I rapporti tra i Paesi possono essere curiosamente simili a quelli fra le persone. Non mancano gli screzi, le incomprensioni, le improvvise arrabbiature, le inevitabili riconciliazioni, mai definitive, sempre in fondo passeggere. Talvolta, i rapporti terminano con un divorzio o una separazione anche drammatica; in altri casi hanno la meglio la frequentazione, l’intimità, e forse più semplicemente interessi reciproci. La relazione franco-tedesca non è da meno. Le ultime settimane hanno messo in scena un nuovo diverbio tra Parigi e Berlino, proprio mentre le due capitali si apprestano a celebrare il sessantesimo anniversario del Trattato dell’Eliseo, il patto che sancì dopo tre conflitti in meno di un secolo l’amicizia franco-tedesca.
Una relazione cambiata da tempo
Incapaci di intendersi su come affrontare la crisi energetica provocata dalla guerra russa in Ucraina, in buona sostanza se collettivamente o individualmente, i due governi hanno deciso all’improvviso in ottobre di cancellare e rinviare a data da destinarsi un incontro bilaterale che doveva svolgersi da lì a pochissimo a Fontainebleau, nella grande periferia di Parigi. Non c’era materia su cui accordarsi, hanno ammesso i diplomatici. La freddezza reciproca è parsa evidente. La vicenda potrà apparire sorprendente, ma non lo è. Non solo in passato e in varie circostanze il rapporto franco-tedesco è stato segnato da contrasti e tensioni, ma l’ultimo episodio non è che il riflesso di una lunga deriva. Ormai, da tre decenni, la relazione franco-tedesca non è più quella di una volta.
Negli anni, gli alterchi non sono mancati. Quando venne firmato il Trattato dell’Eliseo, nel 1963, il Bundestag con un colpo di mano inserì un preambolo dedicato alla difesa nel quale sancì d’emblée la priorità dell’Alleanza atlantica rispetto a qualsiasi cooperazione con Parigi. Charles de Gaulle rispose qualche anno dopo ritirando la Francia dal comando militare integrato della NATO. Negli anni ‘70, la scelta di Georges Pompidou di promuovere l’ingresso del Regno Unito nell’Unione europea fu il plateale tentativo di Parigi di arginare la crescente influenza di Bonn in Europa. Né Kurt Georg Kiesinger né Willy Brandt si privarono della libertà di esprimere il loro disappunto. Trent’anni dopo, lo stesso allargamento del 2004 fu per molti versi imposto dalla Germania alla Francia, tanto che alla fine di un infuocato vertice europeo di tre giorni e quattro notti a Nizza nel dicembre del 2000 Jacques Chirac e Gerhard Schröder lasciarono la Costa Azzurra senza neppure stringersi la mano. Un editorialista di Le Monde, Daniel Vernet, scrisse che era terminata la visione di una Europa “giardino alla francese”.
Un rapporto meno equilibrato che in passato
Calando sugli occhi le lenti della storia, l’incidente di Fontainebleau appare meno grave di quanto non sembri. Più che altro conferma che da tempo ormai il rapporto franco-tedesco non è più segnato dal comune interesse alla riconciliazione, ma invece è sempre più votato alla necessità di riconciliare interessi spesso divergenti. C’è di più. La relazione è contraddistinta da uno squilibrio tra i due Paesi che rende inevitabilmente il rapporto più complesso. In passato il legame era paritario, e non solo perché i due vicini avevano caratteristiche tutto sommato simili. Bonn aveva bisogno della Francia per tornare a essere un membro a pieno titolo della scena internazionale dopo il periodo nazista. Parigi vedeva nella Germania uno strumento per controbilanciare l’influenza americana sul continente europeo dopo la guerra. Dalla caduta del Muro di Berlino, l’equilibrio perfetto è andato scemando.
La Repubblica Federale si è ingrandita da un punto di vista geografico, si è rafforzata sul versante demografico, si è arricchita sul fronte economico. In buona sostanza, la Germania è ormai di gran lunga il Paese più ricco e popoloso d’Europa. L’allargamento del 2004 ha poi spostato il baricentro dell’Unione europea verso Est, ridando influenza a Berlino in una regione dove le testimonianze dell’antica Ostsiedlung restano tuttora palpabili. Il Trattato di Lisbona ha sancito questo dato di fatto, attribuendo 99 eurodeputati ai tedeschi, appena 72 ai francesi (oggi, dopo Brexit, sono rispettivamente 96 e 79). Nel Consiglio, la stessa Germania pesa nei voti a maggioranza per il 18%, la Francia per il 15%. A Parigi, l’illusione della parità è stata coltivata con impareggiabile costanza, sottolineando la debolezza degli altri partner (in primo luogo dell’Italia) e ricordando di portare in dote la force de frappe, il seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, e naturalmente i territori, dipartimenti e collettività d’Oltre-mare che fanno del Paese “una potenza multicontinentale”, come ama ripetere Emmanuel Macron. A dire il vero, Berlino stessa ha contribuito con innegabile lealtà alla sopravvivenza di questa illusione, comunque affidando alla relazione bilaterale con Parigi una importanza particolare, fedele allo spirito del dopoguerra.
