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AUTOMOTIVE

Geoeconomia della transizione

Davide Tentori
|
Alberto Rizzi
21 gennaio 2022

Il 2021 è stato un anno di forte ripresa per l’economia globale, dopo il “tonfo” accusato nel 2020 a causa della prima ondata pandemica. Il commercio internazionale ha visto un significativo rimbalzo, soprattutto grazie agli scambi di beni che hanno superato i livelli pre-Covid. Tuttavia, questa performance positiva non ha interessato tutti i settori manifatturieri in maniera omogenea: ad esempio, il settore automotive ha vissuto un anno complicato per diverse ragioni.

 

Recupero “soffocato”

Partiamo innanzitutto dai numeri: i dati finali su tutto il 2021 non sono ancora disponibili, ma in ogni caso il settore automobilistico ha visto una ripresa rispetto all’anno precedente, sia in termini di output (veicoli prodotti) che di immatricolazioni. Secondo l’Associazione dei Produttori di auto europei (ACEA), la domanda globale di nuove automobili è cresciuta dell’11,3% su base annua nei primi tre trimestri del 2021 (equivalente a 49 milioni di veicoli): a trainare la ripresa sono stati soprattutto gli Stati Uniti (+16,3%), mentre le vendite in Unione Europea e Cina hanno visto aumenti più contenuti (rispettivamente +6,6% e +5,4%). In Giappone e Corea del Sud, tradizionalmente attori di riferimento per l’industria automobilistica, la performance è stata decisamente peggiore: solo +2,1% nel primo, mentre per la seconda si è registrata addirittura un’ulteriore contrazione (-8%). Il 2021 dunque non è andato male, ma sarebbe potuto andare molto meglio.

Sempre secondo ACEA, per quanto riguarda le quote di mercato, la fetta più importante spetta all’Asia con il 46,4% sul totale globale (di cui il 28,4% è coperto dalla sola Cina). Seguono Nordamerica (22,3%, con il 19% degli Stati Uniti) ed Europa (22,5%, di cui il 15% è rappresentato dall’UE). Infine, restringendo il focus della nostra analisi ai principali Stati dell’UE, è interessante notare come la migliore performance (sempre sul periodo gennaio-settembre) sia stata registrata proprio dall’Italia (+20,6%), seguita da Spagna e Francia (+8,8% e +8%), mentre la Germania si è ritrovata in territorio negativo (-1,2%) avendo però registrato dati molto migliori nel corso del 2020. 

Questo quadro tendenzialmente roseo – ma decisamente disomogeneo – deve però essere letto alla luce di un graduale peggioramento delle stime: infatti, rispetto alle previsioni di inizio anno il settore potrebbe avere perso ricavi per 210 miliardi di dollari, equivalenti a una mancata produzione di 7,7 milioni di autoveicoli. Il punto di svolta va ricercato nella performance estremamente negativa del mese di settembre, quando sono venuti al pettine i nodi – o per meglio dire, i colli di bottiglia – delle supply chains globali. Il crescente mismatch tra domanda (in eccesso) e offerta di semiconduttori (componenti chiave per la realizzazione non solo di batterie ma di tutte le strumentazioni sempre più hi-tech incluse nelle autovetture), unitamente alla carenza di container per il trasporto marittimo, ha contribuito a ritardare le fasi produttive a valle delle filiere, costringendo molti produttori a rallentare (se non addirittura a bloccare temporaneamente) alcune linee produttive, allungando significativamente i tempi di consegna dei nuovi veicoli e passando da una media di tre mesi a liste d’attesa lunghe fino a dieci mesi. Questa dinamica ha originato una pressione senza precedenti dal lato della domanda sul mercato delle auto usate, con i prezzi che (per fare l’esempio degli Stati Uniti) sono cresciuti mediamente del 40%: un fattore da non sottovalutare nel computo dell’attuale fase inflazionistica che negli USA ha raggiunto il massimo da quarant’anni a questa parte.

Con queste premesse, quali sono le prospettive per il 2022? È difficile che gli attuali problemi vengano risolti del tutto in pochi mesi; per questo motivo le stime più ottimistiche tracciano uno scenario globale sostanzialmente in linea con i risultati del 2021. I tre grandi produttori europei (Volkswagen, Stellantis, Renault-Nissan) continueranno a soffrire della carenza di chip, mantenendo il mercato su ritmi di crescita bassi. Tuttavia, per cercare di capire in quale direzione si muoverà il mercato mondiale dell’auto, a questa dinamica contingente va aggiunta anche la grande partita che si giocherà nei prossimi anni: quella della rivoluzione tecnologica.

 

La grande partita della tecnologia

La sfida principale che il settore automotive si trova davanti nei prossimi anni è indubbiamente quella della tecnologia: una dinamica che riguarda principalmente il mondo dei veicoli elettrici, ma non solo. Ad essere investita dalle innovazioni tecnologiche è infatti l’intera filiera dell’industria automobilistica: dai diversi sistemi di propulsione all’intelligenza artificiale nei veicoli, un elemento sempre più presente nelle auto di nuova generazione.

