale che si dovrebbe tenere in Italia il 12 novembre. La Libia è un punto centrale della nostra politica estera e la sua instabilità ha ricadute importanti sull’Italia, in particolare per quanto concerne i flussi di migranti e gli approvvigionamenti energetici.
Quadro interno
Gli scontri delle scorse settimane nella capitale Tripoli testimoniano la precarietà degli equilibri interni sui quali si regge il governo di accordo nazionale voluto dalle Nazioni Unite e guidato da Fayez Serraj. Sommandosi alle problematiche interne, le ingerenze degli attori internazionali rendono la situazione ancora più complessa, allontanando le speranze per una prossima risoluzione del conflitto.
Nonostante l’esistenza del Governo di accordo nazionale, presente nella capitale da ormai più di due anni, le istituzioni statali, riconosciute a livello internazionale, restano deboli e confinate in una piccola parte del territorio. A dominare il quadro libico restano le appartenenze sub-nazionali che impediscono la ricostruzione di una legittimità e di un senso di identità estesi su tutto il territorio nazionale. L’instabilità è oramai cronica e motivata da numerose ragioni: la questione dell’identità multipla della Libia (regionalismi, localismi, tribalismi), la progressiva polarizzazione politica seguita al fallimento delle Primavere arabe (islamisti vs militari/nazionalisti), il disgregante ruolo degli attori internazionali, che hanno cercato di favorire gruppi particolari per aumentare la propria influenza sul paese.
La Libia appare sempre come una frastagliata composizione di decine di milizie, alleate soprattutto, ma non affatto esclusivamente, in un paio di coalizioni: la prima attorno al Governo di unità nazionale; la seconda attorno al feldmaresciallo Khalifa Haftar e al parlamento che risiede a Tobruk. Il problema è che queste milizie più che ricevere ed eseguire ordini da parte delle rispettive autorità, sono in grado di imporre condizioni sulle stesse autorità anche attraverso un sistema di controllo territoriale paragonabile a quello delle organizzazioni mafiose. La situazione nella capitale è piuttosto rappresentativa. Dopo l’insediamento di Fayez al-Sarraj a Tripoli nel marzo 2016, infatti, quattro fra le più rilevanti milizie locali si sono progressivamente divise il controllo del territorio e delle istituzioni della capitale libica1. Attualmente hanno una capacità di influenza su svariate istituzioni e controllano snodi importanti arrivando anche a depredare l’economia statale e quella locale. Infatti, oltre a essersi infiltrate nella pubblica amministrazione, le milizie hanno compiuto numerose estorsioni e frodi come mezzi per finanziarsi2.
Questo retroterra spiega le ragioni per cui a più di sette anni dal rovesciamento di Gheddafi ancora non si è arrivati a una soluzione capace di stabilizzare il paese. Al contrario, i recenti scontri a Tripoli mostrano quanto siano precari gli equilibri sui quali si regge il Gna. Il governo, infatti, è stato attaccato dalla Settima brigata di Tarhuna, che non accetta di essere esclusa da quel nucleo di milizie nella capitale che gode della relazione privilegiata con il Gna e del controllo di varie istituzioni come detto in precedenza. La situazione ha richiesto l’evacuazione di parte del personale diplomatico e tecnico italiano nel paese, pur mantenendo operativa la sede diplomatica nella capitale. Al-Sarraj ha dichiarato lo stato di emergenza e, insieme al suo vice Ahmed Maetig (imprenditore di Misurata molto vicino all’Italia), ha potuto fare affidamento sulle milizie Bunyan al-Marsous di Misurata che hanno sconfitto lo Stato islamico a Sirte. L’Onu è pervenuta poi al cessate il fuoco. Non è ancora chiaro se la Settima brigata abbia agito in accordo con il feldmaresciallo Khalifa Haftar. Quest’ultimo, in particolare, ha evitato dichiarazioni pubbliche in merito all’offensiva, mantenendo un profilo basso, in linea con il profilo di referente politico che si è guadagnato ai tavoli internazionali.
