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Commentary

Food: competizione globale per il vino

Denis Pantini
18 giugno 2021

Nel corso del decennio 2010-2019, l’export mondiale di vino è passato da 21,1 a 32 miliardi di euro, per poi ripiegare – causa Covid - a 29,9 miliardi nel 2020. Nell’ambito del commercio mondiale di prodotti alimentari, il vino è stato quello più colpito dagli impatti della pandemia: mentre l’export mondiale a valori di food&beverage, tra il 2019 e il 2020, ha subito una diminuzione impercettibile (-0,2%), quello di vino ha perso quasi il 7%.

Il motivo di tale riduzione è da ascriversi principalmente ai provvedimenti di chiusura di bar e ristoranti (e, più in generale del canale Ho.re.ca.) resi necessari per contenere la diffusione del coronavirus. Per quanto i consumi di vino si siano spostati da un canale all’altro (dall’on all’off-trade) con l’esplosione delle vendite nella Distribuzione Moderna e, in particolare, nell’e-commerce, tutto ciò non è bastato a compensare la diminuzione dei consumi “fuori-casa” del vino che, a differenza degli altri prodotti alimentari, trova nell’Ho.re.ca. uno dei principali sbocchi di mercato (in Italia, il peso dell’on-trade sulle vendite di vino a valore superava – prima dell’arrivo del Covid - il 40% del totale).

 

Le performance dei principali mercati

In generale, gli impatti della pandemia sono stati trasversali e comuni a molti mercati, tanto è vero che pochi Paesi hanno chiuso il 2020 con una crescita nelle importazioni di vino.

Considerando, ad esempio, i top dieci mercati per valore nell’import di vino, solamente tre hanno registrato variazioni positive rispetto all’anno precedente, vale a dire Svizzera (+0,5%), Svezia (+5,3%) e Danimarca (+5,2%). A parte il caso della Svizzera, negli altri due mercati la differenza l’ha fatta la gestione centralizzata della distribuzione del vino, regolamentata – per tutti i Paesi scandinavi - da un monopolio pubblico i cui punti vendita sono rimasti comunque aperti durante il 2020 e, di conseguenza, gli acquisti dall’estero non si sono mai interrotti (lo stesso è avvenuto per la Norvegia, le cui importazioni di vino sono cresciute del +15%).

Al contrario di quanto avvenuto invece negli Stati Uniti, il mercato più importante al mondo per import e consumi di vino: -11% il calo negli acquisti dall’estero, anche se il record in negativo spetta alla Cina con una riduzione di ben il 27%.

Gli effetti di queste riduzioni hanno colpito tutti i principali esportatori, anche se con intensità differenti. A livello di valore complessivo del vino esportato (e quindi senza distinzione per tipologia), è stata la Francia a pagare lo scotto più elevato (-11%), seguita da Sudafrica (-9%), Stati Uniti (-8%) e Cile (-7%). Italia e Australia hanno limitato i danni (poco più del -2%), la Spagna ha perso circa il 3%, mentre la Nuova Zelanda è andata in controtendenza, guadagnando quasi il 5%, sebbene tale performance sia risultata positiva solo grazie al contributo del vino sfuso (+26%), dato che nelle esportazioni di vini fermi imbottigliati anche i neozelandesi hanno subito una diminuzione di quasi il 3%.

 

Meno esportazioni di vino? Non solo Covid…

Occorre tuttavia specificare come dietro a queste variazioni non ci sia stato soltanto il Covid. Il pesante calo subito dalla Francia è anche il risultato di un anno di dazi aggiuntivi (del 25%) applicati dall’Amministrazione Trump (ma autorizzati dal WTO) nell’ambito del contenzioso Airbus-Boeing che ha visto contrapposti Usa e Ue per via di finanziamenti pubblici erogati alle relative industrie aeronautiche ritenuti distorsivi della concorrenza. Per quanto il dazio sia stato applicato ai produttori europei di vino (Italia esclusa), sono stati i vini francesi a subire le conseguenze più pesanti. E ciò è dipeso sia dal loro posizionamento di prezzo – tra i più alti del mercato -, sia in virtù della quota detenuta nelle importazioni di vini fermi imbottigliati negli USA, anche in questo caso tra le più rilevanti (30%).

Per quanto riguarda invece i vini australiani, il Covid rappresenta l’imputato principale del calo intervenuto nelle esportazioni, ma non solamente a causa dei provvedimenti restrittivi imposti sui consumi fuori-casa nei diversi mercati, quanto piuttosto dal deterioramento delle relazioni internazionali intervenuto con la Cina a seguito dello scoppio della pandemia.

