Dopo gli Usa anche il Canada accusa la Cina di “genocidio” nello Xinjiang. Pechino insorge, e per l’Europa si avvicina il banco di prova.
Il Parlamento canadese ha votato all’unanimità per dichiarare il trattamento riservato dalla Cina ai cittadini di minoranza uigura “un genocidio”. La mozione - passata 266 a 0 - è stata sostenuta da tutti i partiti di maggioranza e opposizione e da una manciata di legislatori del partito liberale al governo. Il primo ministro Justin Trudeau e la maggior parte dei membri del suo gabinetto si sono astenuti. La mozione approvata fa del Canada il secondo paese dopo gli Stati Uniti ad accusare formalmente la Cina di genocidio. I legislatori hanno anche approvato un emendamento per invitare il Comitato olimpico internazionale a trasferire le Olimpiadi invernali del 2022, organizzate a Pechino, “se il governo cinese perpetua questo genocidio”. Intervenendo prima del voto, la leader di opposizione Erin O’Toole ha detto che è necessario inviare un “segnale chiaro e inequivocabile del fatto che ci batteremo per i diritti umani anche se ciò significa sacrificare qualche opportunità economica”. Il voto canadese ha portato alla ribalta i promotori di un’iniziativa simile anche al parlamento britannico e il ministro degli Esteri britannico Dominic Raab ha denunciato “violazioni dei diritti umani su scala industriale” nello Xinjiang. Non si è fatta attendere la risposta di Pechino che ha definito “bugie inventate” quelle relative al genocidio degli uiguri e invitato l’Alto commissario Onu per i diritti umani Michelle Bachelet a visitare la regione nord-occidentale. Se l’accusa di genocidio comporta conseguenze misurate sul piano legale, il ricorso al termine comporta ancora uno stigma molto potente, in un momento in cui Pechino sente crescere su di sé la pressione internazionale.
Tra due fuochi?
La questione uigura nello Xinjiang è solo l’ultimo tassello di un rapporto sempre più complicato tra Pechino e Ottawa. Le relazioni tra i due paesi hanno cominciato a deteriorarsi con l’arresto su mandato statunitense di Meng Wanzhou, Cfo di Huawei nel dicembre 2018, a cui la Cina ha risposto arrestando due cittadini canadesi in Cina, ingaggiando quella che Trudeau ha definito “diplomazia degli ostaggi”. Da oggi il Canada diventa ufficialmente il secondo paese dopo gli Stati Uniti ad accusare apertamente Pechino di ‘genocidio’. Sia il precedente Segretario di Stato americano Mike Pompeo che l’attuale Anthony Blinken, infatti, hanno dichiarato che le politiche della Cina contro i musulmani uiguri e altre minoranze etniche nella regione dello Xinjiang occidentale costituiscono un genocidio. Finora il governo Trudeau, che governa senza una maggioranza parlamentare, aveva cercato di tenere un difficile equilibrio tra l’indipendenza della propria politica estera, le pressioni dell’alleato statunitense e la necessità di mantenere relazioni cordiali con Pechino. Ma con il voto in parlamento – per quanto non vincolante – le tensioni tra i due paesi sono destinate ad aumentare.
Un alleato imprescindibile?
Se non si può definire una potenza del Pacifico, il Canada è senza dubbio un attore importante della regione. Pur essendo un alleato NATO con profondi legami storici con l'Europa, come gli Stati Uniti, il suo futuro è sempre più legato al continente asiatico. Anche prima di aderire all'accordo globale e progressivo per il partenariato trans-pacifico (TPP11) nel 2018, il commercio del Canada con i paesi asiatici era maggiore del suo commercio complessivo con Europa, America Latina e Africa. Quasi il 18% dei canadesi afferma di avere origini asiatiche - il doppio rispetto agli Stati Uniti - e in città come Toronto e Vancouver, il mandarino e il cantonese sono più parlati del francese. Inoltre circa 300.000 canadesi vivono a Hong Kong - la seconda maggiore comunità di canadesi all’estero - dando al governo di Ottawa un interesse particolare per le tensioni di cui la città è epicentro da tempo e il futuro del modello ‘un paese, due sistemi’. Ma è difficile immaginare una strategia americana di successo per trattare con la Cina che non includa, nel ‘fronte occidentale’ voluto dal presidente Joe Biden, anche il Canada. E La nuova amministrazione lo ha fatto capire chiaramente: continuerà ad opporsi a Pechino. Se Ottawa volesse svincolarsi, potrebbe indurre altri alleati - la cui storia, valori e interessi siano meno allineati con quelli di Washington – a decidere di restare in disparte.
Dilemma europeo?
L’Europa osserva, e nel mentre prende contatti con la nuova amministrazione americana: ieri, il primo incontro tra Antony Blinken e i ministri del Consiglio Affari Esteri dell’Unione “è stato positivo”, ha detto l'Alto rappresentante Josep Borrell. Oltre alla possibilità di adottare nuove sanzioni contro la Russia e contro i generali autori del colpo di stato in Myanmar, si è discusso di Hong Kong e delle opzioni in caso di ulteriore deterioramento della situazione. Il neo Segretario di Stato americano ha confermato l’apertura di Washington sull’accordo nucleare con l'Iran e Borrell si è detto “ragionevolmente ottimista”. Ma il vero banco di prova nel risanamento delle relazioni transatlantiche, dopo il turbolento interludio dell’era Trump, sarà la Cina e la volontà europea di mettere in discussione interessi economici di breve periodo. Secondo gli ultimi dati diffusi da Eurostat il volume degli scambi commerciali del Vecchio continente con la potenza asiatica ha superato quello con gli Stati Uniti. Inoltre, pur condividendo le preoccupazioni degli alleati sulle pratiche commerciali e tecnologiche scorrette di Pechino, alla fine dello scorso anno l’Ue ha finalizzato un accordo di investimento con la Cina – considerata un “concorrente strategico" e un “rivale sistemico” - volto a promuovere l'accesso al mercato asiatico. Un accordo che Borrell ha giustificato sostenendo che il commercio “è altra cosa rispetto alla repressione nello Xinjiang o a Hong Kong”. Una difesa che non nasconde il dilemma dell’Europa, istintivamente multilateralista, ma ormai conscia che priorità e valori di Pechino non coincidono con i propri.
Il commento
di Giulia Sciorati, Associate Research Fellow, Asia Centre, China Programme
“Lo Xinjiang, così come Hong Kong, è sempre più spesso al centro delle discussioni sul ruolo di Pechino nel sistema internazionale. Ultimo esempio di questa tendenza era stata la questione del lavoro forzato uiguro, ‘dimenticata’ nel ‘Comprehensive Agreement on Investment’ tra Cina e Ue. L'impatto delle questioni interne sulle scelte di politica estera cinesi e sulla presenza stessa della Cina nel mondo sarà sempre più pressante, soprattutto se il sistema di relazioni internazionali continuerà a muoversi secondo uno schema di opposizione tra regimi autoritari e democrazie”.
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A cura della redazione di ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca, ISPI Advisor for Online Publications)