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REAGIRE ALLA CRISI

Fondo salva-Stati (MES): sì o no?

Antonio Villafranca
04 Dicembre 2020

La riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), più comunemente noto come Fondo salva-Stati, è nell’agenda dell’Eurogruppo da dicembre scorso. Era stata proprio l’Italia a bloccarla perché rinveniva aspetti potenzialmente lesivi dei propri interessi nazionali. Con l’arrivo della pandemia la questione era stata messa da parte, mentre per il MES si è prevista la possibilità di erogare eccezionalmente prestiti per supportare la spese sanitarie (ma senza i vincoli normalmente necessari per la sua attivazione). 

La notizia della settimana è però che l’Italia ha ritirato il proprio veto alla riforma del MES (mentre al momento rimane il no al suo utilizzo). Lo scorso 30 novembre l’Eurogruppo ha così potuto approvare la riforma del MES. Ma è presto per scrivere la parola fine: la ratifica spetta ora ai Parlamenti nazionali, con il nostro che dovrà esprimersi il prossimo 9 dicembre. L’esito è tutt’altro che scontato perché l’opposizione si è schierata per il no e anche nella maggioranza i distinguo sono molti.

Cosa prevede dunque la riforma del MES e perché le reticenze italiane? E cosa c’entra questa riforma con i miliardi che l’Italia si rifiuta di chiedere in prestito dal MES per sostenere le spese sanitarie?

 

Cosa è e perché nasce il Fondo salva-Stati?

Per comprendere appieno la riforma del MES bisogna fare un passo indietro e capire perché è stato creato. Tutto nasce nel 2010-2011 quando alcuni Paesi Ue si trovarono sull’orlo del tracollo finanziario.  Ci si era scontrati con l’art. 123 dei Trattati che vieta agli Stati membri (e alla BCE) di “salvare” Paesi in difficoltà. La logica di questo articolo è chiara: gli Stati membri non devono essere incentivati a indebitarsi nella convinzione che altri Paesi correranno in loro aiuto. Ma i tempi erano eccezionali e la crisi mordeva l’economia reale falciando posti di lavoro. Da qui l’”aggiramento” dell’art. 123 prima con un fondo temporaneo (l’EFSF che aveva già concesso 175 miliardi di euro di prestiti a Irlanda, Portogallo e Grecia) e poi con uno permanente, il MES, peraltro dietro forte richiesta dell’Italia che rischiava di non avere ancore di salvezza europee nel caso il ripagamento del proprio debito pubblico risultasse insostenibile. Una ipotesi tutt’altro che peregrina allora come (purtroppo) anche adesso.

Nasce dunque il MES: una organizzazione internazionale costituita con un Trattato affiancato – ma non incluso – a quelli UE e che può contare su un capitale di 700 miliardi di euro di cui gli Stati membri iniziano a versare pro quota 80 miliardi di euro (con quasi il 27% del capitale la Germania è il primo contributore; l’Italia partecipa con il 18%). Il MES può concedere prestiti ai Paesi in difficoltà – e lo ha fatto finora con Cipro (6,3 miliardi di euro), Grecia (61,9 miliardi) e Spagna (41,3 miliardi) – ma a fronte di una rigida condizionalità. In pratica, chi riceve i prestiti si obbliga ad approvare un memorandum d’intesa (MoU) che definisce con precisione e rigore quali misure si impegna a prendere in termini di tagli al deficit/debito e di riforme strutturali. 

 

Perché la riforma del MES?

La riforma del MES nasce dall’esigenza di inserire il Fondo all’interno della cornice istituzionale dell’UE. In pratica si teme che il MES, così come è stato creato, non risulterebbe pienamente adeguato nel caso si ripresentassero condizioni che mettano a rischio la tenuta dell’Eurozona. Di riforma e rafforzamento del MES si parla ormai da alcuni anni con proposte – soprattutto da parte dei Paesi ‘rigoristi’ del Nord – che in effetti avrebbero potuto essere rischiose per l’Italia. Proposte che però in buona parte sono state superate.

