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Focus Mediterraneo Allargato n.8

Focus paese: Turchia

Valeria Talbot
28 settembre 2018

Il voto del 24 giugno ha confermato Recep Tayyip Erdoğan alla presidenza della Turchia e il suo Partito Giustizia e Sviluppo (Akp) alla guida del paese in coalizione con il Partito del Movimento nazionalista (Mhp). Le elezioni parlamentari e presidenziali hanno inoltre reso effettiva la riforma costituzionale, approvata nel referendum di aprile 2017, di cui Erdoğan è stato il principale artefice. Questa ha sancito il passaggio del sistema istituzionale turco da repubblica parlamentare a presidenziale, con un presidente dagli ampi poteri esecutivi. I mesi successivi sono stati caratterizzati da un processo di adattamento interno al nuovo sistema costituzionale in una situazione di forte instabilità economica dovuta all’ulteriore crollo della lira turca. Sulla crisi valutaria ha pesato anche il deterioramento delle relazioni con gli Stati Uniti e la decisione del presidente americano Donald Trump di adottare dazi su alcuni prodotti turchi.

Sul piano esterno, la politica mediorientale, in particolare il conflitto in Siria, continua a prevalere nell’agenda di politica estera di Ankara producendo importanti ricadute nelle relazioni con gli altri attori regionali e con le potenze internazionali. Mentre lo strappo con Washington diventa sempre più profondo, la Turchia sembra volgere sempre di più lo sguardo verso la Russia e la Cina. Infine, nelle controverse relazioni con l’Europa sembra essersi aperta una fase di distensione, mossa da reciproci interessi economici, energetici e di sicurezza, sebbene la prospettiva dell’adesione all’Unione europea oggi non sia più sul tavolo negoziale.

Quadro interno

Le elezioni parlamentari e presidenziali turche, inizialmente previste per novembre 2019, sono state anticipate a giugno 2018. Le difficoltà dell’economia turca sono state una delle ragioni che hanno mosso la scelta del presidente Erdoğan.

Con il 52,59% dei consensi Erdoğan ha realizzato l’obiettivo di guidare il paese fino al 2023, anno del centenario della Repubblica turca. Non è inoltre escluso che egli rimanga in carica fino al 2028 in virtù della possibilità di correre per un ulteriore mandato. Il principale sfidante del presidente, Muharrem İnce, candidato del Partito repubblicano del ropolo (Chp), ha ottenuto il 30,64% delle preferenze, mentre Selahattin Demirtaş del Partito democratico dei popoli (Hdp) e Meral Akşener del Partito Buono hanno raggiunto rispettivamente l’8,40% e il 7,29%. Se le principali formazioni di opposizione hanno corso individualmente per le presidenziali, esse si sono invece unite nell’Alleanza nazionale (formata da Chp, Partito della Felicità (SP), Partito democratico (DP) e Partito Buono) per le parlamentari, dove hanno ottenuto il 33,95% dei voti, corrispondente a 189 seggi su 600. A ottenere la maggioranza, con 344 seggi su 600, è stata l’Alleanza del Popolo, composta dall’Akp e dal Mhp. Nonostante si sia confermato il primo partito del paese, l’Akp ha perso 7 punti percentuali rispetto alle elezioni di novembre 2015 e anche la maggioranza assoluta, goduta nelle precedenti legislature, che riesce a raggiungere solo con il sostegno dell’alleato nazionalista. L’Hdp da solo ha raggiunto l’11,7% delle preferenze (67 seggi), superando la soglia di sbarramento del 10% stabilita per l’accesso in parlamento. Espressione dell’elettorato curdo, l’Hdp è stato fondato da Selahattin Demirtaş nel 2012 ed è entrato per la prima volta nell’Assemblea nazionale nel 2015. Demirtaş, arrestato nel novembre del 2016 con l’accusa di favorire il terrorismo, ha condotto la propria campagna elettorale dal carcere.

