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Dopo il summit in Francia

G7 di Biarritz: un bilancio positivo?

Matteo Villa
|
Antonio Villafranca
27 Agosto 2019

Si è appena chiuso in Francia il summit G7 di Biarritz. Rispetto alle attese della vigilia, la spaccatura in un G6 +1 (Trump) sembra sia stata evitata. La guerra commerciale dichiarata dagli Stati Uniti l’anno scorso imperversa ancora, ma il presidente Trump ha sorpreso tutti, annunciando la possibile riapertura del tavolo negoziale con Pechino. Su un altro tema cruciale come l’ambiente, nessun passo avanti è stato fatto per riportare gli USA entro il Trattato di Parigi, ma quanto meno è emersa una posizione comune sugli incendi in Amazzonia e sono state prese decisioni in tema di aiuti allo sviluppo per l’Africa. Anche sul tema della webtax le distanze - soprattutto tra Parigi e Washington - sembrano essersi ridotte. Significativa inoltre l’apertura di Trump verso l’Iran, dopo l’inattesa presenza a Biarritz del ministro degli esteri di Teheran.  E’ stata inoltre la prima volta al vertice di Boris Johnson, che non è però riuscito a ottenere alcuna concessione su Brexit dai paesi europei presenti al vertice. 

Il summit si è concluso, per la prima volta nella storia, non con un comunicato finale condiviso, ma con un’inedita conferenza stampa congiunta tra il presidente francese Emmanuel Macron e quello americano Donald Trump, che ospiterà il G7 del 2020. Si è trattato di un (parziale) successo?
 

Commercio e multilateralismo: segnali positivi

Rispetto alle previsioni di fratture fra i grandi, Trump ha annunciato di voler far ripartire il tavolo negoziale dopo un'apertura in tal senso da parte di Pechino (anche se non si sa fino a che punto gli altri 6 leader abbiano contribuito a questo risultato). Sin dalla creazione del G7 negli anni Settanta, pur con diverse sfumature i leader delle sette democrazie a capitalismo avanzato si sono sempre schierati a favore dell’ordine internazionale multilaterale e, in particolare, a difesa del libero commercio. Ma l’arrivo di un presidente americano che utilizza la minaccia e l’imposizione unilaterale di nuovi dazi come strumento di politica internazionale, e che non nasconde di preferire un’impostazione più protezionista, ha spesso costretto i partecipanti al summit a correre ai ripari.

Nel 2017 e 2018 il compromesso ha consistito nel ribadire l’importanza dell’ordine liberale uscito dalla guerra fredda, ma sottolineando al contempo la necessità che le sue regole siano applicate in maniera più “equa e reciprocamente vantaggiosa”. Per esempio punendo chi mette in atto strategie anticoncorrenziali come quelle del dumping (un chiaro riferimento a Pechino).

Quest’anno i quattro Paesi europei del G7 (Italia, Germania, Francia e Regno Unito) hanno dovuto fare i conti con due sviluppi sostanziali rispetto ai vertici precedenti. Innanzitutto, la guerra commerciale che minacciava di colpire sempre più anche loro. Indirettamente, a causa della frenata dell’economia mondiale, che molti osservatori attribuiscono in parte all’incertezza generata dalla guerra commerciale tra Washington e Pechino. Ma anche direttamente: dopo che nel 2018 Trump ha imposto dazi sulle importazioni americane di acciaio e alluminio e l’Unione europea non è alla fine riuscita a ottenere un’esenzione, lo scorso aprile gli Stati Uniti hanno annunciato di essere pronti a imporre sanzioni su 25 miliardi di dollari di prodotti europei in ritorsione ai sussidi europei verso la compagnia aerea Airbus. Trump ha anche minacciato più volte di imporre dazi sull’importazione di auto europee. Minacce che al momento sembra siano state accantonate a meno di repentini ripensamenti da parte di Trump. 

A loro volta i paesi europei del G7 si sono presentati al vertice da una posizione politica di maggiore debolezza sulla scena internazionale: a causa di Brexit e delle incertezze relative all’attuale situazione politica italiana. A livello internazionale inoltre rimangono sul banco degli imputati di fronte alla difesa della governance economica mondiale uscita dalla guerra fredda (anche se la questione non è stata direttamente affrontata nell’ambito del G7). 