Dopo una lunga negoziazione, si è infatti giunti a una soluzione di compromesso che introduce due rilevanti riforme. La prima è di grande importanza e urgenza: sarà proprio il MES a fornire il backstop al Fondo di risoluzione comune delle banche. In pratica se una o più banche fossero in grave difficoltà, il MES sarà il garante del Fondo di risoluzione comune. Quest’ultimo è un fondo in corso di creazione ed è stato pensato per accantonare, tramite contributi delle banche dei Paesi membri, le risorse necessarie per “salvare” banche di interesse per l’intera UE. Una riforma non facile da accettare per i Paesi del Nord Europa che temono di dover far fronte agli eccessivi rischi assunti dalle banche degli altri Paesi, a partire da quelle del sud dell’Europa. Val la pena al riguardo rilevare che il salvataggio delle banche in crisi può avvenire anche in Paesi con conti pubblici in ordine (come ad esempio la Germania), anche se appare più probabile nei Paesi finanziariamente più fragili del Sud dell’Europa.

Ma la riforma del MES che ha attirato maggiori critiche è la seconda, ovvero quella che riguarda il ‘salvataggio’ di interi Paesi. Per capirci di più va ricordato anzitutto che il MES può intervenire a favore dei Paesi membri attraverso due possibili linee di credito, le Precautionary Conditioned Credit Lines (PCCL) e le Enhanced Conditions Credit Lines (ECCL). Il Trattato originario del MES stabiliva che alle PCCL potessero accedere i Paesi potenzialmente a rischio che osservassero le seguenti condizioni: il rispetto del Patto di Stabilità e Crescita e un debito pubblico sostenibile. Ai prestiti erano legate condizionalità – come per esempio tagli alla spesa pubblica e riforme strutturali – molto meno stringenti rispetto a quelle connesse alle ECCL, le linee di credito per i Paesi più indebitati. Con la riforma, le condizioni di accesso alle PCCL diventeranno più stringenti: il Paese che le richiede non dovrà essere in procedura di infrazione, dovrà rispettare il Patto di Stabilità e Crescita da almeno due anni e il suo debito pubblico non dovrà superare il 60% del Pil (anche se ovviamente ora bisognerà tener conto della sospensione del Patto voluto dalla Commissione UE dopo lo scoppio della pandemia). In questo modo, l’accesso a prestiti con minori condizionalità potrebbe essere concesso a un numero inferiore di Paesi europei. 

Altro punto fondamentale riguarda i passaggi da compiere prima che il MES intervenga in soccorso di un Paese membro. La riforma del Fondo salva-Stati pone come fase necessaria la ristrutturazione del debito pubblico del Paese in questione. Quest’ultima consiste nella decurtazione del valore dei titoli di Stato di un Paese. La logica è la seguente: chi ha acquistato il titolo di un Paese con conti pubblici traballanti lo ha fatto perché attratto dalla prospettiva di un maggior guadagno in termini di interessi rispetto a quanto offerto da Paesi con conti pubblici solidi. L’ha fatto quindi con una prospettiva di lucro, ma assumendosene anche i rischi. Sembrerebbe quindi naturale che paghi le conseguenze di questo rischio con una decurtazione nel valore dei titoli che possiede. Il MES interverrà, se necessario, solo dopo questa decurtazione. 

I Paesi del Nord spingevano perché la ristrutturazione del debito avvenisse il prima possibile, per limitare al massimo l’intervento del MES (e quindi il rischio di mettere mano al loro portafogli). In una prima ipotesi ad esempio il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, spingeva addirittura per una ristrutturazione automatica da attivare secondo regole trasparenti e predefinite. Questa sarebbe stata un’opzione potenzialmente pericolosa per un Paese altamente indebitato come il nostro perché avrebbe potuto generare spirali speculative sui mercati: i grandi speculatori avrebbero infatti potuto “scommettere” contro il Paese in difficoltà spingendolo verso la soglia di attivazione automatica secondo il più classico esempio della “profezia che si auto-avvera”. Questa prospettiva è stata però fortemente attenuata nel corso della negoziazione: nell’ultimo testo del Trattato sul MES si prevede che, prima dell’avvio della ristrutturazione del debito, si proceda a un’analisi della sostenibilità del debito stesso, legata quindi alla futura capacità del Paese di ripagarlo. Una analisi che verrà fatta sia dalla Commissione che dal MES. 

