Dovevano essere stati sconfitti dalla Fratellanza Islamica, la realtà è che non se ne sono mai andati. I militari sono rimasti anche in questi anni uno dei centri di potere in Egitto, ma hanno voluto recitare la parte degli arbitri imparziali che hanno a cuore soltanto l’interesse della nazione. Ora sono tornati a fare politica attiva, come succedeva prima dell’elezione di Morsi, ma questo non significa che l’Egitto sia tornato al passato. L’esercito ha capito che il processo democratico egiziano non è reversibile e perciò si è presentato come il garante delle regole, il protettore delle norme calpestate dal presidente Morsi.
I militari hanno scelto il momento giusto per intervenire e poi sono usciti dalle loro basi, senza quasi che gli egiziani se ne accorgessero. Da quel momento hanno cambiato il loro ruolo, mostrandosi come i protettori della democrazia. In un paese stremato da un’instabilità politica che tiene lontano investitori e turisti, impaurito da una crescente violenza e criminalità di strada, è sembrato a molti che l’esercito fosse la soluzione migliore per risolvere i problemi in fretta. Questa è, infatti, l’istituzione più solida in questo paese, quella a cui tutti gli egiziani pensano quando la situazione diventa difficile da risolvere.
L’esercito ha un potere economico e politico che consente loro di prosperare sotto qualsiasi Governo. L’esercito controlla tra il 25 e il 40% dell’economia di questo paese, spesso grazie a diverse agevolazioni fiscali che nessun esecutivo osa revocare. Inoltre, appartengono alle forze armate molte fabbriche e aziende che operano in diversi ambiti della vita economica egiziana, dal settore delle costruzioni a quello alimentare. Infine, i militari hanno sempre avuto ottime relazioni con gli Stati Uniti, che finanziano le forze armate egiziane con circa un miliardo e trecento milioni di dollari.
Questo potere è il principale ostacolo alla realizzazione dello “Stato islamico” da parte degli Islamisti; un progetto che richiede un cambiamento profondo di sistema politico, basato sull’idea che le norme positive debbano essere fondate sulla legge coranica. Secondo i Fratelli Musulmani il Governo è uno strumento per ottenere questo scopo, un mezzo per cambiare la società, rifondandola secondo i principi della loro interpretazione religiosa. Questo progetto include elementi formalmente democratici, come le elezioni, i limiti di mandato e il rispetto per le minoranze, ma si basa sul presupposto che la legge islamica sia superiore a tutte le norme umane.
È un progetto rivoluzionario che non tollera ostacoli, perché presuppone un cambiamento radicale che deve essere ottenuto anche grazie all’occupazione dell’apparato statale. Per creare lo Stato islamico servono giuristi vicini agli islamisti che interpretino la legge alla luce della Sharia, programmi della Tv di stato che spieghino la morale agli egiziani e professori che educhino i loro studenti ai valori della legge islamica. Bisogna quindi prendere possesso dello stato, attraverso la progressiva occupazione dei suoi settori vitali. Era quello che aveva tentato di fare Morsi in questo anno di presidenza, creando malcontento nella popolazione che chiedeva invece risposte sulla crisi economica e sociale. Inoltre questo modo di Governare ha diviso il paese, spaccato da una divisione ideologica violenta che ha separato gli islamisti dai liberali. Nel frattempo la crisi economica rendeva la vita dei più poveri sempre più difficile e tanti egiziani cominciavano ad accusare il presidente e il suo gruppo di potere, incapace di migliorare le loro condizioni di vita.
L’operato di Morsi è diventato per molti il fallimento dell’Islam politico, che è sembrato a tanti egiziani un’ideologia incapace di risolvere i problemi del paese. Una sensazione riassunta nel titolo di un articolo scritto da El-Baradei qualche giorno fa: «con la Sharia» ha scritto il premio Nobel egiziano, «non si mangia».
Matteo Colombo, giornalista freelance