La scelta di Christine Lagarde, fino a giugno Direttrice del Fondo monetario internazionale (Fmi), come prossimo presidente della Banca centrale europea (Bce) ha infatti aperto uno scontro frontale con i paesi emergenti sulla scelta di chi dovrebbe succederle alla direzione del Fondo. Per prassi, dalla sua fondazione all’indomani della seconda guerra mondiale a oggi, la direzione dello Fmi è sempre stata riservata a un cittadino di un paese europeo, mentre la guida della Banca mondiale era lasciata a uno statunitense. Ancor più nello specifico, per 46 dei 74 anni dalla sua fondazione la direzione dello FMI è stata esercitata da cittadini francesi.

Negli ultimi anni questa prassi è stata messa sempre più in discussione dalle economie emergenti, a causa del maggior peso economico di alcune di loro e della conseguente richiesta di una maggiore rappresentatività delle Istituzioni implicate nella governance economica mondiale. Così, tra il 2012 e il 2019 la Banca mondiale ha avuto il primo Presidente non statunitense della sua storia (il sudcoreano Jim Yong Kim), malgrado la sua guida sia oggi tornata in mano a un americano, David Malpass. Dal canto loro, invece, gli europei non sembrano intenzionati a lasciare ad altri paesi la direzione del Fondo, neppure per un mandato quinquennale, e hanno proposto un nuovo nome europeo: la bulgara Kristalina Georgieva, già Commissaria europea al bilancio e alle risorse umane. In questo modo gli europei prestano il fianco ad accuse di free riding dell’ordine internazionale vigente. Secondo i detrattori, sostenere Georgieva significa non soltanto non essere disposti a riconoscere il maggiore peso delle economie emergenti nell’economia mondiale, ma anche segnalare di essere pronti a fare di tutto per proteggere le proprie rendite di posizione, addirittura aggirando le regole odierne del Fondo: queste ultime richiedono infatti che alla data della sua entrata in carica il Direttore del Fmi non dovrebbe avere più di 65 anni di età, mentre Georgieva ne ha compiuti 66 lo scorso 13 agosto.

 

Politica internazionale: tra Iran, Brexit, Ucraina e Libia

Anche questo summit G7 ha rappresentato l’occasione per toccare molti dei temi caldi della politica internazionale. Dall’istituzionalizzazione formale del vertice negli anni Settanta, infatti, i leader che vi si riuniscono tendono a prendere (o, più spesso, a ribadire) molte posizioni sui temi relativi agli affari internazionali. La convergenza di vedute è sufficientemente forte da permettere quasi sempre di inserire tali temi nella Dichiarazione finale dei leader, simbolo del consenso raggiunto. Anche tra il 1997 e il 2014, quando il G7 era stato allargato alla Russia, i leader delle 7 democrazie occidentali si sono sempre riuniti in formato G7 per coordinare le proprie posizioni politiche a prescindere dalle preferenze di Mosca.

Quest’anno, tuttavia, uno dei temi in agenda ha riguardato proprio uno dei paesi presenti: Brexit. Il summit di Biarritz è stato infatti il primo vertice multilaterale cui ha preso parte Boris Johnson dopo il suo insediamento quale premier britannico lo scorso 24 luglio. Nei giorni precedenti il vertice Johnson aveva già incontrato sia Merkel, sia Macron, ricevendo da entrambi un secco rifiuto a riaprire la partita negoziale. Nonostante in molti ritenessero che proprio il vertice potesse essere l’occasione per discutere le richieste di  Johnson soprattutto in merito al backstop  sul confine nordirlandese, sul dossier Brexit non si sono registrati passi in avanti sostanziali. La probabilità che i leader europei cedano alle richieste di Londra appare al momento del tutto remota, visto che per l’Ue il backstop appare come la migliore garanzia per evitare la creazione di un confine effettivo tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord nel caso non si trovi una soluzione alternativa al termine del periodo di transizione post-Brexit (al momento dopo il 31 dicembre 2020).