Dietro a una facciata apparentemente immutabile si è consumato nei fatti un crescente squilibrio, anche sul fronte economico: la Francia è ormai un Paese ad alto debito, alla stregua della Spagna, del Portogallo o dell’Italia. Secondo le ultime indicazioni della Commissione europea, il debito pubblico francese sarà alla fine di quest’anno pari al 112% del Pil, allorché in Germania ammonterà al 67% del Pil (la media della zona euro è del 94%). Tra il 2007 e il 2012, vale a dire negli anni della crisi finanziaria provocata dal fallimento della banca d’affari americana Lehman Brothers, il debito pubblico francese è aumentato di 25 punti percentuali, quello tedesco di 12. Non basta. L’uscita di scena del Regno Unito priva entrambi i partner di una sponda sulla quale fare leva per convincere la controparte a trovare una intesa secondo i propri interessi del momento.
Una Francia oggi più debole della Germania
Si capiscono meglio le incomprensioni degli ultimi mesi tra Emmanuel Macron e Olaf Scholz. La guerra in Ucraina sta scombussolando le certezze sui due lati del Reno. Mentre a Parigi Emmanuel Macron è stretto fra la sinistra radicale della France Insoumise e la destra estrema del Rassemblement National, a Berlino Olaf Scholz è chiamato a rivedere radicalmente un modello economico subitamente invecchiato, basato sulla protezione militare americana, il gas russo a buon mercato e il generoso mercato cinese. Più che in passato, il presidente francese ha urgente bisogno di una soluzione europea nell’affrontare la crisi energetica. La Francia vede nel volano comunitario prima di tutto una manna finanziaria in un momento di difficoltà di bilancio, ma anche un modo per annacquare in un contesto più federale la crescente debolezza nei confronti della Germania. Berlino intanto tentenna. Alle prese con la gestione di una difficile coalizione a tre (per la prima volta dal primissimo dopoguerra) il cancelliere tedesco è concentrato soprattutto sugli equilibri interni più che sulle tensioni esterne.
Un’alleanza inevitabile?
Non vorrei che al lettore non rimanesse che prevedere la fine ineluttabile del rapporto franco-tedesco – curiosamente i francesi parlano di couple, i tedeschi preferiscono le espressioni meno romantiche di tandem o di partnerschaft. Né la Francia né la Germania hanno alternative realistiche. Di tanto in tanto Parigi potrà usare la sponda italiana per meglio affrontare il vicino tedesco, ma non vorrà certo tradire il rapporto privilegiato con la Repubblica Federale, ormai diventato sui mercati una assicurazione sulla vita. Berlino è ben consapevole di dover agire con cura in Europa e di doversi affidare al partner francese per controbilanciare il proprio peso relativo. Un sondaggio pubblicato all’inizio di novembre rivela che per l’84% dei tedeschi la Francia rimane tutt’oggi il partner più affidabile – seguono il Regno Unito con il 60% e gli Stati Uniti con il 55% dei consensi (nel 2013, nel pieno della crisi greca, lo stesso studio notava che solo il 18% dei tedeschi si fidava dei francesi).
Più difficile diventa inevitabilmente il processo di integrazione europea per il quale il rapporto franco-tedesco è sempre stato “l’albero della vita” come disse un giorno Jacques Delors. Lo squilibrio delle forze in campo, l’assenza di parità tra i due partner rendono le cessioni di sovranità più sofferte, in particolare per la Francia, che teme di uscirne strutturalmente indebolita. Le chiavi di volta restano due: la difesa e l’euro. Mentre a Parigi spetta mettere a disposizione dell’Europa la sua force de frappe, in modo da consentire alla Germania di emanciparsi dall’ombrello americano, Berlino deve abbandonare la sua visione surrettiziamente confederale dell’Europa, e smentire una volta per tutte il sospetto che la soluzione in solido sia troppo spesso respinta dai tedeschi non tanto perché impropria quanto perché europea.
A sessant’anni dal Trattato dell’Eliseo, le emozioni del dopoguerra sono inevitabilmente scemate. Sui due lati del Reno (e anche a Sud delle Alpi) la Seconda guerra mondiale non è più neanche un lontano ricordo. È tutt’al più un capitolo nei manuali di scuola. Eppure, prevale sempre nei due Paesi uno straordinario senso di responsabilità. In un recente film dedicato alla Grande Guerra, Im Westen nichts neues (Niente di nuovo sul fronte occidentale), liberamente tratto dal romanzo di Erich Maria Remarque, il regista tedesco Edward Berger si è voluto equilibratissimo. Non ha potuto esimersi dal mettere in scena il Diktat di Compiègnes, ma nel contempo ha dedicato l’epilogo a un disperato quanto inutile attacco alle trincee francesi lanciato da un ufficiale tedesco ubriaco di nazionalismo prussiano a pochi minuti dall’entrata in vigore dell’armistizio alle 11 dell’11 novembre 1918.