Il 2017 sarà caratterizzato da una notevole incertezza per quanto riguarda il commercio internazionale. Già dal 2011, si è osservato un rallentamento sostanziale nella crescita degli scambi mondiali, dopo molti anni di aumenti molto sostenuti. Il rapporto tra commercio mondiale e PIL mondiale sta diminuendo, per diverse ragioni molto dibattute nelle analisi degli specialisti. Per alcuni economisti questo rallentamento nella globalizzazione è un indicatore preoccupante, per altri si tratta semplicemente di un fenomeno fisiologico. In questo scenario di mercati mondiali molto cambiati è difficile fare previsioni su ciò che accadrà agli scambi. Le stime di crescita degli scambi mondiali per il 2016 sono state tagliate di quasi un punto dalla World Trade Organization (WTO) all’1,7%, e per il 2017 non sono previste significative accelerazioni.
Oltre alla notevole incertezza sui paesi emergenti, che nell’ultima decade hanno fatto da traino agli scambi internazionali, sulle previsioni per il 2017 pesa anche il mutato scenario politico che potrebbe ridurre l’apertura internazionale di molti paesi.
Nonostante il livello medio dei dazi sia storicamente molto basso, da dopo la crisi finanziaria internazionale si è registrato un tendenziale aumento di misure protezionistiche “non tradizionali” e di sostegno delle industrie nazionali. Si è parlato infatti di “murky protectionism”, o “protezionismo strisciante”, perché non sono state introdotte, a parte qualche rara eccezione, misure in violazione degli accordi presi in sede multilaterale con il WTO, ma è stata più volte ventilata la possibilità di ricorrere ad alcune misure “legittime” di emergenza o di regolamentazione, e molte di queste sono state effettivamente utilizzate, soprattutto in paesi emergenti.
A questa tendenza si aggiunge dal lato delle economie avanzate la possibile uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, con conseguenze sul commercio internazionale dell’area da valutare, ma potenzialmente rilevanti, e il probabile cambio di direzione in materia di politiche commerciali della nuova amministrazione americana.
Donald Trump, anche prima di candidarsi alla presidenza USA, per anni ha dichiarato che gli Stati Uniti hanno negoziato con i principali partner commerciali degli accordi commerciali non favorevoli che vincolano troppo la loro economia. Rinegoziare i termini di questi accordi sarà sicuramente una priorità importante per la sua amministrazione, anche perché questo punto ha rivestito un ruolo centrale nella campagna elettorale del presidente eletto. Negli Stati Uniti, come in altri paesi avanzati, si è andata negli ultimi anni diffondendo una nuova ondata anti-globalizzazione, che mantiene alta l’attenzione sui temi dell’internazionalizzazione. La spinta contro l’apertura dei mercati soprattutto da parte di alcune classi sociali è venuta dalla crisi economico-finanziaria internazionale e dall’idea – in buona misura ingiustificata – che molti mali che affliggono le economie avanzate siano attribuibili al processo di integrazione con le economie emergenti e alle pressioni provenienti da queste. È anche questa preoccupazione che ha favorito l’elezione di Trump, e ai portatori di questi timori Trump ha promesso di dare voce.
Ma cosa significa questo in pratica per la politica commerciale americana? Mentre le grandi linee del pensiero di Trump sul commercio estero sono chiare, si sa poco su politiche specifiche in quest’ambito, e la nuova amministrazione avrà ampia libertà nel modo in cui perseguire accordi commerciali. Dopo l’elezione, il futuro presidente ha ribadito la promessa elettorale di ritirare dalla Trans-Pacific Partnership (TPP) e ha più vagamente promesso di "negoziare equi accordi commerciali bilaterali che creino posti di lavoro e riportino l'industria di nuovo sulle coste americane."
Sulla base di queste dichiarazioni, è possibile immaginare scenari piuttosto diversi, alcuni con un impatto modesto per l'economia mondiale, e potenzialmente anche con migliori soluzioni a lungo termine per le aziende americane, ma altri che potrebbero far saltare le basi della moderna economia globale, mettere in pericolo migliaia di miliardi di dollari di commercio internazionale, e indurre una recessione in tutto il mondo.