Passando ai restanti temi di politica internazionale, la scorsa settimana Macron aveva ospitato il presidente russo Vladimir Putin, il cui paese è stato espulso dal vertice cinque anni fa a seguito dell’annessione della Crimea. Mentre Trump chiede di riportare la Russia tra i partecipanti formali del vertice, forse già come Paese osservatore al G7 americano del 2020, il presidente francese ha adottato maggior cautela. L’auspicio di Macron è quello di convincere Putin nei prossimi mesi a riaprire i negoziati tra Russia e Ucraina, puntando a rilanciare quel “formato Normandia” (incontro tra Russia, Ucraina, Francia e Germania) che nel febbraio 2015 aveva propiziato la firma della seconda versione del Protocollo di Minsk (Minsk II), accordo che avrebbe dovuto portare alla risoluzione concordata del conflitto ucraino.

Non si può infine non notare come, sottotraccia, sia scorsa un’ulteriore tensione tra i partecipanti al vertice: quella tra Francia e Italia sulla questione libica. Dopo il tentativo della Francia l’anno scorso di accreditarsi come mediatore principale della crisi, e l’esplicito sostegno da parte dell’Eliseo nei confronti del generale Haftar, le relazioni tra Parigi e Roma (che sostiene invece il governo legittimo di al-Sarraj) si sono deteriorate. A contribuire a riequilibrarle sono stati tuttavia due eventi da allora intercorsi: l’aumento dell’instabilità dalla seconda metà del 2018, che ha costretto a posticipare le elezioni in Libia fortemente volute dalla Francia (di fronte allo scetticismo della comunità internazionale) e l’offensiva armata del generale Haftar iniziata lo scorso aprile, che ha convinto il governo francese ad adottare una posizione più equidistante, riavvicinandosi - almeno parzialmente - al governo legittimo di Al-Sarraj. I paesi del G7 si sono limitati a dichiarare il sostegno all’iniziativa delle Nazioni Unite per una risoluzione politica della crisi, che veda coinvolte le diverse parti in conflitto. 

Una sorpresa dal G7 di Biarritz è invece arrivata dalla visita inaspettata del ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif, invitato da Macron. Il titolare degli esteri di Teheran non ha incontrato delegati statunitensi, limitandosi a colloqui con rappresentanti tedeschi, francesi e britannici, ma nella conferenza stampa che ha concluso il summit il presidente americano ha dichiarato la propria disponibilità a incontrare l’omologo iraniano Hassan Rouhani, qualora le circostanze fossero favorevoli.  Nonostante Rouhani abbia già escluso la possibilità dell’incontro a meno che gli USA non rimuovano le sanzioni (soprattutto sulle esportazioni iraniane di petrolio), se il vertice dovesse concretizzarsi, sarebbe il primo incontro tra un presidente americano e uno iraniano da 40 anni (dalla crisi degli ostaggi in Iran del 1979-1981). La dichiarazione di Trump lancia comunque un segnale di distensione verso Teheran. Spetterà ora alla diplomazia dei principali paesi coinvolti cercare di darvi seguito.

 

Clima e aiuti allo sviluppo: sempre meno “leading by example”?

Sul fronte del cambiamento climatico, le resistenze che ci si potrebbero legittimamente attendere dal G20 – i cui membri includono grandi esportatori di combustibili fossili come Arabia Saudita, Russia, Messico e Australia – si sono estese al anche al G7 dopo che gli Stati Uniti hanno deciso di ritirarsi dagli accordi sul clima di Parigi del 2015. Nella dichiarazione finale dei leader del G7 dell’anno scorso Washington era rimasta isolata: i leader degli altri 6 paesi avevano preso esplicitamente posizione a favore degli accordi di Parigi, mentre il governo americano aveva inserito un intero lungo paragrafo in cui, su 217 parole, non compare neppure una volta la parola “clima”. C’era da attendersi che i nodi tornassero al pettine quest’anno, con la presidenza francese orgogliosa degli accordi di Parigi. Nulla di nuovo è dunque emerso a Biarritz, anche se la pressione dell’opinione pubblica sugli incendi nella foresta amazzonica ha spinto i partecipanti a raggiungere un accordo per stanziare 20 milioni di dollari per combattere l’emergenza. Fondi che però sono stati rifiutati dal governo brasiliano che li ha bollati come una “pratica coloniale”, sullo sfondo di una dura contrapposizione fra Macron e Bolsonaro.