La competizione globale si concentra soprattutto nel settore dei veicoli elettrici, un trend che ha conosciuto un’accelerazione enorme nel corso del 2020: degli oltre 400 miliardi di dollari investiti nel mondo nel settore dei veicoli elettrici tra il 2010 e il 2020, 100 sono stati investiti nel solo 2020. Una scelta spinta anche dalle iniziative a livello governativo a favore della transizione sostenibile, che hanno portato avanti la mobilità elettrica come opzione principale verso la decarbonizzazione. Tra incentivi alla produzione (o acquisto) di veicoli elettrici e programmi per bloccare le vendite di veicoli con motore a scoppio nel medio termine, infatti, l’orientamento alla mobilità elettrica è il risultato tanto di un cambiamento di paradigma dell’industria ma soprattutto di una svolta a livello di policy.

Anche tra i principali players globali del settore la velocità della transizione non è uniforme: se l’Europa si trova in pole position sia a livello di scelte dei gruppi industriali che dei governi, l’Asia si colloca più indietro, con obiettivi di passaggio all’elettrico più lontani nel tempo. Nel mezzo i due giganti: Cina e Stati Uniti.

Pechino da un lato rappresenta quasi il 40% della vendita di veicoli elettrici al mondo e punta alla leadership globale, dall’altro sconta però diversi limiti. In primis, il mercato dell’auto elettrica cinese resta dominato da gruppi stranieri, i quali godono ancora di un vantaggio competitivo sui principali produttori locali. Inoltre, la Cina non ha ancora raggiunto capacità tecnologiche comparabili a quelle occidentali su due componenti fondamentali delle auto elettriche: batterie e chip. Nel secondo caso, le elevate barriere all’ingresso per produrre i circuiti più avanzati rappresentano un limite che Pechino intende superare con la strategia di Made in China 2025 e massicci investimenti in innovazione. Nel caso delle batterie, invece, la Cina, pur non essendo ai primi posti per autonomia delle batterie prodotte, controlla gran parte dei minerali utilizzati nella loro fabbricazione. Un’analisi della Hinrich Foundation stima, infatti, che le aziende pubbliche cinesi controllino direttamente o indirettamente quasi l’80% delle terre rare globali necessarie alla realizzazione delle batterie per auto elettriche. Una quota di mercato che, unita all’obiettivo cinese di avere il 40% di veicoli elettrici per il 2030, apre alla possibilità che Pechino indirizzi i materiali critici verso la produzione interna, riducendo l’export, e di conseguenza, mettendo in difficoltà i competitor internazionali, costretti a disputarsi le (poche) fonti alternative.

Oltre alle materie prime, la Cina possiede anche un vantaggio nell’altra componente fondamentale: l’infrastruttura. La presenza di stazioni di ricarica è infatti fondamentale per lo sviluppo di un ecosistema competitivo per veicoli elettrici e Pechino possiede circa 800 mila stazioni sul proprio territorio, contro le 100 mila degli USA (secondi in classifica). Se il numero assoluto dipende anche dalla diversa struttura demografica, il primato cinese sugli USA si conferma anche sul numero di stazioni ogni 100 km: pur classificandosi terza (dopo Corea del Sud e Paesi Bassi) con 6,1 stazioni ogni 100 km, Pechino ha una frequenza 12 volte superiore a quella americana: appena 0,5 stazioni ogni 100 km per Washington. Un gap molto elevato per gli USA, che sono corsi ai ripari con le misure varate a novembre 2021 dall’amministrazione Biden.

Le nuove frontiere del settore automobilistico non riguardano però soltanto l’hardware, ma anche il software: in un’era di veicoli smart, sempre connessi e in grado di comunicare con il conducente e l’ambiente circostante, un ruolo fondamentale viene svolto dai dati. Sia per quanto riguarda la sicurezza, raccogliendo informazioni sulla strada, sia per quanto riguarda la manutenzione, immagazzinando dati sulle abitudini dei conducenti, i luoghi attraversati e il traffico. Si tratta di uno sviluppo che, accanto a grandi opportunità, presenta anche aspetti critici per quanto riguarda raccolta, conservazione e condivisione di dati personali. Una delle sfide per i produttori di automobili (e per i governi) sarà quella di garantire un’adeguata protezione dei dati raccolti dalle automobili di nuova generazione, oltre a forme di controllo dell’intelligenza artificiale installata a bordo che assicuri il pieno rispetto delle normative di privacy.

La digitalizzazione dell’automotive investe però tutti gli aspetti, a partire dalla produzione. Le smart factories rappresentano la nuova frontiera della fabbricazione di automobili, con i principali gruppi mondiali che stanno digitalizzando e automatizzando sempre più fasi della filiera. Una sfida in cui, dato il ruolo rilevante svolto dalle tecnologie 5G e il peso dell’industria automobilistica nelle principali potenze globali, sono coinvolte anche dinamiche geopolitiche e di cybersecurity.