Il risultato elettorale riflette l’immagine di un paese che continua a essere profondamente polarizzato, ma ciò che emerge con maggiore chiarezza, oltre alla fiducia che la maggioranza dei turchi continua a riporre in Erdoğan, è il rafforzamento del sentimento nazionalista nel paese, alimentato negli ultimi anni da un’accesa retorica contro i nemici della Turchia, siano essi i militanti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) o non ben definite interferenze di attori esterni. Sebbene appartenenti a due alleanze politiche contrapposte in questa tornata elettorale, il Partito del movimento nazionalista (Mhp) di Devlet Bahçeli e il Partito Buono, nato nell’ottobre del 2017 dopo la scissione operata da Meral Akşener, hanno ottenuto oltre il 21% dei consensi, quasi il doppio rispetto all’11,90 % delle legislative di novembre 2015, quando il partito nazionalista correva unito.

Questo voto ha reso effettiva la riforma costituzionale, approvata tramite referendum nell’aprile del 2017, che prevede la trasformazione della Turchia in una repubblica presidenziale, con un presidente che viene eletto ogni 5 anni. La riforma ha abolito la carica di primo ministro: è il presidente, che può essere a sua volta anche leader di partito, ad assumere le prerogative che precedentemente spettavano al primo ministro, quali la nomina dei ministri. Tra i poteri del presidente vi è anche l’emanazione di decreti con effetto di legge. Sono di nomina presidenziale anche i vertici delle forze armate, dell’intelligence, del consiglio di sicurezza nazionale, dell’accademia di polizia, di parte dei giudici della Corte costituzionale, del Consiglio superiore della magistratura, delle alte cariche delle istituzioni e dei rettori delle università. La grande assemblea nazionale turca, che può essere sciolta dallo stesso presidente, può avviare, a maggioranza dei suoi membri, la procedura di impeachment del capo dell’esecutivo. In base alla riforma costituzionale, i membri del parlamento passano da 550 a 600, mentre l’età minima per accedervi è stata ridotta a 18 anni.

La novità più importante del nuovo esecutivo è stata la nomina del genero del presidente, Berat Albayrak, a ministro dell’Economia e delle Finanze. Ciò non ha mancato di produrre contraccolpi sulla già fragile lira turca e ha messo in agitazione i mercati. Tale nomina infatti è stata percepita come una mossa di Erdoğan per influire maggiormente sulla politica economica e monetaria del paese. Negli ultimi anni infatti sono cresciute le pressioni presidenziali sulla Banca centrale per mantenere bassi i tassi di interesse. Tuttavia, i mercati hanno guardato con grande preoccupazione a misure, quali la riduzione dell’inflazione attraverso il taglio dei tassi d’interesse, che hanno impattato negativamente sull’andamento della moneta turca. A ciò si è aggiunta l’emanazione, all’indomani dell’insediamento del governo, di un decreto che attribuisce al presidente il potere di nominare il governatore della Banca centrale, riducendone il mandato da cinque a quattro anni.

L’economia è dunque la sfida principale e più urgente per il presidente turco. La svalutazione della lira, che a metà agosto ha toccato i minimi storici (7,3 lire per un dollaro) mentre l’inflazione sfiorava il 18%, è il segnale più evidente di un’economia in affanno. Tuttavia, in vista delle amministrative di marzo 2019, sembra difficile che Erdoğan si spinga ad adottare quelle misure di austerità necessarie per ridurre il debito, fare ripartire l’economia e riguadagnare la fiducia dei mercati. La crisi ha messo in evidenza le fragilità di una crescita economica trainata soprattutto da consistenti programmi di spesa per grandi progetti infrastrutturali finanziati con l’aumento del debito. Il crollo della lira ha prodotto un forte rallentamento della crescita nel terzo trimestre del 2018 (nel 2017 si era attestata al 7,4%). Negli ultimi anni la Turchia ha preso a prestito ingenti capitali sui mercati internazionali e oggi deve far fronte a un crescente deficit delle partite correnti (5,6% del Pil, pari a 47,4 miliardi di dollari nel 20171) e a un elevato debito estero. Secondo i dati del ministero dell’Economia e delle Finanze, a fine marzo il debito estero lordo della Turchia era di 466,67 miliardi di dollari, pari al 52,9% del Pil. Nel tentativo di stabilizzare la situazione economica a metà settembre è giunta la decisione della Banca centrale di alzare i tassi di interesse al 24% (da 17,9%) in contrasto con la politica del presidente Erdoğan.