Occorre infatti premettere come nel 2019 l’Australia sia diventato il principale fornitore di vino del Paese asiatico, grazie soprattutto a un accordo di libero scambio che, proprio dal 2019, ha permesso ai vini australiani di entrare in Cina a dazio zero, quando tutti gli altri esportatori europei pagano mediamente alle dogane cinesi un 14% di imposta. La crescita delle esportazioni di vini australiani in Cina è stata imponente. Se nel 2010 il peso ricoperto dall’Australia sulle importazioni cinesi di vino (a valore) era inferiore al 19%, nel 2019 tale incidenza è arrivata a superare il 35%, scalzando la Francia dal gradino più alto del podio sul quale sedeva da oltre trent’anni. Poi nel corso del 2020, le relazioni commerciali tra i due Paesi sono andate via via deteriorandosi, fino a raggiungere il punto più basso nel momento in cui l’Australia, nell’aprile dello scorso anno, ha richiesto assieme ad altri Paesi mondiali un’indagine indipendente sulle origini della pandemia di coronavirus all’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Tutto questo non è piaciuto al Governo di Pechino che, in tutta risposta, ha deciso di avviare una serie di verifiche anti-dumping sui prodotti di importazione australiani – tra cui il vino – che poi sono sfociate nella decisione di applicare dazi superiori al 200%. Risultato: da novembre 2020 le esportazioni di vino australiano in Cina si sono quasi azzerate, aprendo così spazi di mercato prontamente occupati dai competitor e, in particolare, dalla Francia che nel primo quadrimestre di quest’anno ha visto crescere di oltre il 40% - rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente - gli acquisti dei propri vini da parte del gigante asiatico, tornando in questo modo a ricoprire il ruolo di leader.

 

Geoeconomia del vino: “vecchio” vs. “nuovo” mondo

In conclusione e volendo tirare le somme sui cambiamenti intervenuti in questo ultimo anno nel commercio mondiale di vino, può essere indicativo considerare l’evoluzione dei rapporti di forza tra gli esportatori del “vecchio e “nuovo” mondo vinicolo, vale a dire tra quelli europei e quelli dei Paesi extra-UE. Ciò in ragione di un’accesa concorrenza che vede da anni contrapposte due diverse modalità di approccio competitivo al mercato internazionale: una più “tradizionale” (quella europea) dove storicamente la produzione nazionale trova nel mercato domestico il principale sbocco commerciale; e una più “globale” (Emisfero Sud) dove invece l’approccio strategico – dalla produzione alla commercializzazione – è pianificato e organizzato per raggiungere la massima efficienza e redditività, a prescindere dal mercato di vendita.

Ovviamente ciò discende anche dal ruolo occupato dal vino nelle modalità e abitudini di consumo delle popolazioni dei Paesi produttori, da quanto è più radicato nella cultura alimentare e, di conseguenza, dalla rilevanza economica che ne discende per le imprese. Basti infatti pensare, a titolo di esempio, che mentre la propensione all’export delle aziende vinicole italiane è mediamente pari al 40% (un’incidenza che, a volumi, nel decennio è rimasta costante), nel caso della Nuova Zelanda o del Cile supera il 70% e risulta progressivamente in crescita negli anni.

Considerando i primi cinque esportatori per entrambe le aree (Francia, Italia, Spagna, Germania, Portogallo da un lato e Australia, Nuova Zelanda, Cile, Stati Uniti e Sudafrica dall’altro), il confronto mette in luce un rapporto che nel corso dell’ultimo quinquennio non è cambiato sensibilmente. Se nel 2015, l’export a valore dei top cinque Paesi europei valeva 2,9 volte quello dei top cinque extra UE, nel 2020 tale rapporto è arrivato a 3,1, ripiegando da un 3,2 raggiunto prima della pandemia. Il tutto come conseguenza di una crescita cumulata che nel quinquennio considerato è stata del 7,6% per gli esportatori europei contro un 2% di quelli del “nuovo mondo”. Vista da un’altra angolazione, questa superiorità europea si è saldamente mantenuta in virtù di un’incidenza sul totale delle esportazioni mondiali di vino che dal 64,5% del 2010 è arrivata al 65,1% dieci anni dopo.

Ovviamente, i rapporti di forza assumono valori differenti se calati sulla realtà delle singole categorie. Nel caso dei vini fermi imbottigliati, pur a fronte di una netta superiorità del “vecchio mondo”, la crescita è risultata meno imponente (il rapporto è passato da 2,5 a 2,8) mentre nel caso degli spumanti la supremazia è risultata indiscutibile (il rapporto è pari a 37,6 a favore degli esportatori UE), alla luce di una vocazione e specializzazione dei Paesi europei che ha visto soprattutto l’export degli spumanti italiani crescere di quasi il 50% nel corso degli ultimi cinque anni.

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Denis Pantini
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