Ogni mese fuggono dall’Eritrea dalle mille alle tremila persone (ma c’è chi dice siano cinquemila). Sono in maggioranza ragazzi che lasciano il loro paese per cercare di raggiungere l’Europa e il Nord America. Cercano sicurezza, ma anche un lavoro per poter mantenere la propria famiglia rimasta in patria. Ma da che cosa fuggono queste persone? Perché in così tanti lasciano il piccolo Stato del Corno d’Africa?
L’attuale situazione socio-politica dell’Eritrea affonda le radici nel recente passato del paese. Colonia italiana dal 1889 (ma i primi insediamenti datano 1869) fino al 1941, venne occupata prima dagli inglesi e poi dagli etiopi che nel 1950 l’annettono. A partire dagli anni Sessanta, gli eritrei iniziano una lunga lotta per l’indipendenza. Una guerra che terminerà solo nel 1991 con la conquista da parte dei ribelli della capitale Asmara. Nel 1993 un referendum sancirà poi il definitivo distacco dall’Etiopia. È proprio quel lungo conflitto a forgiare la classe politica della nuova Eritrea. Il presidente Isayas Afeworki e i suoi collaboratori sono i leader del Fronte di liberazione del popolo eritreo, una formazione di stampo marxista che, dopo aver sconfitto la frangia più moderata, ha preso il contro del movimento indipendentista. Sono comandanti militari che si sono formati nelle trincee e nelle caverne dell’acrocoro abissino e non sono avvezzi alle procedure democratiche. Così, quando a metà degli anni Novanta, sull’onda di un iniziale consenso popolare, prendono il potere, gradualmente trasformano il paese in una sorta di caserma.
La Costituzione del 1997, che prevedeva un sistema multipartitico, non è mai entrata in vigore, e regolari elezioni, malgrado siano state annunciate in più occasioni, non si sono mai svolte. L’Eritrea si trova invischiata in ripetute crisi internazionali. Prima con lo Yemen, poi con l’Etiopia (una guerra che farà decine di migliaia di morti) e Gibuti. L’esercito di Asmara sarà coinvolto anche nelle crisi interne sudanesi (si dice che soldati eritrei siano stati impiegati a fianco delle truppe di Karthoum in Darfur). L’instabilità esterna fa gioco al regime che può giustificare la mancata introduzione delle regole democratiche proprio con il rischio della sicurezza del paese. Così ogni opposizione politica è bandita. Nel 2001 alcuni fedelissimi del presidente, che invocano la necessità di una svolta democratica, vengono arrestati e di loro non si saprà più nulla. Vengono chiusi tutti i media di proprietà privata, tanto che Reporter Senza Frontiere per molti anni ha posto e pone l’Eritrea all’ultimo posto nella classifica della libertà di stampa (insieme alla Corea del Nord). S’instaura un regime di paura nel quale si moltiplicano i delatori, gli arresti arbitrari, i processi sommari e le detenzioni nei capi di prigionia. Non solo, ma Isayas crea un esercito sempre mobilitato che assorbe a tempo indeterminato uomini e donne a partire dai 17 anni in su.
Nel 2014, nell’ambito della politica di contenimento dell’immigrazione, Unione Europea e Italia promettono all’Eritrea aiuti per 300 milioni di euro (2,5 dall’Italia) in cambio di una limitazione del servizio di leva da parte di Asmara, eliminando così uno dei principali motivi dell’emigrazione dei giovani. In molti, soprattutto nella diaspora eritrea, sollevano perplessità sull’opportunità di trattare con un regime tanto spietato quanto indifferente a qualsiasi pressione. La trattativa però va avanti, anche se non si è ancora arrivati a un punto fermo.
Il servizio militare a tempo indeterminato sottrae forze all’economia del paese che infatti s’impoverisce progressivamente. «Negli ultimi anni – spiegano testimoni che hanno visitato di recente l’Eritrea – nelle città sono comparsi i mendicanti che un tempo non c’erano. Non solo, ma si stanno creando grandi sperequazioni tra le famiglie che vivono bene, perché hanno parenti all’estero che inviano aiuti, e quelle che, non potendo contare sulle rimesse, sono costrette a tirare avanti con magri stipendi. Professori, militari, impiegati statali non guadagnano più di 10 euro al mese, ma il costo della vita è molto alto. Perciò la corruzione dilaga». E, allo stesso tempo, si crea il mito dell’emigrazione e dei soldi facili che si possono guadagnare andando in Europa e in America. «Se oggi chiedi a un bambino di cinque anni che cosa voglia fare nella vita, lui risponde di voler emigrare – racconta chi è andato in Eritrea -. È il risultato dei discorsi che i piccoli sentono nelle loro famiglie. Gli adulti non parlano altro che di emigrazione, di lasciare il paese. I ragazzi, quelli che rimangono in patria, non hanno più sogni. Non progettano più un paese migliore, pensano solo ad andarsene».
Da tutto ciò il regime trae enormi vantaggi. Molti ufficiali della polizia e delle forze armate sono coinvolti nel traffico di esseri umani, traendone grandi risorse. Non solo, ma il regime lucra anche sui proventi della diaspora imponendo un tributo del 2% sui redditi prodotti degli eritrei all’estero. Così anche chi fugge sostiene Isayas e i suoi gerarchi.
Chi rimane in patria comunque è rassegnato. Molti eritrei, anche se non sono sostenitori del regime, non vogliono la sua caduta. Si teme che il collasso dell’attuale sistema di potere possa portare al tracollo che hanno conosciuto la Somalia, la Siria, la Libia. «Gli eritrei – concludono le nostre fonti – conoscono il regime che li governa e lo subiscono. Non fanno nulla per cambiarlo. Temono che una caduta di Isayas li sprofondi nell’instabilità e nella violenza. Come dare loro torto? Ma il rischio è che davvero non cambi nulla e l’Eritrea continui a rimanere la Corea del Nord dell’Africa».