Non passa giorno senza che la Germania venga criticata dalla stampa europea: incurante dei suoi vicini e insensibile alla crescita. La cancelliera Angela Merkel è stata colpevolmente lenta a capire la gravità della crisi. Solo dopo angosce e dubbi si è arresa all’idea di salvare la Grecia, aiutare il Portogallo e l’Irlanda, creare e poi rafforzare il fondo di stabilità europeo (noto con l’acronimo in-glese Esm). La lentezza tedesca ha fatto probabilmente molti danni e ha aumentato purtroppo i costi della crisi. Parlare di un ostacolo tedesco alla crescita economica della zona euro – come si sta facendo in alcuni casi – è però probabilmente una forzatura e una scusa. L’Italia non cresce non per colpa d’altri, ma perché è un paese spesso poco competitivo, con alti costi del lavoro, numerose rigidità del tessuto economico, potenti corporazioni professionali e oberato da un elevato debito pubblico.
La Germania non può certamente dirsi contraria alla crescita nella zona euro, ma sta mantenendo l’accento sul rigore di bilancio anche a causa delle modalità stesse con cui è nata l’unione moneta-ria. Il difetto di fondo della moneta unica è il fatto che malgrado si condivida un’unica politica mone-taria, si siano mantenuti i vari bilanci nazionali, peraltro scarsamente coordinati. Una contraddizione che la crisi economica e soprattutto lo sconquasso debitorio non hanno mancato di enfatizzare. Nondimeno, l’atteggiamento tedesco si sta lentamente ammorbidendo, con il tentativo di coniugare l’attenzione ai conti pubblici e il rilancio dell’economia europea.
Il problema ovviamente riguarda il modo in cui il sostegno alla congiuntura viene realizzato, e so-prattutto finanziato. La Germania non vuole un ritorno a una politica di spesa keynesiana. È stori-camente preoccupata dalla formazione di nuovo debito e da eventuali distorsioni al libero mercato. Preferisce che si realizzino riforme economiche certamente costose da un punto di vista sociale, ma ritenute inevitabili e indispensabili per assicurare un solido e duraturo rilancio delle economie nazionali dei partner della Zona euro. In questo senso, il governo tedesco vive con malcelato so-spetto la proposta francese o italiana di ricorrere a obbligazioni europee (gli Eurobond). Capisce il desiderio di rafforzare l’integrazione economica e di annullare il perenne e dannoso confronto tra i bilanci nazionali da parte dei mercati finanziari. Teme però la tentazione di assistere a politiche keynesiane, e soprattutto è convinta che sia difficile ipotizzare il ricorso a emissioni congiunte di obbligazioni da parte dei paesi della zona euro se non si condivide un unico bilancio o, quanto meno, se non vi è la possibilità di controllare dall’esterno, direttamente e in modo definitivo i singoli bilanci nazionali. In un’ottica tedesca, è necessario quindi procedere a un’ulteriore – e significativa – cessione di sovranità dalla periferia al centro, dai paesi a un’istituzione sovranazionale.
Nel contempo, molti commentatori sostengono che lo stesso modello tedesco di crescita, forte-mente orientato alle esportazioni, non sia a lungo sostenibile e che sarebbe necessario invece permettere una sostanziale crescita della domanda interna che favorirebbe per di più le esportazioni dei partner della zona euro, così bisognosi di crescita economica. Lo stato tedesco è quindi spesso accusato di egoismo, di insensibilità nei confronti dei suoi vicini. Dietro alla scelta tedesca di cavalcare la domanda internazionale negli ultimi dieci anni vi sono precisi motivi e forse anche sorprendenti debolezze.
In primo luogo la Germania ha compreso, ben prima di altri paesi industrializzati europei, le conse-guenze benefiche della globalizzazione e il fatto che l’ascesa della Cina sarebbe stata accompa-gnata da quella di altri paesi, dall’Africa subasahariana all’America latina. Ha quindi modificato la propria struttura produttiva per renderla quanto più coerente con i nuovi mercati internazionali. In secondo luogo il trend demografico tedesco registra un costante e preoccupante invecchiamento della popolazione (il tasso di fertilità è di appena l’1,41), che pesa sui conti previdenziali e pensio-nistici e ha come conseguenza la debolezza dei consumi. Paradossalmente dietro la scelta della Germania di proiettare la propria economia sui mercati internazionali si cela una fragilità intrinseca più che una forza apparente. Detto ciò, come non ammettere che negli ultimi mesi per facilitare il processo di aggiustamento degli squilibri nella zona euro l’establishment tedesco ha fatto capire di essere pronto ad accettare aumenti salariali e livelli d’inflazione più elevati che nel recente passato?
Sul fatto poi che con questa politica mercantilista la Repubblica Federale non aiuti la crescita eco-nomica dei partner europei, basta osservare i dati più recenti per rendersi conto di come in realtà le esportazioni europee verso la Germania, a partire da quelle di Spagna e Italia, siano aumentate negli ultimi anni. Si pensi, a titolo d’esempio, che l’export verso la Repubblica Federale di una pro-vincia italiana particolarmente produttiva, come quella di Verona, è aumentato del 14,3% nel 2011 rispetto all’anno precedente. Molte aziende italiane sono subfornitrici di grandi società tedesche (dalla Volkswagen alla Bosch, dalla Siemens alla ThyssenKrupp) e hanno quindi beneficiato della crescita tedesca e del suo boom di esportazioni negli ultimi anni.
Probabilmente, non è lecito attendersi quindi un radicale cambiamento di rotta da parte della Ger-mania in merito al suo modello di crescita anche se, come evidenziato sopra, la fine della coppia Angela Merkel-Nicolas Sarkozy e l’arrivo all’Eliseo del socialista François Hollande non potrà non avere effetti in termini di attenzione al rilancio dell’economia, senza che questo tuttavia si traduca in minor rigore. Nel vertice europeo del 23 maggio alcune aperture (sulla ricapitalizzazione della Banca europea degli investimenti, sulle obbligazioni a progetto o su un riorientamento del bilancio comunitario) si sono già avute, e con buona probabilità si tradurranno in proposte formali nel pros-simo Consiglio europeo di fine giugno.
Durante il recente vertice, si è anche prospettata la possibilità di una forma di garanzia in solido dei depositi bancari a livello europeo, per evitare che fughe di capitali dai conti correnti in Grecia si traducano in tendenze simili in altri paesi a rischio. Ma dal punto di vista tedesco, e probabilmente anche francese, vale in questo caso quanto già detto per gli Eurobond. Non è pensabile che la Ger-mania o la Francia si facciano garanti dei depositi spagnoli, greci o portoghesi, se non si centralizze-rà la vigilanza bancaria europea, oggi ancora prevalentemente in mani nazionali. Anche in questo caso la cessione di sovranità dalla periferia al centro appare una condizione imprescindibile.