Per prima cosa, vi è incertezza sul destino dell'accordo di libero scambio nordamericano, il cosiddetto NAFTA, che Trump ha affermato ripetutamente di volere rinegoziare. Questo non ha necessariamente implicazioni catastrofiche. Di fatto, la possibilità concreta di un abbandono del NAFTA da parte degli Stati Uniti appare piuttosto improbabile. Dopo vent’anni di esistenza dell’accordo, la struttura produttiva del Nord America si è riorganizzata, sapendo di non avere ostacoli doganali tra i tre paesi, e creando importanti catene di produzione attraverso tutto il continente. Spezzare queste catene produttive arrecherebbe notevoli danni all’economia americana. Tuttavia, dato che l'accordo è stato negoziato in uno scenario molto diverso da quello di oggi, ci sono possibilità di ammodernare l’accordo in modi che preservino i legami profondamente intrecciati dell'economia nordamericana.
Più infausto appare il futuro di altri grandi accordi commerciali più recenti, quello trans-pacifico (TPP) e quello transatlantico (TTIP). Dopo l’elezione Trump ha affermato che una delle sue prime mosse da presidente sarà quella di ritirare gli Stati Uniti dal TPP, da lui presentato come una versione estesa e peggiorata del NAFTA, con effetti deleteri sui posti di lavoro americani. Queste dichiarazioni sono risultate molto preoccupanti soprattutto per i tradizionali partner asiatici degli Stati Uniti, prima di tutti il Giappone, non solo per i mancati benefici economici che l’accordo potrebbe portare, ma soprattutto perché apre grandi spazi di manovra alla Cina, che da tempo cerca di aumentare la propria influenza in Asia. Teoricamente, gli altri undici firmatari del TPP potrebbero portare avanti l’accordo anche senza gli Stati Uniti, ma per ora questo non sembra facilissimo. Ancora più improbabile è la conclusione del Partenariato transatlantico sul commercio e gli investimenti (TTIP), l’accordo preferenziale di libero scambio in corso di negoziazione tra Unione Europea (UE) e Washington. Trattandosi di accordi non ancora implementati, il loro abbandono non dovrebbe impattare direttamente sul commercio mondiale nel breve termine, anche se potrebbe avere effetti a medio termine sugli scambi tra le aree coinvolte.
I problemi potenzialmente più seri potrebbero nascere sul fronte multilaterale. L’amministrazione Trump potrebbe aprire presso il WTO una serie di controversie in settori in cui ritiene che gli USA non siano stati trattati correttamente dai propri partner. Oppure, il governo potrebbe invocare le clausole di emergenza del WTO per aumentare le tariffe su un’ampia base di merci importate da un determinato paese, come nel caso della tariffa del 45 percento sulle importazioni cinesi che Trump ha minacciato di introdurre durante la campagna elettorale, oppure una tariffa destinata a salire fino a quando il deficit commerciale USA non declina. Questi provvedimenti potrebbero essere dirompenti, perché potrebbero creare forti effetti a catena. In sede WTO ci sarebbero sicuramente battaglie legali da parte delle industrie del paese preso di mira, così come rappresaglie rapide e potenzialmente dure da parte dei partner commerciali. La Cina (o il Messico, o il Giappone) non subirebbero passivamente questo tipo di misure. Questo però potrebbe dar luogo a guerre commerciali che potrebbero essere economicamente travolgenti.
Le versioni più estreme di una politica commerciale di Trump, tuttavia, sebbene molto improbabili, potrebbero devastare l'intero sistema di connessioni economiche globali che gli Stati Uniti hanno contribuito a costruire a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Infatti, se l'amministrazione americana perdesse le controversie commerciali portate davanti al WTO, gli Stati Uniti rispetterebbero le sentenze modificando le politiche e rientrando nelle regole, o darebbero seguito alla minaccia di Trump di abbandonare questa organizzazione, il cui scopo è quello di organizzare il sistema di commercio globale?
Lucia Tajoli, Senior Associate Research Fellow ISPI and Politecnico, Milano