Nonostante ciò, tuttavia, il feldmaresciallo si è espresso piuttosto duramente in merito alle prossime elezioni, ipotizzate per dicembre. Ha dichiarato, infatti, che nel caso in cui non si dimostrassero trasparenti il suo esercito sarebbe pronto a ripristinare la legalità con la forza3. In seguito, non poche fonti hanno lasciato trapelare come Settima brigata di Tarhuna sia composta da miliziani di varia provenienza politica, ma il nucleo più rilevante sia costituito da ex gheddafiani, probabilmente simpatizzanti per il feldmaresciallo Khalifa Haftar4. Ciò ha alimentato speculazioni sul fatto che dietro all’azione militare vi fosse il supporto dello stesso Haftar.
Al cessate il fuoco ha contribuito anche, e soprattutto, il posizionamento di alcune milizie importanti come quelle di Zintan e come alcune delle più rilevanti appartenenti alla città di Misurata. Gli equilibri sul campo continuano ad apparire fragili, e a decretare il successo o il fallimento di questa iniziativa militare o di altre simili sarà la composizione o la scomposizione di alleanze e convergenze tattiche tra le milizie della Tripolitania. Se al cartello di milizie che controlla la capitale e che beneficia dei legami col Gna se ne opporrà uno alternativo composto da quelle che controllano zone periferiche allora avremo nel breve futuro un conflitto più esteso e violento. Al momento, alcune importanti milizie esterne al cartello non sembrano voler prendere parte e conservano una posizione neutrale. Ciò ha determinato un ripiegamento strategico della Settima brigata limitandone gli obiettivi all’apertura di un dialogo con Serraj e alla rivendicazione di un ruolo all’interno del quadro del Gna. Ciò potrebbe garantire al Governo di unità nazionale la sicurezza, ma complicare la convivenza con le altre milizie del cartello. Più in generale, la pratica di assegnare cariche a vari capi miliziani, con evidenti motivazioni di ottenerne la rispettiva benevolenza, ha finito per innescare un circolo vizioso e costituito una importante debolezza per il Gna. I rimpasti in cerca dei giusti equilibri a supporto del governo nella capitale si susseguono. A metà settembre il presidente Fayez al-Serraj, in qualità di capo supremo dell’esercito e di ministro della Difesa ad interim, ha adottato la decisione di formare una forza comune denominata “Forza congiunta per la risoluzione dei conflitti e l’estensione della sicurezza”, sotto il comando del Maggiore Generale della regione militare occidentale, Osama al-Juwayli. La forza è costituita da 3 battaglioni di fanteria leggera della regione centrale ed occidentale e la forza antiterrorismo, oltre alle unità del ministero dell’Interno. Il suo compito principale sarà quello di fornire sicurezza ai cittadini e alle loro proprietà, oltre a monitorare la situazione affinché venga rispettato il cessate il fuoco tra i vari gruppi in conflitto a Tripoli e nei suoi dintorni5. Al contempo, nelle ultime settimane, si susseguono speculazioni relative alla crescita di influenza di Haftar su molte milizie nell’ovest del paese o perlomeno sulla disponibilità di queste a non ostacolare un eventuale ingresso di Haftar nella capitale.
Sul processo legislativo interno in vista delle elezioni la data stabilita dalle parti a Parigi in cui la Camera dei Rappresentati di Tobruk avrebbe dovuto consegnare una legge elettorale per il paese, non è stata rispettata facendo decadere completamente la Dichiarazione di Consenso raggiunta lo scorso 29 maggio a Parigi. L’impasse istituzionale è dettata da ragioni politiche piuttosto chiare. Il summit di Parigi stabiliva che la Costituzione provvisoria, che definisce il quadro istituzionale nel quale le elezioni si debbano tenere e che è stata redatta dall’Assemblea costituzionale, sarebbe stata approvata tramite un referendum. Al parlamento di Tobruk spetta il compito di promulgare una legge che istituisca questa consultazione pubblica. Il referendum si doveva appunto tenere entro il 16 settembre, ma entro quella data Tobruk non ha mai legiferato. Lo ha fatto solo successivamente ma senza avere il numero legale per farlo. Le difficoltà da parte di Tobruk nascono dal fatto che la Carta costituzionale preveda che non sia candidabile a ruoli politici chi ha la doppia nazionalità e assegna al presidente il ruolo di comandante in capo delle forze armate, un chiaro ed evidente contrasto con le ambizioni di Haftar, che peraltro detiene una doppia cittadinanza libica e americana. Questa situazione complica quindi, a livello istituzionale, un già complesso quadro politico.
