Il G20, la cui edizione 2021 si svolgerà nel nostro Paese con la presidenza italiana, è nato nel 1999 come foro di consultazione dei ministri finanziari e governatori delle banche centrali dei maggiori Paesi del mondo soprattutto in seguito alla crisi finanziaria asiatica dei due anni precedenti. Per dieci anni non si è dato un obiettivo di effettivo coordinamento delle politiche. In seguito alla Grande recessione del 2007-08 è stato rilanciato come una sede di concertazione dei capi di stato e di governo.
Dopo un’improvvisa convocazione, nel nuovo format, nel novembre 2008, a Washington ma con una leadership prevalentemente europea dato che negli USA era periodo di elezioni presidenziali, il summit ebbe luogo due volte nel 2009, a Londra in aprile e a Pittsburgh in settembre. Fu a Pittsburgh che si decise di fare del nuovo G20 un evento regolare, di fatto rendendolo erede del G7 come luogo principale di coordinamento economico e finanziario internazionale. L’allargamento era un naturale riconoscimento sia delle opportunità che dei problemi della globalizzazione, nonché del peso rapidamente decrescente dei 7 “grandi” sul Pil e il commercio mondiali. Anche nel 2010 ebbero luogo due summit, in giugno a Toronto e in novembre a Seul, mentre dal 2011 i vertici sono annuali e si svolgono nei Paesi che turnano la presidenza del G20, nell’ordine: Francia, Messico, Russia, Australia, Turchia, Cina, Germania, Argentina, Giappone e, quest’anno, Arabia Saudita.
A partire dal 2010 ai vertici annuali dei capi di stato e di governo si aggiungono numerosi incontri a livello di ministri finanziari e governatori delle banche centrali (il cosiddetto Finance Track) e di altri ministeri. Sono poi andati creandosi degli Engagement Groups che nutrono i summit governativi con studi e istanze che provengono da diversi comparti della società: il Think 20 coinvolge i think tank, il Business 20 le imprese, il Labour 20 i rappresentanti del mondo del lavoro, il Women 20 chi si occupa delle diseguaglianze di genere, il Youth 20 il mondo giovanile e il Civil 20 altri rappresentanti della società civile.
Fino al 2010 l’ordine del giorno del G20 si è concentrato sui temi finanziari che lo caratterizzavano prima del 2008, e che hanno giustificato il rafforzamento del suo ruolo con la Grande recessione. Si cominciò a Washington cercando di condividere, non senza difficoltà, una diagnosi della crisi finanziaria in corso e stendendo un piano di azione centrato da un lato su stimoli fiscali e monetari e dall’altro su riforme delle regole e delle istituzioni della finanza internazionale. Si precisarono le azioni da intraprendere immediatamente, entro il marzo successivo, e quelle da realizzare più gradualmente. Si individuarono nel FMI e nel Financial Stability Fund, poi rafforzato e divenuto il Financial Stability Forum, i canali multilaterali di implementazione delle decisioni assunte. A Londra e Pittsburgh vennero controllati i risultati delle azioni immediate, dalla riforma delle regole sul capitale minimo delle banche, alla remunerazioni dei banchieri, ai criteri di sorveglianza da usare da parte del FMI; si approfondirono alcuni temi importanti, fra i quali nuovi standard contabili e di trasparenza, le procedure di risoluzione delle banche in crisi, la regolamentazione dei mercati dei prodotti finanziari derivati e delle agenzie di rating; si decise di coordinare gli stimoli macroeconomici approntando anche una valutazione sistematica degli effetti globali delle politiche di ogni Paese, di rassicurare circa l’intenzione di mantenere la libertà commerciale, di aumentare notevolmente i fondi per finanziare la bilancia dei pagamenti dei Paesi emergenti e in via di sviluppo. Nell’insieme i lavori e i comunicati dei G20, fino al 2009, furono concisi e concreti e il monitoraggio dei progressi della cooperazione parve incoraggiante.
Nel frattempo la Grande recessione, anche per merito delle politiche concertate dal G20, attenuava il suo morso e in diversi Paesi, segnatamente negli Usa, riprendeva la crescita, anche se non mancavano timori di una nuova ricaduta del ciclo mondiale. I G20 del 2010 furono meno incisivi e mostrarono almeno tre tendenze che sarebbero andate minando anche negli anni successivi la concretezza e l’efficienza dei summit. Innanzitutto si fecero più evidenti le divergenze sulle politiche macroeconomiche da perseguire insieme: alcuni, soprattutto voci europee, volevano moderare gli stimoli espansivi temendo effetti inflazionistici ed eccessi di indebitamento, altri, soprattutto gli Usa, volevano continuare le politiche stimolanti; c’erano inoltre divergenze sui motivi e sui rimedi degli squilibri delle bilance dei pagamenti, con particolare riguardo a quella molto deficitaria degli Usa e a quella in grande avanzo della Cina.
In secondo luogo, il G20 cominciò a perdere il controllo diretto delle riforme delle regole finanziarie che aveva avviato. Il loro tecnicismo le delegava sempre più al Financial Stability Board e agli organi di regolamentazione nazionali, senza che gli inevitabili contrasti sui particolari del loro disegno avessero una solida sede politica di compromesso e ricomposizione. Questo finì per rallentare troppo le riforme finanziarie. Terzo: la presenza dei capi di stato e di governo, le numerose riunioni interministeriali, il moltiplicarsi degli Engagement Groups portarono ad allargare l’agenda del G20 molto oltre i temi macro-finanziari fino a disperdere l’impegno politico in troppe direzioni e ad annacquare le conclusioni. È vero, d’altra parte, che l’articolarsi dell’agenda era anche la conseguenza del fatto che la globalizzazione, dopo aver colpito la stabilità finanziaria, veniva evidenziando la cruciale importanza di tanti altri drammatici problemi della convivenza mondiale, quali il clima, le epidemie, l’energia, l’inquinamento, le migrazioni, la disponibilità di risorse naturali, l’impatto delle tecnologie informatiche sulle comunicazioni e i media, le conseguenze del progresso tecnico sull’occupazione e altri ancora. Inoltre, anche a causa del mordere di tutti questi problemi, la fiducia nel multilateralismo si andava riducendo e crescevano le spinte nazionaliste e populiste.
Negli ultimi anni raggiungere il consenso sulle conclusioni del G20 è stato sempre più difficile, soprattutto da quando gli Usa di Trump hanno ostacolato la difesa della libertà commerciale e la cooperazione nella lotta al cambiamento climatico. I lavori del G20 sono sempre risultati ricchi di stimoli e utili per il dibattito e la mobilitazione sui grandi problemi del mondo. Ma le loro conclusioni e i loro effetti concreti sono risultati deboli e dispersivi, essendo stata usata la genericità anche per favorire l’unanimità dei comunicati finali. Oggi il G20 è ineluttabilmente legato a un’agenda ampia e differenziata. Deve però trovare il modo di selezionare meglio i suoi temi e di sviluppare, anche a costo di sacrificare in parte l’obiettivo di unanimità, strade per la ripresa concreta della cooperazione, quantomeno per raggiungere quegli obiettivi che sono impossibili da perseguire con azioni isolate di singoli Paesi.