Leggendo le analisi e i commenti sulla stampa locale alle recenti elezioni del 20 settembre emerge con chiarezza la percezione che si sia compiuto un passo importante nel più recente percorso di riforma in corso nel paese. Un passaggio salutato come “qualitativamente” prezioso da re Abdullah che dovrebbe sancire la ricomposizione dei diversi equilibri interni al paese, dopo il difficile biennio del 2011-2012 e le tiepide elezioni del 2013, rilanciare l’economia nazionale, rafforzare la vita istituzionale giordana e, infine, provvedere alla riforma del sistema scolastico. È, quindi, proprio attraverso la complessità di questi obiettivi che si capisce il significato di un appuntamento vissuto con un occhio al recente passato e lo sguardo fisso alle imminenti sfide future.
Nonostante nel complesso la campagna elettorale non si sia distinta per la vivacità e la brillantezza dei temi trattati, le forze in campo hanno dimostrato una chiara disponibilità ad abbracciare l’invito rivolto dal re a lavorare per rafforzare l’inclusione, la legittimità e la ripresa della vita politica ed economica del paese. Da parte del governo e della corona, tale esortazione è stata sostenuta attraverso l’impegno a favorire la più larga partecipazione possibile e garantire l’efficacia e la regolarità dell’organizzazione delle fasi elettorali.
A guardare i numeri, tali obiettivi pare siano stati raggiunti. Il diciottesimo parlamento giordano si presenta con 74 parlamentari su 130 alla prima elezione, il 44% al di sotto dei 50 anni e solo il 3% over-70, 30 seggi rappresentanti 9 partiti diversi, tra cui 10 affiliati al Fronte di azione islamico (braccio politico dell’ormai fuorilegge della tradizionale associazione dei Fratelli musulmani), 3 all’iniziativa Zamzam (parte dei fuoriusciti dell’associazione) e 3 al partito Centrista islamico. Infine, 20 donne siederanno negli scranni del nuovo parlamento, di cui 5 elette fuori dalla quota ad esse riservata. Al tempo stesso non può essere ignorato che solo il 17% dei pretendenti si è presentato con un’affiliazione partitica, a dimostrazione di quanto ancora fragile sia il sistema multipartitico giordano, nonostante le esortazioni e gli auspici della corona. Inoltre, il ruolo delle donne pare essere ancora profondamente confinato a una competizione entro le quote riservate, nonostante gli improntati exploit di singole candidate. In tal senso, la nuova legge elettorale sembra aver incentivato non tanto la partecipazione femminile, quanto l’utilizzo della quota riservata alle donne per convogliare voti all’interno delle singole liste elettorali. Un fenomeno che ha coinvolto anche il voto in favore delle altre minoranze che vantano seggi protetti.
A fronte di tutto ciò e tenendo presente un contesto regionale assai turbolento, le elezioni del 20 settembre hanno senza dubbio rappresentato una significativa discontinuità, quasi un’eccezione. Un giudizio corroborato dal riconoscimento di una certa equità e regolarità durante la fase di votazione, nonostante la presenza di incidenti di percorso avvenuti soprattutto nei distretti centrali. Il ruolo della Commissione elettorale indipendente, creata già nel 2012, e l’assenza di pressioni e interferenze da parte del potere esecutivo sembrano aver consentito il raggiungimento del primo obiettivo, ovvero dimostrare la volontà di “normalizzare” e “regolarizzare” il processo elettorale nel paese. Tale risultato avrebbe, però, dovuto consentire il raggiungimento di un’ulteriore obiettivo, ovvero la larga partecipazione da parte della popolazione giordana a queste elezioni. Su questo punto però i dati confermano che il disinteresse o meglio la disaffezione continua a rappresentare il principale partito del paese. In sostanza, le più recenti riforme promosse dalla corona non hanno sortito l’effetto desiderato e il diciottesimo parlamento giordano risulta essere stato eletto da solo il 37% degli aventi diritto, una quota addirittura inferiore al livello registrato nel 2013 (40% circa). Comunque lo si voglia leggere, tale dato dimostra una forte sfiducia verso la vita parlamentare e, più in generale, nei confronti della possibilità di incidere su questa attraverso i propri rappresentanti. Una percezione che pare essere stata rafforzata, piuttosto che ridimensionata, dalle più recenti riforme. Di fatto queste, seppur avrebbero dovuto realizzare la costituzionalizzazione della monarchia, hanno aumentato il controllo della corona sulle principali sfere del potere esecutivo e degli apparati militari e di sicurezza. Ne consegue una situazione molto delicata che impegnerà il nuovo parlamento nel doppio sforzo di dover adottare decisioni scomode al fine di promuovere il rilancio del paese e di dimostrare la sua integrità ed efficienza di fronte a una popolazione sempre più sfiduciata. Una condizione ulteriormente aggravata dai limiti che comunque permangono alla sua reale capacità istituzionale ti impattare sul processo decisionale.