Serraj nelle ultime settimane ha anche annunciato l’adozione del programma di riforma economica concordato con l’Alto Consiglio di Stato (a Tripoli) e il governatore della Banca centrale libica, Sadiq al-Qabir. Il pacchetto prevede diversi interventi atti ad alleviare il costante peggioramento delle condizioni di vita: la modifica del tasso di cambio, gli addebiti sulle vendite di valuta estera per scopi commerciali e personali, l’allocazione di una percentuale delle tasse sulle vendite di valuta estera per ridurre l’entità del debito pubblico, l’aumento del tetto delle rimesse ai fini di trattamenti sanitari e di studio e l’aumento di 500 dollari al valore delle indennità per i capi famiglia, misure che appaiono un palliativo di fronte alla necessaria riforma radicale del sistema economico libico6.
In questa situazione il sedicente Stato islamico (IS), privato del controllo territoriale in diverse aree del paese, da Sirte a Bengasi, pare poter avviare una nuova fase di recrudescenze tramite l’uso di attentati mirati. Secondo il sito d’intelligence Site, ora sarebbe pronto a colpire i pozzi petroliferi e le risorse economiche del popolo libico. IS ha per esempio rivendicato l’attentato terroristico del 10 settembre al quartier generale della National Oil Corporation (Noc) a Tripoli che ha causato due vittime.
Relazioni esterne
Ad aggravare una situazione interna già assai complessa vi è l’azione di numerosi attori esterni che, nel tentativo di orientare la situazione libica a vantaggio dei propri interessi, alimentano il caos e l’instabilità. È stato più volte lo stesso inviato Onu Ghassan Salamé a lanciare allarmi sulla possibilità di mantenere lo status quo in Libia ancora a lungo. Visto il protrarsi della situazione di stallo politico e l’inefficacia dell’azione delle Nazioni Unite per risolvere la controversia, Salamé il 5 settembre scorso davanti al Consiglio di Sicurezza Onu ha avanzato una serie di alternative qualora una legislazione adeguata non venga prodotta in tempi rapidi. Nella redazione di una sorta di “piano B” rispetto all’attuale roadmap è risultata particolarmente attiva la nuova vice rappresentante speciale per la Libia la statunistense, Stephanie Williams. Alcune di queste idee sono circolate nelle scorse settimane. Vi sarebbe per esempio l’ipotesi piuttosto radicale di chiedere al Consiglio di Sicurezza di ritirare il riconoscimento a tutte le istituzioni politiche che trovano la loro legittimazione nella risoluzione Onu 2259. Inoltre l’Onu, qualora non si trovasse un framework legislativo adatto, valuterebbe le elezioni presidenziali in modo piuttosto negativo: un rischio di dividere il paese, peggiorando la situazione attuale, perciò suggerirebbe di organizzare elezioni parlamentari basate sull’attuale legislazione. Infine si chiederebbe a Stati Uniti e alleati di supervisionare il processo impedendo alle varie fazioni di intervenire per boicottarlo7.
Nel percorso di mediazione internazionale si inserisce anche l’azione italiana. La conferenza convocata in Italia – con data probabile il 12 novembre – prevede la più ampia partecipazione di esponenti internazionali e di leader libici, come rappresentanti municipali, membri tribali e importanti attivisti libici. Una delle critiche principali mosse al vertice di Parigi era infatti quella relativa alla scarsa inclusività dei rappresentanti libici. Il lavoro diplomatico si prospetta difficile. Per ottenere un risultato soddisfacente gli attori esterni dovrebbero trovare un accordo preliminare tra loro. Mentre Washington e Roma sembrano spingere per un rinvio a data da destinarsi delle elezioni, Parigi continua a insistere sul rispetto della deadline del 10 dicembre. Il governo di Giuseppe Conte e l’amministrazione Trump sembrano aver trovato una linea comune che perseguono coerentemente a seguito del vertice bilaterale del luglio scorso a Washington. Egitto ed Emirati Arabi Uniti continuano a supportare il parlamento di Tobruk e il generale Haftar, mentre l’azione della Francia, nonostante l’appoggio formale accordato al governo di accordo nazionale di Serraj, è orientata al rafforzamento politico di Haftar. La consapevolezza del procrastinarsi di un dispendioso “gioco a somma zero” fatto di spinte contrapposte potrebbe favorire un’azione di mediazione ben organizzata.
