L’errore più grave che si possa fare nell’analizzare le future politiche economiche tedesche è la personalizzazione. In Germania, infatti, l’insieme delle scelte in campo economico non dipende mai da una persona, ma dalle preferenze e dalle priorità dei principali partiti i quali, a loro volta, riflettono le istanze dell’elettorato. Le principali formazioni politiche, ovvero quelle che ragionevolmente possono far parte della prossima coalizione di governo, non presentano differenze sostanziali nell’ambito della politica fiscale. Differenti coalizioni governative, a seconda del peso dei partiti al loro interno, produrrebbero quindi cambiamenti solo marginali della politica fiscale.
Un freno per l’indebitamento
Un fondamento della politica di bilancio tedesca è il famigerato “Schuldenbremse”, ovvero il freno all’indebitamento, ormai parte della Costituzione. Questo meccanismo limita il deficit in condizioni “normali” allo 0,35% del Pil. Un limite che, naturalmente, è stato sospeso tra il 2020 e il 2021; al momento non è neppure certo se questa moratoria, prevista per situazioni straordinarie, sarà estesa anche al prossimo anno. In ogni caso, è sicuro che prima o poi le clausole sul freno all’indebitamento torneranno a essere applicate. Inoltre, questo meccanismo è e rimane piuttosto popolare, spingendo così in rotta di collisione, non solo con la Corte costituzionale ma anche con un’opinione pubblica contraria, qualunque governo che intenda mantenere ampi disavanzi anche una volta che la crisi pandemica sarà rientrata.
Per comprendere il duraturo consenso di cui gode la “frugalità” in Germania, occorre fare un passo indietro nella storia. All’interno del libro “The Euro and the battle of ideas”, tre economisti (da USA, Francia, e Germania) descrivono argutamente il ruolo giocato dalle idee tra il 2010 e il 2014, quando l’Unione monetaria era in grave crisi e sembrava, a tratti, che potesse addirittura collassare sotto le pressioni esercitate dai mercati finanziari. La tesi del libro è che la gestione della crisi dell’Eurozona sia stata dominata dagli scontri tra Francia e Germania, e che la posizione dei due Paesi fosse largamente dettata dai rispettivi ideali economici di base.
L’assenza di una posizione comune a livello UE
La posizione tedesca si fonda sul principio di una gestione fiscale basata su regole e sull’assunto che livelli di debito elevati creino sempre problemi economici. Quella francese enfatizza invece il primato della politica sull’economia: le regole non devono costituire un ostacolo alle scelte politiche fondamentali. In sintesi, se il governo necessita di spendere di più, lo deve poter fare a prescindere da quanto dettano le regole. Una simile frattura può essere osservata anche tra Germania e Italia – o, più in generale, tra il Nord “frugale” e un Sud “spendaccione” all’interno dell’Eurozona.
Non vi è infatti alcuna visione condivisa dei principi su cui basare la politica fiscale in Europa. Perché neppure la crisi causata dal Covid-19 è stata in grado di portare a una revisione critica delle strategie fiscali europee? La motivazione sottostante è probabilmente un pregiudizio di conferma, che ha irrigidito le posizioni di entrambe le parti poiché - come sostiene Dani Rodrik - in una crisi le persone istintivamente cercano una conferma delle proprie convinzioni di vecchia data.
Chi ha criticato a lungo l’austerity si ritiene ora pienamente giustificato, perché nessuno può obiettare ad ampi deficit durante una crisi. E indica nella sospensione delle regole fiscali del Patto di Stabilità, con l’ampio deficit pandemico tedesco, una conferma delle proprie posizioni.
Per i tedeschi, austerity vuol dire crescita
Ma l’opinione pubblica tedesca vede le cose diversamente. L’impressione condivisa in Germania è infatti che la crisi abbia mostrato l’importanza di una politica fiscale prudente. Anni di bilanci in attivo hanno infatti messo il governo tedesco in una posizione di forza, permettendogli di spendere senza impedimenti durante la crisi e di aiutare i lavoratori e le imprese tedesche in difficoltà.
Questa idea rafforza anche la convinzione che una politica fiscale frugale ripaghi sempre. Vent’anni fa, la Germania era il “malato d’Europa”, con bassi livelli di crescita ed alti tassi di disoccupazione, il tutto in violazione dei parametri fiscali di Maastricht con deficit superiori al 3% del Pil. Nel 2003, il Governo tedesco si era perfino alleato con Italia e Francia per prevenire l’applicazione delle regole di Maastricht da parte della Commissione europea. Tuttavia, questa vicenda lasciò l’amaro in bocca all’opinione pubblica tedesca e portò successivamente a uno sforzo nazionale coordinato per ridurre il deficit. Uno sforzo condiviso, dato il coinvolgimento delle istituzioni statali (Länder) e federali, che si concretizzò principalmente nella riduzione della spesa pubblica di circa di circa 4 punti percentuali di Pil.
L’aspetto fondamentale di quell’esperienza è che la stretta fiscale non fu accompagnata da alcuna recessione. Al contrario, la crescita si rafforzò e il tasso di disoccupazione scese stabilmente. Alcuni sostengono che si sia trattato soltanto di una coincidenza, dovuta alla crescente domanda cinese di macchinari tedeschi. Altri invece ritengono che la ripresa si stata spinta proprio dalle riforme del mercato del lavoro. Infine, vi è anche chi reputa che l’economia si riprese grazie soprattutto alla sostenibilità della politica fiscale. Non importa, in realtà, se si sia trattato di una fortunata coincidenza o se gli aggiustamenti di bilancio ripaghino sempre velocemente. Quello che conta, almeno nella memoria collettiva nazionale, è che una politica fiscale frugale sia ormai associata a tempi migliori, confermando la convinzione esistente già prima della crisi.
Un altro indicatore della continua prudenza tedesca in materia fiscale può essere trovato in una scelta del 2020 che ha trovato poca risonanza mediatica. Quando venne costituito Next Generation EU (NGEU), il governo uscente aveva deciso che le (poche) risorse spettanti alla Germania dovessero essere destinate alla riduzione del debito pubblico. Una decisione che venne presa senza alcuna opposizione da parte del Ministero delle Finanze, presieduto da Olaf Scholz dell’SPD, che si è affermato come partito di maggioranza relativa dopo il voto di domenica 26 settembre.
Dopo Merkel: cambiare tutto per non cambiare nulla?
I Verdi, che con ogni probabilità faranno parte della futura coalizione di governo, sono naturalmente meno focalizzati sulla prudenza fiscale, ma i loro principali obiettivi non richiedono necessariamente neppure ampie spese pubbliche. La maggior parte del programma dei Verdi include infatti tasse o regolamentazioni in varie forme. Infine, una loro inclusione nel governo, potrebbe ritardare parte del necessario miglioramento delle fatiscenti autostrade tedesche, dato che i Verdi si oppongono a finanziare il trasporto su gomma.
Nel complesso, sembra che la Germania post-Merkel (e post-Schäuble) continuerà sulla linea ormai consolidata della prudenza fiscale.