Oltre alla crisi valutaria che ha investito il paese, il quadro politico interno è stato caratterizzato dalla decisione del nuovo esecutivo di mettere fine allo stato di emergenza, decretato il 20 luglio del 2016 in seguito al tentativo di colpo di stato e rinnovato per ben sette volte negli ultimi due anni. Tuttavia, molte misure in vigore sotto lo stato di emergenza – quali il licenziamento di funzionari pubblici sospettati di legami con gruppi terroristici, l’estensione dei tempi di detenzione da 24 a 48 ore (quattro giorni in caso di arresti di gruppo), l’attribuzione di poteri speciali ai governatori locali, tra cui restringere la libertà di movimento e bandire le manifestazioni di protesta – sono state reintrodotte nel nuovo pacchetto anti-terrorismo approvato dal parlamento lo scorso luglio. Se l’obiettivo del governo è quello di mantenere alta la guardia per contrastare la minaccia terroristica, l’opposizione non ha mancato di criticare aspramente delle misure che invece vengono considerate come un’estensione dello stato di emergenza sotto altra veste. Priorità dell’agenda politica e di sicurezza delle autorità turche continua a essere la lotta al Pkk, tanto sul piano interno quanto su quello esterno.

Relazioni esterne

Sul piano internazionale, gli ultimi mesi hanno visto un progressivo deterioramento delle relazioni con gli Stati Uniti. L’ultimo casus belli è stato il mancato rilascio del pastore americano Andrew Brunson, agli arresti domiciliari dopo un anno e mezzo di detenzione con l’accusa di terrorismo e di essere affiliato all’organizzazione di Fetullah Gülen. Ciò ha provocato una dura reazione da parte dell’amministrazione Trump che ha adottato sanzioni contro i ministri turchi dell’interno e della giustizia nonché misure commerciali, come il raddoppio dei dazi sull’acciaio e l’alluminio provenienti dalla Turchia con pesanti ripercussioni sulla già debole lira turca. Tuttavia, l’affare Brunson ha solo contribuito ad acuire tensioni e divergenze tra Ankara e Washington che si protraggono da oltre due anni. Le principali criticità nelle relazioni bilaterali riguardano innanzitutto l’estradizione di Gülen, richiesta con insistenza dalle autorità di Ankara dopo il fallito colpo di stato di luglio 2016 di cui il predicatore islamico è stato considerato il responsabile, cui gli Stati Uniti non hanno finora dato seguito. A questo si aggiunge il sostegno statunitense alle milizie curde siriane del Ypg, alleato chiave di Washington nell’offensiva di terra contro lo Stato islamico in Siria. Ypg che invece viene considerato da Ankara un’organizzazione terroristica alla stregua del Pkk, con cui mantiene stretti legami. Non da ultimo, la decisione turca di acquistare il sistema di difesa missilistico russo S-400 ha provocato una dura reazione da parte dell’amministrazione americana e degli altri alleati della Nato. Non solo la tecnologia russa risulta incompatibile con i sistemi utilizzati dall’Alleanza atlantica, ma la mossa di Ankara ha riaperto un dibattito sulla solidità dei suoi legami all’interno della Nato, di cui il paese è membro dal 1952. Inoltre, gli Stati Uniti hanno minacciato di cancellare la vendita di caccia F-35 per esercitare pressioni sulla Turchia a non dotarsi del sistema russo, la cui consegna sarebbe prevista per la metà del prossimo anno.