Roma potrebbe essere nella posizione giusta per condurla. Si deve all’Italia, più che ad altri attori, l’instaurazione di una prima bozza di reale governo della Libia, il governo di unità nazionale. Cosa che, tra le altre, ha permesso di avere un referente nel tentativo – di discreto successo – di arginare i flussi migratori. È però indispensabile che si arrivi alla conferenza dopo un lavoro di preparazione “bottom-up”, inclusa un’opera di convincimento degli attori non statuali che al momento della conferenza avrebbero la possibilità di manifestare apertamente le proprie posizioni e i propri obiettivi politici. Più sensibili rimangono i rapporti con la Francia e Haftar. Quest’ultimo in agosto aveva contestato con durezza alcune dichiarazioni dell’ambasciatore italiano Giuseppe Perrone in merito alla difficoltà di tenere le elezioni nelle condizioni di insicurezza attuali, sino a dichiararlo persona non grata. La piccola crisi pare essersi ricomposta grazie al recente incontro con il ministro degli Esteri italiano Moavero Milanesi, ritenuto soddisfacente da ambo le parti. Se da una parte Moavero Milanesi ha annunciato il consolidamento della fiducia tra Italia e istituzioni di Tobruk, dall’altra Haftar ha mostrato apprezzamento per l’operato italiano in Libia.
L’iniziativa diplomatica dovrebbe poi essere accompagnata dal tentativo di includere le milizie nella ricostruzione dello stato libico. Un tentativo di coinvolgimento vi era stato, in particolare durante il periodo di Ali Zeidan (2012-2014), ma ha avuto scarso successo. Ciò è stato dovuto in particolare al fatto che lo sforzo di integrazione delle milizie nella polizia o nelle forze armate sia rimasto solamente un tentativo “tecnico” e non realmente politico. È mancato sostanzialmente un vero programma di disarmo smobilitazione e reintegrazione (Ddr) tale da restituire allo stato il monopolio legittimo dell’uso della forza: in particolare i gruppi armati non sono stati sufficientemente incentivati a disarmarsi, attraverso la prospettiva di un processo di reintegrazione per l’intero gruppo che non è solo sociale ed economico del singolo ex-combattente, ma anche politico. Il risultato è stato che le milizie hanno ottenuto una doppia affiliazione: formalmente erano sotto il controllo del ministero dell’Interno o della Difesa, mentre informalmente continuavano ad appartenere alla comunità locale che le aveva costituite e alla leadership, il signore della guerra o il leader tribale di riferimento.
Anche in questa prospettiva appare interessante un primo tentativo di coordinamento tra Italia ed Egitto per allargare il primo dialogo tra milizie libiche messo in atto dal Cairo nei mesi scorsi. Complessivamente restano i dubbi circa la possibilità che un processo di mediazione così complesso e un così profondo rinnovamento dell’iniziativa della comunità internazionale e delle Nazioni Unite possa essere conseguito in un lasso di tempo che intercorre da qui a metà novembre.
1 Le quattro milizie sono la Forza speciale di deterrenza (Forza Rada) guidata da Abdelraouf Kara; il Battaglione Nawasi di Abdellatif Qaddur, espressione del quartiere di Souq al-Juma’a; la Brigata dei rivoluzionari di Tripoli con a capo Haithem al-Tajouri e l’Unità di Abu Salim agli ordini di Abdel Ghani al-Kikli.
2 W. Lacher, A. al-Idrissi, “Capital of Militias. Tripoli’s Armed Groups Capture the Libyan State”, giugno 2018, http://www.smallarmssurvey.org/fileadmin/docs/T-Briefing-Papers/SAS-SANA...
3 http://www.ansamed.info/ansamed/en/news/sections/politics/2018/09/07/lib...
4 Si veda quanto riportato da Lorenzo Cremonesi, Corriere della Sera: https://www.ispionline.it/it/eventi/evento/libia-crisi-cronica
5 https://specialelibia.it/2018/09/16/decisioni-di-sicurezza-per-fayez-al-...
6 https://specialelibia.it/2018/09/13/riforma-economica-ne-parliamo-con-le...
7 E. Muntasser, M. Fouad, “Can Plan B Save Libya? Here Are the Obstacles it Must Overcome”, Atlantic Council, 6 settembre 2018. http://www.atlanticcouncil.org/blogs/menasource/can-plan-b-save-libya-he...