Detto ciò, le recenti elezioni hanno destato particolare interesse almeno per altre dure ragioni che hanno a che fare con i temi dell’inclusione, della legittimità e del rilancio. Il primo aspetto ha riguardato la nuova legge elettorale, che ha segnato il superamento del sistema “una persona, un voto”, vero e proprio pomo della discordia a partire dal 1993. Introducendo un sistema proporzionale per liste distrettuali, la nuova legge elettorale ha rappresentato un’apertura nei confronti del fronte del boicottaggio, in particolare riportando alle urne la Fratellanza Musulmana dopo un’interruzione di circa dieci anni. Infatti, questo pare il risultato più significativo conseguito dalla recente riforma, laddove per quanto concerne l’ambizione di favorire il dibattito politico, limitare il cosiddetto voto “tribale” e rilanciare l’attività dei partiti molto è ancora da fare. In sostanza, i problemi di sovra-rappresentazione dei distretti rurali su quelli urbani permane. Una condizione che di per sé ha da sempre rappresentato un forte deterrente al ruolo dei partiti a cui ora si deve aggiungere l’introduzione dell’obbligo di comporre liste elettorali distrettuali con l’inevitabile tendenza a privilegiare candidati in grado di consentire pacchetti di voto certi, piuttosto che l’elaborazione di programmi politici chiari e riconoscibili. Di fatto, la nuova legge elettorale sembra aver favorito l’aggregazione solo per ragioni prettamente tattiche. Il caso della lista del Blocco delle riforme promosso dal Fronte d’azione islamico sembra dimostrare tale tendenza, annoverando esponenti delle minoranze in corsa per seggi protetti, membri di altri partiti e leader tribali, senza aver in realtà elaborato una vera e propria agenda politica espressione di tale diversità.
Il risultato è che anche durante questa tornata elettorale il voto per appartenenza ha avuto un ruolo preminente rispetto a quello per affiliazione.
Venendo ora al ruolo dell’Islam politico, la partecipazione della Fratellanza musulmana ha rappresentato sicuramente una “vittoria” per la corona, consentendole di poter raggiungere l’obiettivo di assistere alla formazione di un parlamento che annovererà tutte le forze presenti nel paese. Un risultato ulteriormente importante di fronte alla difficile situazione che vive l’associazione della Fratellanza musulmana, vistasi ritirarsi l’autorizzazione ad operare nel paese a favore di una nuova organizzazione formata dal fronte critico fuoriuscito qualche tempo fa. Venendo alle elezioni, il Fronte di azione islamico ha confermato di essere il partito meglio organizzato e che potrà ancora vantare sul numero maggiore di eletti con una chiara affiliazione partitica (10). Un risultato di per sé positivo che difficilmente avrebbe potuto essere molto migliore data la natura fortemente proporzionale della legge elettorale. Al fianco della Fratellanza musulmana si trovano poi gli esponenti dell’Iniziativa Zamzam e del Partito centrista islamico. Questi ultimi sono da tempo considerati emanazioni della volontà della corona di spezzare il fronte islamista nel paese, riducendone il ruolo e il possibile impatto. In realtà, al di fuori della decisione di abbandonare antichi slogan come “l’Islam è la soluzione”, la campagna elettorale non ha consegnato nessun elemento degno di nota che abbia dimostrato le reali differenze strategiche, ideologiche e di piattaforma politica di questi partiti. Il Fronte islamico d’azione conferma la sua volontà di far sentire la propria voce all’interno delle istituzioni del paese, dimostrando ai propri sostenitori di essere ancora una forza vitale e centrale nel paese. Sarà però i interessante capire come intenderà svolgere tale missione e quali saranno i dossier su cui concentrerà la propria attenzione, al di fuori dei classici ambiti dell’educazione e delle campagne anti-normalizzazione.
Nel complesso, quindi, senza grande clamore la Giordania si appresta a saggiare il risultato di questo appuntamento elettorale, capendo se la spinta all’unità e l’inclusione sarà funzionale e capace a tener testa alle sfide economiche e finanziarie che ormai da tempo affliggono la quotidianità dei sui cittadini. Nello stesso momento, il paese è già concentrato su altre questioni. Da una parte, domenica Amman si è risvegliata con l’uccisione di Nahidh Hattar, intellettuale e giornalista che anima provocatoriamente da anni il dibattito pubblico giordano. A muovere la mano dell’assassino è stata la volontà di punire la sua scelta di ri-postare su Facebook una vignetta ritenuta offensiva al decoro e alla morale pubblica. Un gesto che aveva già causato il suo arresto, nonostante le scuse e la precisazione riguardo alla semplice volontà di criticare l’uso manipolatorio della religione da parte di Daish, senza alcun riferimento all’islam in generale. Di per sé questo tragico evento non ha nulla a che vedere con la recente campagna elettorale, ma molto dice della difficoltà di esprimere le proprie idee all’interno del paese e rischia di congelare un dibattito già fortemente irreggimentato e segnato dall’auto-censura. Dall’altra parte, il recente progetto di riforma del curriculum di studi nelle scuole pubbliche, ripensando al ruolo dell’insegnamento religioso, dei suoi spazi e contenuti, sta già destando numerose proteste e resistenze, anticipando forse alcune delle sfide che il percorso di riforma dovrà affrontare se vorrà davvero tener testa ai propri obiettivi.
È forse con questo spirito che le nuove istituzioni rappresentative si apprestano alla prova del campo, dovendo dimostrare di poter svolgere almeno quel ruolo di camera di compensazione delle diverse spinte e opinioni presenti nel paese, sapendo comunque che le decisioni più strategiche verranno ancora prese in altre stanze.
Paolo Maggiolini, ISPI Research Fellow