Nei 16 anni di governo di Angela Merkel la Germania ha consolidato la sua posizione come principale potenza economica europea nell'ambito di una fittissima serie di rapporti commerciali e finanziari con gli altri Paesi. Un modello che appare di grande successo, ma fino a che punto è davvero così? E, soprattutto, è un modello pienamente sostenibile e di sicuro successo anche per il futuro?
Da “malato” a locomotiva d’Europa
Nella memoria collettiva europea, il miracolo economico tedesco fa riferimento alla straordinaria crescita degli anni ‘50 che portò un Paese distrutto dalla guerra a diventare una delle prime economie del mondo. Ma, a ben vedere, in Germania si è verificato un altro miracolo economico. Nei primi anni 2000 la Germania era considerata “il malato d’Europa”, un Paese caratterizzato da bassa crescita (mediamente più bassa di un punto percentuale rispetto al resto dell’Eurozona) e alti tassi di disoccupazione (intorno al 10%) che scontava ancora i pesanti costi della riunificazione. Nel 2019, appena prima della pandemia, la Germania costituiva oltre il 25% dell’economia UE, il Pil registrava una crescita media annua del 2% dal 2010 (a fronte dell’1,4% dell’eurozona), e il tasso di disoccupazione non superava il 5%.
Una trasformazione da “malato” a “locomotiva” d’Europa il cui passo non è stato facile. Ha richiesto anzitutto il passaggio dalle riforme del governo Schröder che hanno reso più flessibile il mercato del lavoro, ma hanno inciso anche sulla formazione dei lavoratori, sulla contrattazione sindacale, fino alla governance stessa delle aziende. Ne è risultato un grande dinamismo del sistema imprenditoriale tedesco, che la Cancelliera ha ulteriormente contribuito a consolidare (senza sostanzialmente toccare le riforme fatte dai suoi predecessori). Tra i più grandi successi in patria di Angela Merkel figurano anche l’aver arginato l’impatto economico della crisi finanziaria globale del 2008-09 (già nel 2011 il Pil pro capite era oltre i livelli del 2009), ma anche gli sforzi per integrare nel mercato del lavoro due gruppi tradizionalmente caratterizzati da una partecipazione minore, le donne e gli immigrati. Il tutto operando fino al 2019 una riduzione costante del rapporto debito/Pil mettendo peraltro in Costituzione un limite dello 0,35 del Pil al deficit di bilancio.
Anche durante la pandemia, la gestione della Cancelliera è sembrata prudente e relativamente efficace. La Germania conta infatti un numero di morti per milione di abitanti più basso degli altri grandi Paesi avanzati (all’interno del G7 solo Canada e Giappone hanno fatto meglio), e anche sul fronte economico i danni sono stati contenuti: nel 2020 il Pil si è contratto del 4,9%, un calo assai più contenuto di quelli sperimentati da Italia e Francia (rispettivamente –8,9% e –8%). Anche le prospettive future, pur a fronte di un rimbalzo atteso relativamente modesto nel 2021 (+2,9%), lasciano intravedere un solido ritorno alla crescita con un +4,9% nel 2022. Crescita attesa dovuta in larga parte alla ripresa della domanda estera – soprattutto in USA e Cina - motore principale della crescita tedesca.
Potenza globale dell’export: solo vantaggi?
La crescita tedesca negli anni di Angela Merkel è legata al consolidamento di un modello economico fortemente votato all’export. Nel 2005, quando la Cancelliera ottenne il suo primo incarico, il valore delle esportazioni di beni e servizi equivaleva a circa un terzo del Pil tedesco (32,8%); oggi tale proporzione sfiora la metà del Pil (picco di 47,3% nel 2018). Anche nell’anno della pandemia, nonostante una contrazione delle esportazioni del 9,3%, la Germania ha mantenuto in attivo la propria bilancia commerciale, facendo registrare un surplus con il resto del mondo di oltre 179 miliardi di euro. Perfino i rapporti commerciali con la Cina, principale partner commerciale della Germania da cinque anni, sono stati caratterizzati da un surplus a favore di Berlino, circostanza piuttosto rara nelle economie avanzate (e non solo).
L’ampio surplus commerciale tedesco, secondo in valore assoluto solo a quello cinese, riflette anche la posizione della Germania di snodo fondamentale nelle catene produttive globali. La Germania è appunto uno dei principali hub manifatturieri del mondo insieme a Stati Uniti e Cina: il 43% delle esportazioni nette tedesche sono possibili grazie all’integrazione del sistema produttivo tedesco nelle global value chains. Dietro l’alto valore aggiunto dell’export tedesco vi sono anche molti prodotti intermedi o semilavorati europei e, soprattutto in settori chiave come la meccanica di precisione, vi è una forte componente italiana. Automotive, chimica, e macchinari – le tre principali industrie tedesche – sono ampiamente integrate nelle catene globali del valore, con circa un terzo dell’input proveniente da fuori Germania; un valore che risulta ancora più grande (45%) nell’industria chimica.