L’affiancamento del MES (istituzione intergovernativa), alla Commissione (istituzione sovranazionale) è uno dei punti critici della riforma: il MES prenderà in considerazione principalmente la capacità del Paese di ripagare il prestito del MES stesso (e non necessariamente l’interesse dell’intera UE, come fa invece la Commissione). Se il risultato fosse negativo, il Paese sarebbe tenuto alla ristrutturazione del proprio debito, peraltro con regole di coinvolgimento dei detentori dei titoli rese più veloci e ordinate. Se il Paese non presenta un debito sostenibile - malgrado la ristrutturazione del proprio debito o se si rifiuterà di provvedervi - non potrà ricorrere ai prestiti del MES.

 

Per la sanità…un MES diverso

In un incontro dell’Eurogruppo dello scorso aprile, in piena prima ondata di COVID-19, i ministri delle Finanze dell’Eurozona avevano approvato tre strumenti di sostegno agli Stati membri messi in ginocchio dalla pandemia. Tra questi, veniva riproposto il MES, nonostante alcuni Paesi europei – in particolare quelli meridionali – rifiutassero di considerare il Fondo come lo strumento adeguato per rispondere alla crisi economica post-pandemica a causa delle condizionalità cui è vincolato. 

Per questo motivo, l’Eurogruppo aveva optato per una modifica temporanea al funzionamento del MES. I Paesi nordici si erano impuntati nel non dispiegare l’intera potenza di fuoco del Fondo – oltre 400 miliardi – per contrastare la pandemia. Il compromesso prevede 240 miliardi di euro a tassi molto bassi (e con lunghe scadenze) per i governi maggiormente colpiti dal coronavirus, per un importo per singolo Paese che non eccedesse il 2% del loro Pil. L’Italia aveva – e ha tuttora – così la possibilità di ottenere circa 36 miliardi di euro. Le condizionalità tradizionalmente legate ai prestiti del MES vengono in questo caso fatte cadere, con l’unico vincolo legato all’utilizzo dei prestiti per spese sanitarie dirette o indirette. 

Finora nessun Paese membro ha deciso di attingere al MES per due motivi. Primo, perché nel frattempo è stato raggiunto l’accordo sul Recovery Fund (che pure prevede dei vincoli in termini di spesa e di riforme da realizzare, ma concede – oltre ai prestiti – anche una quota consistente di contributi a fondo perduto). Secondo, perché i tassi di interesse per indebitarsi sui mercati sono oggi piuttosto bassi e quindi il risparmio sui prestiti ottenuti, a tassi agevolati, dal Fondo sono limitati (comunque potenzialmente nell’ordine di alcune centinaia di milioni di euro per l’Italia). 

 

MES sì o MES no?

Qualche passaggio critico nel nuovo Trattato sul MES esiste, ma è bene non perdere di vista un elemento cruciale: il MES rappresenta comunque un importante esercizio di solidarietà europea. Una solidarietà ancora più importante per i Paesi più indebitati, a partire dall’Italia. 

Sui due temi della riforma sopra ricordati, va rilevato che l’introduzione del backstop al Fondo di risoluzione comune delle banche è importante per dare maggiore solidità al sistema bancario europeo e proteggerlo – almeno in parte – da una futura crisi finanziaria, da qualunque parte questa arrivi. Un’ipotesi di certo non da scartare dato l’enorme aumento del debito a livello mondiale dopo la pandemia.

Sul tema del “salvataggio” dei Paesi, va invece sottolineato che indebitarsi ancora sui mercati (per un Paese come l’Italia che lo è già fortemente) è più rischioso rispetto a indebitarsi verso l’UE. Ma ancora più in generale dovremmo porci una domanda: quale alternativa avremmo se il MES non ci fosse? Se i mercati giudicassero insostenibile il nostro debito ci costringerebbero, di fatto, a ristrutturarlo in modo traumatico e disordinato proprio per la mancanza di un arbitro pubblico (e potenziale finanziatore) come il MES. Pur con i suoi limiti, il MES è meglio averlo che non averlo. In fin dei conti, la vera questione per l’Italia non è tanto la riforma del MES, quanto piuttosto la sostenibilità del proprio debito. Un tema su cui fin troppo abbiamo finora sorvolato.

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Antonio Villafranca
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