Negli ultimi cinque anni in Italia sono sbarcate più di 650.000 persone. Sul territorio rimane ancora circa mezzo milione di persone, tra cui coloro che che sono giunti anche da altri paesi europei. Intanto in Italia, anche se a ritmo inferiore, si continua ad arrivare.
La natura del fenomeno
La sfida e il bisogno. Sul tema delle migrazioni l’Italia si trova oggi ad affrontare una duplice sfida. Sul fronte esterno, l’urgenza sarà quella di trovare soluzioni per ridurre l’irregolarità degli arrivi, garantendo però protezione a chi la merita e canali di accesso alternativi a chi vorrebbe venire per lavorare. Sul fronte interno, sarà necessario integrare il più possibile nella società e nell’economia italiana chi, giunto irregolarmente nel nostro paese, con sempre maggiore probabilità vi resterà a lungo. Tra il 2013 e il 2016, infatti, su circa 110.000 stranieri che in Italia hanno ricevuto un decreto di espulsione solo 22.000 sono stati effettivamente rimpatriati: e questo non per mancanza di volontà dei governi che si sono succeduti, ma per il fatto che i paesi di origine sono spesso riluttanti a farsi carico delle persone che andrebbero espulse – anche quando questi paesi hanno stipulato accordi di riammissione con l’Italia.
Va inoltre riconosciuto che di nuovi migranti l’Italia ha profondamente bisogno. Nel 2017 la popolazione italiana si è ridotta di 183.000 unità, e nell’ultimo decennio il numero di nascite è calato del 20%. L’età media continua ad aumentare, e con questa le pressioni sui nostri sistemi di welfare, in particolare su quello pensionistico. Abbiamo dunque bisogno di forza lavoro aggiuntiva e giovane, anche migrante, considerato anche il fatto che questi ultimi, se regolarizzati, nel lungo periodo verseranno in media allo stato italiano più di quanto riceveranno in prestazioni (sono stime Ocse).
L’immigrazione è qui per restare. Al netto di queste esigenze, resta comunque il fatto che le pressioni migratorie verso l’Europa, e in particolare verso l’Italia, sono destinate a crescere. Il brusco e inatteso aumento degli sbarchi dal 2013 è solo parzialmente attribuibile a shock improvvisi, come la crisi siriana e il crollo degli apparati statuali in Libia. A spingere sull’acceleratore delle migrazioni ci sono, al contrario, tendenze strutturali di ben più lungo respiro – in particolare gli sviluppi demografici ed economici nel continente africano. Basti pensare al fatto che, se nel 1990 la popolazione dell’Africa subsahariana era grossomodo la stessa di quella dell’Unione europea a 28 (500 milioni), oggi sfiora il miliardo e, se la tendenza demografica non cambierà in maniera significativa nei prossimi anni, entro il 2050 si avvicinerà a quota 2 miliardi.
La vera questione è la natura del flusso. Oggi, il problema dell’Italia non è tanto il numero degli arrivi quanto l’irregolarità dei flussi. Negli ultimi dieci anni l’immigrazione netta verso il nostro paese è rimasta grossomodo costante, oscillando tra i 300.000 e i 500.000 ingressi all’anno. Ciò che è cambiato è il rapporto tra gli ingressi regolari e quelli irregolari: se nel 2007 attraverso canali regolari entrava in Italia il 90% degli immigrati, tra il 2014 e il 2017 gli irregolari sono arrivati a contare poco meno del 40% del flusso. Parte del problema ce la siamo creata da soli, riducendo o eliminando del tutto le quote annuali previste nei “decreti flussi” per i migranti economici extracomunitari, salvo per quel che riguarda i lavoratori stagionali. L’unico modo possibile per entrare in Italia da paesi extraeuropei è dunque utilizzare una rotta irregolare, per poi chiedere asilo e sperare di ricevere una protezione.
Tutti i problemi dell’irregolarità. L’aumento dell’irregolarità genera problemi a tutti i livelli. Sul piano dell’opinione pubblica, accresce diffidenza e ostilità verso gli stranieri. Su quello della risposta governativa, complica la pianificazione su vasta scala dell’accoglienza, spingendo verso una gestione emergenziale in cui aumentano i rischi di corruzione, malaffare o semplice inefficienza. I singoli migranti che si vedono negata la protezione internazionale (e capita oggi al 55% di chi fa richiesta d’asilo) non potranno poi che permanere in una condizione di marginalità, con due poco allettanti alternative a disposizione per guadagnarsi da vivere: economia sommersa o criminalità.
