È davvero una delle elezioni più drammatiche e importanti della storia di Francia. La differenza fra il baratro della Frexit, del populismo, delle conseguenze pesanti (per il paese e per l'Europa) e la più rassicurante prospettiva di un percorso riformista ed europeo è racchiusa in una manciata di voti, o, per meglio dire, di percentuali espresse dai sondaggi dell'ultima settimana. Mai, come questa volta, l'incertezza è enorme. Perché, mai prima d'ora, la campagna elettorale è stata contemporaneamente condizionata da eventi politici, scandalistici, mediatici. In corsa, sono stati eliminati o ridimensionati i favoriti (Juppé, Fillon), un ex presidente (Sarkozy), un presidente e un primo ministro in carica (Hollande, Valls), i vincitori delle primarie dei due maggiori partiti (Fillon, Hamon) e, di conseguenza, messi con ogni probabilità fuori gioco i partiti (il socialista e i Républicains) che da sempre hanno condotto il gioco dell'alternanza fra destra e sinistra. Il risultato provvisorio è che, alla vigilia del primo turno, i probabili finalisti non sono più due, come di consueto, ma quattro.
Insomma un terremoto, che ha lasciato molte macerie e dato la palla ad altri protagonisti, portati in alto da istanze e dinamiche sociali sicuramente più efficaci delle macchine di partito e del rapporto fra dimensione della politica e cittadino.
La prima è Marine Le Pen, leader del Front National, che ha fatto corsa in testa, anche se in leggero calo negli ultimi giorni. La Le Pen e il Front, primo partito di Francia non da oggi, sono dati al 22 per cento. La molla del successo e del programma è nota: le paure e la rabbia della Francia impoverita, delusa dalla politica, euroscettica che rivendica protezione, confini e sicurezza contro immigrazione, terrorismo, multinazionali, criminalità, un cocktail irrazionale ed emotivo ben noto e ripetitivo nella storia di Francia dell'ultimo secolo. Marine Le Pen lo ha distillato con abilità nella testa dei francesi, sospinta anche da fattori esterni (Brexit e Trump) e da mosse astute, quali l'idea di un referendum per l'uscita dall'Europa, più efficace e rassicurante dei proclami di rottura tout court.
Il secondo protagonista, la più grande sorpresa, è Emmanuel Macron, il giovane banchiere ex Rothschild ed ex ministro dell'economia di Hollande, oggi accreditato alla pari con la Le Pen grazie al successo di un movimento – En Marche – creato dal nulla meno di un anno fa, radicatosi velocemente in tutte le classi sociali e sospinto (anche finanziariamente) dalla società civile. Macron ha tenuto insieme le correnti riformiste della sinistra e guadagna consensi nel centro destra di tradizione gaullista, laica e popolare, deluso da Fillon e orfano di Alain Juppé. La sua è la linea più saldamente europea, con un forte accento sulle riforme da compiere in patria (controllo e taglio della spesa pubblica, investimenti su formazione professionale e scuola, sgravi fiscali per imprese e famiglie, riforma del mercato del lavoro e delle pensioni) e su svolte coraggiose da attuare in Europa, uscendo dal vicolo cieco dell'austerità "alla tedesca".
Il terzo protagonista, a sua volta una sorpresa, è Jean-Luc Mélenchon, salito inaspettatamente al 20 per cento, grazie a una straordinaria capacità oratoria che lo ha messo in luce nei confronti televisivi e ha infiammato i comizi. La sua linea, radicale, giustizialista, ecologista, vagamente giacobina e populista, ha fatto breccia nella sinistra socialista (distruggendo il suo campione, Benôit Hamon), fra i giovani, fra i "verdi", e ha riportato a sinistra una parte dell'elettorato popolare, operaio, ex comunista che negli ultimi anni era stato sedotto dal Front National. L’osmosi fra estrema destra e estrema sinistra, su istanze nazionaliste, è un’altra ricorrenza nella storia francese.
Il quarto protagonista, in negativo, ovviamente, è François Fillon, il leader della destra, ridimensionato dagli scandali dei falsi impieghi pubblici della moglie, dei vestiti regalati da amici potenti, dei prestiti in denaro. A gennaio aveva davanti un'autostrada per la vittoria, sospinto anche da una Francia che è tutt’ora sensibilmente a destra e che continua ad auspicare l'alternanza al disastroso quinquennio socialista di Hollande. Ha bruciato tutto in un falò di vanità e difese maldestre. Lo scandalo non è infatti grave in sé, ma l'opinione pubblica non gli ha perdonato un'immagine di rigore moralista che Fillon ha preteso di accreditare anche a scandalo scoppiato.
Un disastro per lui e per la destra che rischia appunto di perdere un’elezione che non poteva perdere. Per molti osservatori, anche un peccato, poiché Fillon, ex primo ministro ed ex ministro, dava più garanzie di tutti a livello di esperienza politica, conoscenza della macchina dello Stato, gestione di delicati dossier industriali e di politica internazionale. La sua storica frase ("sono primo ministro di uno Stato in fallimento") al tempo della presidenza Sarkozy, è la chiave per capire il suo programma di riforme incisive e dolorose, soprattutto nell'amministrazione pubblica. Contro consigli interessati ed evidenza, Fillon ha voluto continuare la corsa. Lo ha fatto comunque con coraggio e determinazione, al punto che i sondaggi lo danno in leggera risalita.
Per lui, come per i rivali, tutto dipende dall'infernale dinamica di una corsa a quattro, il cui esito si deciderà appunto sul filo di lana. Al secondo turno, Macron, oggi favorito, vincerebbe contro qualsiasi avversario. Fillon nel caso in cui avesse di fronte Marine Le Pen e forse anche Mélenchon, il quale ripone le sue speranze solo in un duello con la leader del Front.
Di fronte a quest'ultima prospettiva, i mercati e l'establishment sono già in fibrillazione. Sale la paura del salto nel buio, anche se l'ascesa di Mélenchon ha prepotentemente imposto una riflessione di fondo: se le correzioni riformiste delle politiche attuali non danno risultati apprezzabili, non è il caso di chiedersi se non sia giunto il momento di cambiare politica?
In questo quadro complesso, si tende a dimenticare un appuntamento in fin dei conti altrettanto decisivo: le legislative due settimane dopo le presidenziali. È possibile che il futuro presidente sia favorito da un effetto trainante e ottenga la maggioranza parlamentare. Questo sarebbe lo sbocco più probabile in caso di vittoria di Fillon. Più difficile che questo avvenga in caso di vittoria di Macron e decisamente escluso in caso di successo di Mélenchon o della Le Pen. Considerando inoltre lo stato comatoso del partito socialista, è nella logica delle cose una maggioranza di centro destra nella prossima Assemblea. Macron potrebbe in sostanza essere costretto alla coabitazione con un premier espresso dai Républicains, in sostanza a una forma di “grande coalizione” alla francese. Un modello che, guardando a Berlino, sembra sempre più rassicurante nelle democrazie in crisi, minacciate dal populismo e dall'involuzione dell'Europa tecnocratica e lontana dai cittadini.
Massimo Nava, editorialista Corriere della Sera