Per quanto riguarda invece gli aiuti allo sviluppo, il G7 è sempre stato il luogo in cui i Paesi si sono spronati a vicenda nel rispettare l’impegno preso in sede Onu di destinare risorse equivalenti ad almeno lo 0,7% del proprio PIL nazionale agli aiuti ai paesi più poveri. Quest’anno, la Presidenza francese ha nuovamente posto l’accento sul tema: da un lato invitando al vertice anche cinque rappresentanze africane (Burkina Faso, Senegal, Ruanda, Sudafrica e Unione africana), dall’altro puntando l’attenzione sull’inclusione finanziaria dell’Africa. In un documento conclusivo relativo ai rapporti tra G7 e Paesi africani, i sette hanno promesso di sostenere l’imprenditoria femminile nel continente collaborando alla Affirmative Finance Action for Women in Africa (AFAWA),  un progetto della African Development Bank che si prevede mobiliterà fino a 3 miliardi di investimenti.

Sul fronte del volume totale degli aiuti, va comunque ricordato che nel 2018 quelli statunitensi sono diminuiti del 5% in termini reali rispetto al 2017. Tuttavia, in questo caso Washington è in “buona” compagnia: mentre gli aiuti canadesi sono aumentati del 5%, quelli francesi del 4% e quelli britannici del 2%, gli aiuti tedeschi si sono ridotti del 3%, e le contrazioni fatte registrare da Italia e Giappone sono persino più nette: rispettivamente -21% e -13%.

 

La presidenza francese: cosa resta della lotta alla disuguaglianza?

Gli obiettivi prioritari scelti da ciascuna presidenza di turno del vertice rischiano di passare in secondo piano, soprattutto perché per i negoziatori è necessario concentrare gli sforzi su una ricomposizione di un minimo comune denominatore su quelle che sono da sempre state le “ragioni esistenziali” del G7, come la difesa del libero commercio, della democrazia e in generale dell’ordine liberale multilaterale.

Per il 2019, la presidenza francese del vertice aveva scelto come sua priorità la lotta alle disuguaglianze. Un tema non solo molto sentito, ma che teoricamente bene si coniuga con alcuni degli obiettivi politici prioritari dei governi dei 7 paesi partecipanti. Innanzitutto perché proprio il possibile effetto che la globalizzazione sembra avere avuto sull’amplificarsi delle disuguaglianze all’interno dei singoli paesi è un tema di assoluta importanza, ed è corretto tentare di affrontarlo al livello di capi di stato e di governo delle maggiori democrazie a economia avanzata. In secondo luogo perché, se il summit ambisce a funzionare come “camera di compensazione” che permetta ai leader dei 7 paesi di raggiungere una posizione unitaria in vista delle discussioni al G20, proprio le disuguaglianze sarebbero uno di quei temi cruciali e facilmente suscettibili di essere portato all’attenzione di tutti i leader del mondo.

Tuttavia le distanze tra i paesi membri anche in merito alle ricette proposte da ciascuno di essi per porre un freno o invertire il trend, non hanno fatto sì che dal vertice emergesse una risposta unitaria e di rilievo.

Una possibile convergenza è invece emersa sulla webtax. A luglio la Francia ha infatti introdotto in maniera unilaterale una “tassa sui servizi digitali” con l’obiettivo di evitare che le compagnie digitali (come Google o Facebook) possano muoversi a livello internazionale per “aggirare” i sistemi di tassazione nazionale. Nella conferenza stampa conclusiva, Macron ha detto di aver trovato un buon compromesso con Trump sulla questione: la Francia si impegnerebbe infatti a rimborsare la differenza tra l’imposta francese del 3% e la futura tassa comune a livello globale in discussione all’OCSE, se e quando questa venisse effettivamente adottata.

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AUTORI

Matteo Villa
ISPI Research Fellow
Antonio Villafranca
ISPI Research Coordinator and Head, Europe and Global Governance Centre

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