 

La geopolitica dell’automotive

La rilevanza geopolitica dell’industria automobilistica, unita alla competizione per la leadership della mobilità elettrica ha portato a una vera e propria sfida tra i principali attori globali. Una gara tra UE, USA e Cina che si corre soprattutto sul circuito delle iniziative governative.

Tra le più attive su questo fronte c’è sicuramente l’Unione Europea, non solo patria di una forte tradizione nel settore automotive, ma anche aspirante a un ruolo di leader mondiale della transizione energetica. Proprio in quest’ottica si collocano diversi programmi comunitari, come l’Alleanza Europea delle Batterie, un’iniziativa avviata nel 2017 per sviluppare capacità produttive interne, riducendo la dipendenza dalle importazioni cinesi. Con oltre 3,2 miliardi di euro tra sussidi e prestiti e 17 progetti approvati, l’intento è quello di costituire una filiera interna. Per garantirsi le materie prime, oltre a nuovi siti minerari interni all’Unione, la Commissione punta a rafforzare la cooperazione con fornitori alternativi, tra cui Canada, Serbia e America Latina. Anche lo European Green Deal riunisce diversi programmi per rafforzare la produzione di veicoli elettrici nell’Unione, incluse misure che aumentano le stazioni di ricarica e le infrastrutture di supporto ai veicoli elettrici.

Misure pubbliche di incentivo alla mobilità sostenibile sono state lanciate anche negli Stati Uniti, spinte dalla necessità di colmare il divario con la Cina. Dopo gli anni di Trump, poco attento alle questioni ambientali, la presidenza Biden ha dato nuovo slancio all’auto elettrica, con stanziamenti sia dal lato dell’offerta che della domanda. Il piano approvato al Congresso prevede infatti finanziamenti miliardari per l’infrastruttura e la produzione di veicoli elettrici, oltre a crediti fiscali per le aziende coinvolte e sussidi per i consumatori che scelgono un’auto elettrica. Le iniziative federali sono accompagnate da una serie di programmi statali volti ad attrarre investimenti per la realizzazione di siti produttivi. Un cambiamento di paradigma significativo da parte degli USA, dove in passato lo spostamento verso la mobilità sostenibile era stato attuato principalmente tramite dinamiche di libero mercato, come testimonia lo sviluppo di Tesla, piuttosto che attraverso programmi istituzionali. Ora invece assistiamo alla definizione di organiche iniziative di politica industriale, in controtendenza rispetto all’approccio tradizionale americano che aveva privilegiato il laissez-faire e volte a favorire lo sviluppo di una forte industria nazionale attraverso incentivi fiscali, permessi di acquisizione e costruzione, sussidi pubblici.

Secondo l’E-Mobility Index 2021, sviluppato da Roland Berger e FKA, che misura la competitività nell’automotive sulla base di tre indicatori (tecnologia, industria e mercato), la Cina risulta essere attualmente in testa, seguita da Germania e Francia. Solo quarti gli Stati Uniti, che scontano il ritardo nelle politiche pubbliche a sostegno della mobilità elettrica e lo scetticismo da parte dei privati: ad oggi il mercato USA vale solo il 10% delle vendite globali di auto elettriche, contro il 44% dell’Europa e il 40% della Cina. Germania e Francia, alfieri dell’industria automobilistica europea, sono invece spinte proprio da un mercato più favorevole, mentre la Cina, oltre alle economie di scala che la contraddistinguono, sta consolidando anche le proprie competenze tecnologiche.

 

La doppia transizione dell’auto

È evidente che il settore dell’automotive sta andando incontro a cambiamenti epocali: Forse per questa industria si pò parlare di una “doppia transizione”: quella ecologica, che ha all’orizzonte la realizzazione di una modalità sostenibile, e quella digitale, che renderà gli autoveicoli sempre più innovativi e interattivi con i passeggeri. Gli ostacoli sono molteplici e di varia natura: innanzitutto per la scarsità attuale (e futura?) di risorse e prodotti intermedi cruciali per la realizzazione di chip e batterie. A tale proposito la rapidità con cui le gigafactories (impianti di ultima generazione per la produzione di batterie) si svilupperanno e diffonderanno sarà cruciale: Tesla si è mossa per prima, ma le altre grandi casi automobilistiche stanno seguendo, con l’Europa (e l’Italia) che potrebbero essere al centro di questa dinamica.

A questo si somma poi la competizione geopolitica tra i principali attori – Cina, Stati Uniti, Unione Europea. La tendenza all’accorciamento delle filiere e all’implementazione di politiche industriali più “interventiste” è destinata a generare frizioni a livello internazionale nei prossimi anni per la conquista di input chiave e per il controllo di maggiori quote di mercato. La partita è appena cominciata.

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Image Credits (CC BY 2.0): Maurizio Pesce

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