Le possibili linee di una politica estera italiana
Alla luce di tutto ciò, l’azione del governo italiano nei prossimi anni dovrebbe avere pochi, ma saldi, punti fermi.
Più Europa (senza illusioni). All’Europa, innanzitutto, è necessario che l’Italia continui a chiedere a gran voce solidarietà. Per quanto sia improbabile una seria riforma dei regolamenti Dublino, c’è ancora margine per giocare una partita strategica: facendo cioè valere il peso italiano su altri dossier (non ultimo quello della programmazione del prossimo periodo di bilancio europeo) per ottenere concessioni sul fronte delle migrazioni, soprattutto da parte dei paesi dell’Europa orientale. Per esempio chiedendo che, a fronte di regole di Dublino sbilanciate sui paesi di primo ingresso (i quali devono farsi carico di quasi tutte le richieste d’asilo di chi arriva in Europa), gli altri stati membri Ue mettano a disposizione maggiori risorse finanziarie. Nel 2017 la gestione dell’emergenza migranti è costata all’Italia più di 4 miliardi, di cui circa 3 miliardi per coprire prima accoglienza, sanità e istruzione dei richiedenti asilo. A fronte di queste spese, dal bilancio comunitario sono arrivati in Italia circa 240 milioni di euro: come a dire che la solidarietà degli altri stati europei vale ancora solo l’8% dei nostri sforzi.
Nessun arretramento sul diritto internazionale. Sul fronte dei flussi sarà fondamentale adottare un approccio bilanciato e rispettoso del diritto internazionale. Innanzitutto proseguendo con i salvataggi in mare, evitando in ogni modo i respingimenti e monitorando costantemente l’azione della guardia costiera libica, le cui operazioni di soccorso si sono più volte con-traddistinte per eccessiva brutalità. Va poi riconosciuto che finché la situazione in Libia non si sarà stabilizzata, a ogni sbarco in meno sulle nostre coste corrisponderà un maggior numero di migranti bloccati in Libia, di frequente confinati in centri di detenzione non ufficiali. In questo senso le evacuazioni dalla Libia e le operazioni di reinsediamento in Europa delle persone più vulnerabili, condotte negli ultimi mesi da Unhcr e Iom e con destinazione Italia e Francia, vanno nella giusta direzione e andrebbero rafforzate.
Dialogo con tutti, con obiettivi concreti. Nei paesi di transito il contrasto ai flussi irregolari passa attraverso il dialogo con tutti gli attori coinvolti nelle operazioni di traffico. In questo senso, persino la cooptazione delle milizie libiche che gestiscono i traffici sulla costa del paese può rivelarsi utile. Lo abbiamo visto nell’estate dell’anno scorso: è sufficiente che un ridotto numero di milizie cambi strategia perché i flussi irregolari diminuiscano drasticamente. L’obiettivo però non può e non deve essere semplicemente quello tattico di una riduzione immediata delle partenze. È necessario utilizzare il dialogo in maniera strategica, puntando su un processo di riconciliazione nazionale che includa anche le milizie. In caso contrario, il rischio è che l’Italia si ritrovi alla mercé delle decisioni delle milizie stesse, che potrebbero utilizzare i flussi migratori per continuare a estrarre soldi e legittimità.