Alla luce della crisi con gli Stati Uniti, Erdoğan ha prontamente dichiarato che la Turchia dispone di alternative2, riferendosi al fatto che il paese non si preclude la possibilità di ricercare nuovi partner e alleati. Il riferimento è soprattutto a Russia e Cina con cui Ankara negli ultimi anni ha approfondito la cooperazione in diversi ambiti sulla scia di interessi economici, energetici e di sicurezza. Per quanto riguarda la Russia, se nella crisi siriana si è verificata una graduale convergenza della Turchia con Mosca confluita nel Processo di Astana, non mancano posizioni divergenti su una serie di dossier, dal Medio Oriente al Caucaso, dalla Crimea all’Ucraina. Anche sul futuro della Siria permangono sostanziali divergenze, sebbene sia grazie al benestare russo che la Turchia mantiene una presenza militare nel paese. L’accordo raggiunto tra Ankara e Mosca a metà settembre sembra scongiurare, almeno fino a metà ottobre, l’offensiva dell’esercito siriano per la riconquista Idlib, una delle quattro aree di de-escalation stabilite da Russia, Iran e Turchia nell’ambito del processo di Astana, nota anche per essere la roccaforte di Hayat Tahrir al-Sham, gruppo terrorista legato ad al-Qaida, e di altre forze dell’opposizione al regime di Assad. A Sochi, lo scorso 17 settembre, Putin e Erdoğan hanno raggiunto un accordo per la creazione di una zona cuscinetto demilitarizzata, tra i 15 e i 20 chilometri, da cui espellere tutti gruppi radicali presenti. Se evitare un’altra crisi umanitaria con nuovi flussi di profughi verso la Turchia (sono oltre 3,5 milioni i rifugiati siriani registrati dall’Unhcr in territorio turco) è stata una delle ragioni di fondo dietro all’accordo, resta da vedere se si riuscirà a implementarlo in trenta giorni. Resta anche da vedere in che modo Ankara riuscirà a indurre i gruppi radicali presenti a Idlib ad aderire all’accordo e a consegnare le armi in loro possesso.

Per quanto riguarda la Cina, si registra invece un graduale ampliamento del raggio della cooperazione. Il perno dei rapporti bilaterali rimane l’economia: Pechino primeggia tra i paesi fornitori di Ankara, che dal canto suo punta anche ad attrarre investimenti cinesi nei grandi progetti infrastrutturali (e non solo) nell’ambito della nuova via della Seta (Belt and Road Initiative – Bri). Da entrambe le parti cresce inoltre l’interesse ad allargare la cooperazione al settore militare e della difesa. Secondo la stampa turca, sembra che proprio sicurezza e difesa siano stati i temi al centro dei colloqui tra i vertici turchi e cinesi in occasione dell’incontro tra Erdoğan e il presidente cinese Xi Jing Ping ai margini del summit dei Brics di Johannesburg a fine luglio3.

Sul fronte europeo, nell’ultimo mese segnali di apertura sono venuti dai paesi UE, preoccupati delle ricadute sulle economie del continente della crisi valutaria turca. I paesi europei hanno infatti tutto l’interesse a evitare una destabilizzazione economica della Turchia: essi sono infatti tra i principali investitori nel paese, banche europee detengono buona parte del debito estero turco mentre l’Unione nel suo complesso rappresenta il primo partner commerciale di Ankara. Non da ultimo, l’atteggiamento europeo riflette la necessità di mantenere la cooperazione con il governo turco in materia di lotta al terrorismo e di gestione dei flussi migratori. Di recente, in Turchia la dura retorica anti europea degli ultimi anni sembra lasciare spazio a considerazioni sull’opportunità di rinvigorire le relazioni con l’Europa, dopo una prolungata fase di tensioni4. In questo contesto si inserisce il rinnovato dialogo con il cancelliere tedesco Angela Merkel, che il presidente Erdoğan incontrerà nel corso della sua prossima visita a Berlino a fine settembre.

 

1 Dati Economist Intelligence Unit.

2 R. T. Erdoğan, “How Turkey Sees the Crisis With the U.S.”, New York Times, 10 agosto 2018, https://www.nytimes.com/2018/08/10/opinion/turkey-erdogan-trump-crisis-s...

3 M. Gurcan, “Following deals with Russia, Turkey now expands military cooperation with China”, Al Monitor, 3 agosto 2018, http://www.al-monitor.com/pulse/originals/2018/08/turkey-china-intensify...

4 S. Idiz, “Is Washington pushing Turkey and Europe toward each other?”, Al Monitor, 22 agosto 2018 https://www.al-monitor.com/pulse/originals/2018/08/turkey-united-states-...

 

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Eleonora Tafuro Ambrosetti
ISPI Research Fellow
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