Questa forte integrazione economica con l’estero presenta tuttavia anche un rovescio della medaglia: le principali industrie del Paese sono spesso anche quelle maggiormente dipendenti sia dalla domanda straniera che dalla fornitura di beni intermedi. Dal lato dell’offerta, ciò espone industrie chiave per il Paese, come quella automobilistica, all’attuale carenza di semiconduttori, ponendo un freno alla produzione e dunque alla crescita economica del Paese stesso. Dal lato della domanda estera (potenzialmente volatile), invece, l’eccessiva dipendenza dall’export potrebbe costituire un fattore di vulnerabilità. Basti pensare che, a fronte di una quota media destinata all’esportazione del 48,4% sul totale della produzione, l’industria automobilistica supera il 60%. Vanno considerati anche fattori di natura puramente geopolitica: durante la guerra commerciale fra l’America di Trump (che prosegue con l’amministrazione Biden) e la Cina, Berlino si è infatti trovata fra due fuochi a causa della doppia esposizione a mercati fondamentali per la propria crescita.
Infine, la forte dipendenza dal settore esterno non solo espone la Germania alla volatilità della domanda internazionale, ma nel lungo periodo rischia di agire da freno allo sviluppo interno. Il focus sui surplus commerciali si è sempre più consolidato mentre la domanda interna non ha tenuto il passo, sia sul piano degli investimenti che su quello dei consumi privati. In un Paese con alti tassi di risparmio come la Germania, questa dinamica potrebbe indebolire le prospettive di sviluppo a lungo termine.
La Germania domani
Già prima della pandemia da Covid-19, nel 2018 alcune analisi suggerivano la necessità per la Germania di riformare il proprio modello economico, rafforzando gli investimenti e puntando sullo sviluppo della domanda interna. L’urgenza di porre in atto la transizione energetica in vista del raggiungimento del target di neutralità climatica entro il 2045, obiettivo fissato dal governo uscente di Angela Merkel nell’estate di quest’anno, rappresenta un importante stimolo agli investimenti, sia pubblici che privati. Un obiettivo ambizioso per un Paese come la Germania che in passato non è sempre riuscita a conseguire i propri target in materia di ambiente ed emissioni. Due settori richiedono, secondo l’OCSE, particolare attenzione in termini di maggiori investimenti: le infrastrutture (specialmente in ottica sostenibile) e la digitalizzazione, ambiti in cui la Germania accusa infatti un deficit significativo nei confronti di altre economie avanzate.
Il piano nazionale tedesco di ripresa e resilienza costituisce indubbiamente una grande occasione per delineare un futuro economico alternativo (o almeno complementare) rispetto all’era Merkel, integrando il modello export-led con investimenti nel campo delle tecnologie green e nella digitalizzazione. Non tanto nelle risorse mobilitate - i sussidi (grants) previsti sono infatti piuttosto contenuti, circa 25 miliardi di euro che saranno utilizzati in larga parte per co-finanziare progetti già esistenti – quanto nelle direttrici principali del piano. Un forte incentivo alla ricerca e alle applicazioni dell’idrogeno nella mobilità e nella produzione di energia, oltre alla transizione verso i veicoli elettrici, cerca di trovare una nuova strada per l'industria automobilistica tedesca. Inoltre, gli oltre 14 miliardi destinati alla digitalizzazione del Paese, potrebbero contribuire a colmare il gap digitale tedesco, sia in campo industriale che nell’istruzione. Importanti saranno anche diverse misure per facilitare gli investimenti interni: oltre alla semplificazione amministrativa, Länder e Governo federale creeranno uno strumento condiviso per ridurre le barriere agli investimenti, sia pubblici che privati.
Molto dipenderà dalle scelte di politica economica che prenderà il primo governo dell’era post-Merkel, anche se difficilmente ci saranno svolte a 180 gradi. Il futuro leader dovrebbe continuare nel solco tracciato negli ultimi anni, cercando però di riequilibrare il modello export-led con misure volte a sviluppare investimenti e domanda interna. Una necessità determinata non solo da considerazioni economiche interne, ma anche dalle tensioni geopolitiche internazionali che imporranno all’Unione Europea di diventare più autonoma e autosufficiente in alcuni settori industriali di importanza strategica.