Rafforzare le Migration Partnership. È nell’interesse italiano insistere sulle Migration Partnership, gli accordi tra Europa e paesi di origine e transito dei migranti in Africa subsahariana, senza però pretendere che facciano miracoli e con la consapevolezza che bisognerà riformarle in profondità. L’aumento degli aiuti allo sviluppo verso i paesi africani è un obiettivo importante a prescindere dal fenomeno migratorio, ma l’azione in tal senso può dare frutti solo nel lungo periodo, e solo se specificamente finalizzata a creare occupazione nei paesi d’origine e di transito. In un contesto in cui le rimesse verso l’Africa subsahariana (37 miliardi di dollari nel 2016) contano quasi quanto gli aiuti allo sviluppo (46 miliardi), non è detto che i limitati aiuti aggiuntivi (poco più di 1 miliardo all’anno da qui al 2020) siano sufficienti per convincere chi vuole partire a voler restare. Desta inoltre molte perplessità il fatto che quelli che continuiamo a definire come nuovi aiuti allo sviluppo siano diretti per oltre la metà a rafforzare la capacità dei governi africani di gestire le frontiere, o a finanziare i rimpatri volontari dei migranti bloccati lungo la rotta. In questo modo non si fa niente per affrontare la radice del problema, che è il sottosviluppo. Si rischia invece di destabilizzare contesti già fragili, sottraendo risorse provenienti dai traffici irregolari senza però sostituirle con sufficienti opportunità di occupazione regolare.
(Ri)aprire canali per le migrazioni regolari. Un punto fondamentale per essere credibili in Europa è fare i conti con le migrazioni economiche in maniera organica. Come detto, l’aumento dei flussi irregolari è anche conseguenza del fatto che non esistano alternative concrete per poter migrare regolarmente dall’Africa verso l’Italia e l’Europa. Il prossimo governo dovrebbe valutare l’introduzione di sistemi che permettano di quantificare le necessità del sistema-paese e selezionare le persone sulla base di criteri condivisi. Tenendo presente che l’apertura di canali regolari non eliminerà comunque il tentativo di entrare in Europa per via irregolare, soprattutto da parte di chi non avrebbe i requisiti necessari. Ma con la consapevolezza che l’esistenza di canali regolari ci renderebbe più credibili di fronte a tutti i partner: quelli africani, nel momento in cui chiediamo loro di mantenere i flussi irregolari sotto controllo; e quelli europei, quando ci chiedono di fare chiarezza tra aventi diritto alla protezione internazionale e persone che si mescolano nel flusso umanitario come loro unica speranza di entrare in Europa.
Integrare, integrare, integrare. Resta infine l’obiettivo dell’integrazione, allorché il nuovo governo dovrà porsi il problema di cosa fare con chi è già in Italia. Ricordando che il problema non riguarda esclusivamente i beneficiari di protezione internazionale, ma anche le centinaia di migliaia di irregolari sul territorio italiano che quasi sicuramente non saremo in grado di rimpatriare.
Chi è arrivato in Italia per vie irregolari fatica a trovare un lavoro rispetto a un migrante regolare: in Europa il tasso di occupazione di un migrante regolare nei primi 12 mesi dal suo ingresso è dell’80%, mentre quello di un migrante irregolare è del 30%. Questo gap tende a ridursi nel tempo, ma persino a dieci anni dall’arrivo i migranti giunti per vie irregolari hanno un tasso di occupazione del 65%. Il processo di integrazione mira proprio a ridurre il più possibile questo gap, in modo da far sì che i migranti irregolari passino dall’essere un peso a divenire una risorsa; ridurre il rischio di povertà e marginalizzazione; e infine diminuire in tal modo i problemi sociali connessi (criminalità o, persino, radicalizzazione). Il Piano nazionale di integrazione varato lo scorso settembre sembra andare nella giusta direzione, perché dà finalmente all’Italia un disegno unitario e strutturato. Manca però ancora tutta la fase attuativa, non ultima la discussione di quante risorse si intenda mettere a disposizione dei tanti e variegati capitoli di spesa (l’insegnamento della lingua, il dialogo interreligioso, l’accesso all’istruzione e alla sanità, e molto altro). In prospettiva, esempi virtuosi di integrazione aumenterebbero il prestigio dell’Italia nei confronti dei propri vicini europei, che fino a oggi ci hanno accusato di essere in ritardo nello sviluppo di una strategia coerente e di avervi investito risorse troppo limitate. Gestire i processi migratori non è mai semplice, soprattutto in situazioni così mutevoli e con flussi irregolari ben più elevati rispetto al recente passato. Al di là della retorica e del conflitto politico, la sfida del nuovo governo sarà quella di trovare un punto di caduta capace di riconciliare le legittime esigenze di sicurezza dei cittadini italiani con la realtà di un fenomeno di portata epocale e che difficilmente potrà essere arrestato nel prossimo futuro. Con l’obiettivo di governare il fenomeno, anziché esserne governati.