Ottimismo e pessimismo – con prevalenza del secondo – si rincorrono nel Giappone del dopo-terremoto, mentre la Camera bassa dà il via libera a uno stanziamento supplementare di 4,15 trilioni di yen (34,5 miliardi di euro) e il Senato vara una legge che rende disponibili altri 2,5 trilioni (20 miliardi di euro) per le esigenze immediate della ricostruzione, case per i senza tetto e infrastrutture innanzitutto.
Pur nella notevole entità delle cifre, si tratta solo di misure tampone, per molti versi scontate. A questo primo "bilancio supplementare" dovrebbe seguirne un altro che, collegando i danni indotti dalle avversità naturali alla crisi che da tempo attanagliava il paese, punterà non solo a fare uscire dall’emergenza, ma anche a ridare slancio a una macchina produttiva che già segnava il passo.
Intanto la popolarità del governo guidato da Kan Naoto continua a scendere. L’ultimo sondaggio (30 aprile) rivela che il 76% dei giapponesi disapprova la gestione della crisi da parte di Kan (un mese prima era il 63%) mentre è quasi raddoppiato il numero di coloro che vogliono che il premier si dimetta (dal 13 al 23%). La stampa locale già manifesta il timore che quel sentimento di unità nazionale che era seguito al disastro dell’11 marzo e che tuttora si manifesta attraverso generose manifestazioni di solidarietà tramite il volontariato, stia lasciando il posto a livello politico a una rinnovata rissosità tra i partiti. In sostanza torna ad affiorare la vexata quaestio dell’inadeguatezza della classe politica. E ciò rafforza il campo dei pessimisti.
Questi infatti non si limitano a notare che nella migliore delle ipotesi (ultime previsioni della Banca centrale) il Pil quest’anno aumenterà dello 0,6% (0,8% per l’Ocse) e a fare un elenco, sempre più lungo e sempre più preoccupante, degli aspetti critici della situazione. Nel settore dell’automobile, ad esempio, la produzione sfiora appena il 50% del livello pre-terremoto; la Depco, la società – leader a livello mondiale – che gestisce l’impianto nucleare di Fukushima, ha perso il 70% del valore della sua capitalizzazione; le attività della pesca sono a zero su un tratto di costa lungo 500 km totalmente distrutto dall’impeto dello tsunami non meno che dai timori dell’inquinamento atomico; e se tutto andrà nel migliore dei modi possibili, si arriverà all’estate con la necessità di tagliare il 25% dei consumi energetici, col risultato che la produzione non potrà decollare anche se tutti i danni negli impianti e nelle infrastrutture saranno stati aggiustati e i colli di bottiglia nell’approvvigionamento saranno stati rimossi.
Le distruzioni in sostanza sono maggiori di quanto immaginato a caldo e dice poco la cifra di 300 miliardi di dollari azzardata da qualcuno. Inutile, si dice, fare i confronti col terremoto di Kobe del 1995, rapidamente archiviato grazie alla straboccante forza economica dell’area in cui la città si trova e alla dinamicità in quegli anni del capitalismo giapponese. Il paragone semmai andrebbe fatto col grande terremoto del 1923 che distrusse Tokyo: mezzi limitati per riprendersi come nel povero Tohoku e la depressione mondiale incombente. Un disastro da cui si credette di uscire col militarismo e la guerra.
Soprattutto comunque il problema per i pessimisti nasce da quel trend di fondo per cui il Giappone è sempre sul filo della deflazione, fatica ad accrescere i consumi interni, è appesantito dall’invecchiamento della popolazione e da un debito pubblico che ha sfondato il tetto del 200% del Pil. Retrocesso di recente dal secondo al terzo posto nel ranking delle "economie mondiali", circondato da paesi che crescono a ritmi vicino al 10% annuo, il Giappone da anni doveva accontentarsi di uno dei più bassi ritmi di crescita tra i Paesi sviluppati e vedeva messe in pericolo fette di mercato dai prodotti di nuovi concorrenti (Corea il più temuto).
Tutto vero ma, obiettano gli ottimisti, la Banca centrale sta facendo bene il suo lavoro, prima immettendo risorse finanziarie per evitare che si cadesse nel baratro e ora muovendosi con prudenza, onde impedire cadute inflazionistiche. La gente inoltre, pur scettica nei confronti dei politici che li impongono, accetta i sacrifici che si annunciano, a partire dall’au-mento della tassa sui consumi finendo coi tagli dei salari dei dipendenti pubblici. D’altra parte dopo i crolli a marzo di produzione industriale (meno 15,3%), esportazioni (meno 2,3%) e consumi privati (meno 8,5%) prende corpo l’inevitabile "rimbalzo".
Incertezza di prospettive e valutazioni dunque, accresciuta dai mille interrogativi, dal peso economico enorme, che bisogna sciogliere subito, perché fare partire la ricostruzione con il piede sbagliato non permetterebbe più recuperi e cambiare strada a metà del cammino implicherebbe uno spreco inammissibile di risorse. Quanto spendere, ad esempio, per rimettere in sesto – e in sicurezza – le centrali nucleari? E lo sforzo che si impone a questo scopo significa che il nucleare resta il nocciolo della politica energetica nipponica e che il passaggio alle fonti alternative verrà rimandato sine die? È logico prevedere inoltre che la ricerca di risorse finanziarie da dirigere verso la ricostruzione implicherà una revisione di quella nuova dottrina di difesa che solo a inizio 2011 aveva finalmente visto la luce. Nulla di male dal punto di vista economico dato che l’esiguità delle spese di difesa fu la carta vincente del Giappone che, uscito sconfitto dalla guerra, si confrontava con distruzioni ben maggiori di quelle provocate dal terremoto dell’11 marzo. Ma quanto si vorrà ora tagliare quell’oneroso pacchetto di spese militari che serviva a controbilanciare la sfida cinese? E si rimanderà a tempi migliori il piano di un graduale sganciamento dall’ombrello protettivo americano in nome di quella nuova triplice alleanza Washington-Seul-Tokyo che doveva garantire la stabilità nella regione?
Lo stesso apparato produttivo potrebbe richiedere una riorganizzazione generale e – per ovviare ai problemi evidenziatisi in queste settimane – si potrebbe finire col potenziare ulteriormente il processo di deterritorializzazione. Le grandi imprese potrebbero trarne profitto, ma non l’occupazione interna. Quanto all’aumento delle imposte, è una strada ragionevole ma rischiosa e già c’è chi punta sulla strada opposta, con esenzioni fiscali garantite fino al 2015 per incentivare gli investimenti, nel contesto naturalmente di una riforma amministrativa a lungo termine.