Che partito è, oggi, quello Repubblicano statunitense? Quali sono le sue forze e debolezze? Quali le sue prospettive a medio e breve termine, a partire ovviamente dal voto del novembre prossimo?
In estrema sintesi potremmo descrivere i Repubblicani come forza al contempo coesa e, su scala nazionale, ancora dominante. Se andiamo però a esaminare sia le matrici di tale coesione che i fattori dietro questo primato scorgiamo alcune evidenti, e per certi aspetti strutturali, fragilità. Coesione ed egemonia repubblicane rivelano insomma il duplice volto di un partito che per essere dominante si è trasformato e radicalizzato come pochi avrebbero potuto immaginare.
La coesione, innanzitutto. Vi è una marcata differenza tra i Democratici – che, per quanto spostatisi a sinistra negli ultimi anni, rimangono divisi secondo il cleavage consolidato (neo)liberal vs. Left – e un Partito Repubblicano nel quale dopo il vecchio establishment progressista della East Coast anche quello moderato e centrista pare essere in via d’estinzione. È, quella dei repubblicani, una coesione che si manifesta a diversi livelli: ideologico, sociale e, anche, razziale. Su temi politici nodali – supply side e tagli alle tasse, anche a costo di accettare altissimi deficit; aborto; impegno a nominare giudici conservatori; governo minimo, deregulation e negazionismo in materia di cambiamento climatico, per citarne solo alcuni tra i tanti – pare esservi piena unità d’intenti e questo primo biennio di “unitario governo” repubblicano ha prodotto un’azione legislativa ed esecutiva spesso incisiva ed efficace.
Nell’elettorato repubblicano è grandemente sovra-rappresentata l’America bianca, maschile e non urbana. I dati di cui disponiamo si sprecano. Nel 2016 una larga maggioranza degli elettori delle primarie repubblicane sono stati maschi bianchi sopra i 45 anni d’età; alle presidenziali il voto dei maschi bianchi – corrispondente a un terzo dell’elettorato complessivo – è andato 62 a 32 a Trump; tra i bianchi (uomini e donne) con un livello d’istruzione basso o medio basso (senza laurea) la percentuale è stata di 64 a 28; seguendo un pattern ormai consolidato, Trump ha stravinto nelle zone rurali (63 a 31%), perdendo nettamente invece nelle aree metropolitane (56 a 40% in quelle con più di un milione di abitanti); su un totale di 51 seggi senatoriali controllati dai Repubblicani, solo quattro sono oggi occupati da donne (e uno da un afro-americano); su 235 Repubblicani alla Camera, le donne sono 23 e appena 2 gli afro-americani. Con uno slogan potremmo dire che il Partito Repubblicano è, oggi, un partito bianco e pienamente trumpizzato ovvero che Trump – al netto dei suoi eccessi e grossolanità – incarna e sussume quello che i Repubblicani sono diventati negli ultimi decenni. I vantaggi politici ed elettorali sono visibili.
Come si è detto, non vi sono le divisioni spesso laceranti che contraddistinguono il fronte opposto. In un ciclo elettorale senza soluzione di continuità, che tende sempre più a nazionalizzare il voto locale, i Repubblicani hanno, nella figura del Presidente, un medium capace di proiettare un messaggio semplice, unitario e, per i loro militanti, inclusivo. Si fa spesso riferimento all’impopolarità di Trump per come questa è misurata in tutti i sondaggi. Ma gli stessi ci dicono che Trump gode di un amplissimo sostegno tra gli elettori Repubblicani, che nessun Presidente dal 1945 a oggi ha avuto indici così stabili (la banda di oscillazione non ha mai superato i dieci punti; con Obama nello stesso periodo fu più del doppio) e, infine, che nelle ultime settimane abbiamo assistito a una crescita significativa dell’approvazione del suo operato, passata nelle rilevazioni Gallup dal 39% di agosto al 44% attuale. L’ultimo elemento di forza è il quadro demografico che, per quanto cangiante, ci dice che gli Usa rimangono (e rimarranno a lungo) un paese bianco: secondo i dati dell’ultimo censimento i bianchi sono il 76,6% della popolazione che scendono a poco più del 60% se vengono sottratti i “bianchi non ispanici”.
Sono risorse che possono però trasformarsi nel loro contrario ovvero essere rivelatrici di alcune profonde tare del Partito Repubblicano per come questo è divenuto. L’idea essenzialista e normativa che gli Usa siano, e debbano appunto rimanere, un paese bianco ed esclusivamente anglofono cozza contro un’evoluzione culturale e demografica che può essere rallentata sì, ma difficilmente rovesciata. La trasformazione dei Repubblicani in un partito primariamente bianco, non-giovane e maschile sta generando una reazione visibile, tra l’altro, nel grande coinvolgimento di candidate donne durante le ultime primarie democratiche e in un voto giovanile che, a lungo oscillante tra i due partiti, oggi sceglie in stragrande maggioranza di votare democratico o di astenersi (nel 2016 il voto degli under-30 è andato 58 a 28 alla Clinton). Il traino nazionale di Trump ha un’evidente dimensione negativa, in quanto stimola una contro-mobilitazione, parimenti nazionale, fattasi assai intensa in questi ultimi mesi.
Se queste siano dinamiche destinate a manifestarsi a breve – nel prossimo voto di midterm o in quello del 2020 – è difficile dirlo. E l’egemonia dei Repubblicani è per il momento chiara e schiacciante: essi controllano la Presidenza, i due rami del Congresso e 33 governatorati (contro i 16 dei democratici). Gli stati cosiddetti “Trifecta”, dove i Repubblicani hanno sia il governatorato sia i due rami dell’assemblea legislativa, sono 26 contro gli appena 8 dei democratici. Pesa uno squilibrio che avvantaggia gli stati più piccoli, sovra-rappresentati al Senato e nelle elezioni presidenziali; incide una distribuzione meno efficiente dell’elettorato democratico, che tende a concentrarsi nelle aree urbane; operano, più di quanto non si possa credere, i meccanismi di una spregiudicata azione di gerrymandering – il ridisegno dei collegi elettorali – condotta dai Repubblicani dopo il 2010 (si calcola che per conquistare la Camera i democratici debbano ottenere tra il 5 e il 10% dei voti in più a livello nazionale). Vi sono, insomma, una serie di fattori politici e istituzionali che spiegano l’attuale dominio repubblicano. Ma che ci indicano, anche, come esso abbia forse raggiunto un limite fisiologico: un punto di saturazione. Al voto di midterm – che segue quelli di alcune importanti elezioni suppletive degli ultimi due anni – spetterà dirci se è davvero così.
* Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI