Che con l’amministrazione Biden l’impegno internazionale degli USA sul clima sarebbe stato diverso era chiaro sin dall’inizio della campagna elettorale quando il candidato democratico aveva promesso che uno dei suoi primi atti da presidente sarebbe stato il rientro degli Stati Uniti nell’Accordo di Parigi. E così è stato. Con la firma di un executive order, nello stesso giorno della sua investitura, gli USA hanno fatto richiesta al Segretariato della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (UNFCCC) per tornare ad essere membri dell’Accordo di Parigi, il più recente strumento internazionale giuridicamente vincolante di tutela del clima. Il 19 febbraio 2021, dopo soli tre mesi dall’uscita dal trattato avvenuta il 4 novembre 2020 a conclusione del processo di denuncia avviato dall’ex presidente Donald Trump nel 2017, gli USA sono ufficialmente rientrati nel trattato sul clima vincolandosi nuovamente al rispetto delle sue norme.
Le stesse nomine di John Kerry, quale inviato speciale del presidente sul clima per le questioni internazionali, e di Gina McCarthy, per le questioni interne, costituiscono la rappresentazione plastica di un cambio di volontà dell’amministrazione Biden rispetto a quella del suo predecessore.
Proprio in quegli stessi giorni in cui si insediava alla Casa Bianca e riportava gli USA nell’accordo di Parigi, il presidente Joe Biden ha convocato il “Leaders Summit on Climate”, che inizia oggi, in concomitanza simbolica con la Giornata della Terra, con lo scopo di rilanciare lo sforzo delle principali economie in ambito climatico. Il Summit, nelle intenzioni dell’amministrazione statunitense, vuole essere infatti un modo per rimarcare l’urgenza di un’azione più decisa da parte delle principali economie per affrontare la crisi climatica, in vista anche della COP26 che si terrà a novembre a Glasgow. In quella Conferenza gli stati membri dell’accordo di Parigi dovranno accordarsi sull’insieme di regole per l’attuazione concreta dell’accordo (“rulebook”). Oltre a dover trovare una soluzione alle questioni rimaste irrisolte dalla COP25, per la prima volta gli stati membri dovranno presentare i loro Nationally determined Contributions (NDCs) aggiornati dove sono indicate le loro strategie ed azioni per affrontare il cambiamento climatico ed i loro obiettivi di riduzione delle emissioni per il 2025 e/o per il 2030.
Il Summit dovrebbe essere inoltre l’occasione in cui Biden comunicherà ufficialmente agli altri capi di stato gli obiettivi climatici racchiusi nel CLEAN Future Act, presentato alla Camera dei Rappresentanti ma non ancora approvato ed inviterà altri paesi a seguirne l’esempio. In questa proposta di legge si prevede di fissare come obiettivo nazionale il raggiungimento della neutralità climatica per il 2050, oltre all’obiettivo intermedio di ridurre le emissioni del 50% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2005.
Al Summit partecipano 40 capi di stato e di governo, tra cui anche il primo ministro italiano Mario Draghi. Grande attenzione è posta sulla presenza del presidente cinese Xi Jinping. Proprio la settimana scorsa John Kerry è stato il primo alto-funzionario dell’amministrazione Biden ad essere andato in visita di stato ufficiale in Cina per incontrare la sua controparte, Xie Zhenhua, che nel 2015 era stato il principale negoziatore cinese dell’Accordo di Parigi. In un generale clima di tensione tra USA e Cina, contrassegnato da interessi e visioni divergenti su molte questioni tra cui ad esempio Taiwan, Hong Kong, lo Xinjang ed il Mar cinese meridionale, il cambiamento climatico viene trattato dai due governi come un dossier nel quale gli interessi delle due potenze mondiali potrebbero convergere, portandole ad una maggiore cooperazione. Già durante il vertice di Anchorage in Alaska, Cina e USA, al netto di numerose divergenze, avevano dichiarato che uno dei dossier in cui i due paesi si impegnavano in un percorso di cooperazione sarebbe stato proprio quello del cambiamento climatico. Al momento della visita di Kerry in territorio cinese, non si sapeva ancora se la Cina avrebbe partecipato ai lavori del “Leaders Summit on Climate”. Si temeva infatti che avrebbe potuto declinare l’invito proprio per rimarcare la volontà di sottrarsi ad ogni forma di cooperazione con gli USA dato l’attuale clima di tensione.
Alla fine però la Cina prenderà parte da protagonista al Summit virtuale, con tutto il mondo che aspetta di capire quali saranno le future posizioni negoziali della sua diplomazia climatica e come evolverà la sua strategia per il raggiungimento della neutralità climatica entro il 2060. Cina e USA confermano dunque di considerare il cambiamento climatico come un settore nel quale è possibile perseguire una maggiore cooperazione, nell’interesse di entrambe le parti. E probabilmente non potrebbe essere altrimenti, considerato che rappresentano il primo ed il secondo responsabile delle emissioni di gas serra a livello globale ed i loro leader politici sanno bene che senza la cooperazione tra i due paesi non ci può essere soluzione al problema del riscaldamento globale.
Al Summit saranno presenti anche la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel oltre ai capi di stato e di governo di alcuni paesi europei quali Francia, Germania, Italia, Danimarca, Spagna e Polonia.
Quello che vale per i rapporti tra USA e Cina vale anche per i rapporti tra Cina ed UE. Infatti, seppure l’UE abbia smesso di considerare la Cina un “partner strategico” per iniziare a considerarla un “rivale sistemico”, il cambiamento climatico rimane uno di quegli ambiti in cui lo sforzo di mantenimento ed approfondimento dei livelli di cooperazione non è mai venuto meno. L’UE e la Cina, oltre alla collaborazione a livello multilaterale, a partire dal 2005 hanno infatti dato vita ad un partenariato sul clima (“EU - China Partnership on Climate Change”) per approfondire la cooperazione bilaterale. Venerdì scorso, 16 aprile, Xi Jinping, Emmanuel Macron e Angela Merkel si sono incontrati virtualmente per discutere di alcuni aspetti relativi alla gestione a livello internazionale della crisi climatica in vista del Summit per la Giornata della Terra convocato da Biden.
Il ruolo di UE, USA e Cina è fondamentale, dato che le loro emissioni congiunte rappresentano circa il 50% di quelle globali. Bisognerà attendere per vedere se questi tre attori sono pronti a compiere sforzi concertati per portare avanti l'agenda per il clima.
Da un punto di vista scientifico lo sforzo non sembra rimandabile. Il report del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC) del 2018 dal titolo “Global Warming of 1.5°C” avverte che se i paesi nei prossimi anni non prenderanno misure drastiche per ridurre le loro emissioni, le conseguenze sul versante ambientale, sociale ed economico per l'intero pianeta saranno drammatiche. Lo stesso Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, recentemente ha esortato i paesi affinché intraprendano azioni più decise e si impegnino nel raggiungimento della neutralità climatica se si vuole mantenere l’aumento delle temperature entro 1.5°C, come indicato nell’accordo di Parigi.
Cosa bisogna aspettarsi dal Summit?
In molti si staranno chiedendo cosa bisogna aspettarsi dal Summit e soprattutto se avrà solo una valenza simbolica o se verranno anche adottati atti concreti. Sicuramente non si arriverà a nessun accordo vincolante, ma non per questo bisognerà considerarlo un fallimento, dato che non è il motivo per cui è stato convocato. Il risultato del Summit andrà valutato in vista dei prossimi negoziati ONU sul clima.
Come in tutti i negoziati internazionali in ambito multilaterale è importante infatti che si appianino le differenze negoziali tra le varie parti, in modo che sia più facile raggiungere una posizione comune, e ciò richiede tempo. Tanto più questo è vero per quel che riguarda i negoziati sul clima, dove è importante che si crei una convergenza di vedute tra i grandi emettitori di gas serra e che si trovi un punto di incontro tra gli interessi spesso divergenti dei paesi produttori di petrolio, dei paesi in via di sviluppo, dei paesi industrializzati e dei paesi più vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico, come ad esempio le piccole isole. Alcuni ricorderanno che il compromesso tra gli interessi dei diversi gruppi negoziali raggiunto durante la COP21 che ha portato all’adozione dell’Accordo di Parigi fu anche il frutto di un’intesa politica raggiunta da Barack Obama e Xi Jinping l’anno prima, nel 2014.
Il “Leaders Summit on Climate”, che vede la partecipazione di capi di stato e di governo con idee molto diverse tra loro sul cambiamento climatico – come ad esempio il presidente brasiliano Jair Bolsonaro, il premier indiano Narendra Modi ed il re saudita Salman bin Abdulaziz Al Saud da un lato, e il primo ministro canadese Justin Trudeau, la presidente della Commissione UE von der Leyen e il capo di stato francese Emmanuel Macron dall’altro – rappresenta un appuntamento strategico per arrivare più uniti alla COP26 e per gettare le basi dell’azione futura per la lotta al cambiamento climatico. Inutile dire che il Summit rappresenta anche l’occasione per rilanciare la leadership statunitense sul clima dopo quattro anni di “America first”.