Sono passati cinque anni da quando le prime pagine dei giornali di tutto il mondo moltiplicavano i volti dei ragazzi egiziani, tunisini, libici e in misura diversa e minore yemeniti, bahraini e siriani con le bandiere dei rispettivi paesi pitturate sulle facce radiose. Si ragionava di primavere arabe, risveglio mediorientale, rivoluzioni, i cronisti rilanciavano le parole d’ordine di una lingua fino a quel momento nota solo per le invocazioni coraniche, Ash-sha’b yurid isqat an-nizam, il popolo vuole la caduta del regime. Poi la Nato intervenne in Libia bloccando la repressione di Gheddafi, ma alimentando anche le mille dietrologie sulla longa manus occidentale che sarebbero germogliate poi dalle ceneri della guerra tribale; i carri armati sauditi marciarono in soccorso della monarchia sunnita schiacciando la piazza ribelle di Manama; la scure della tirannia di Damasco calò sanguinaria sulla sua “meglio gioventù”. Rimasero in piedi Egitto e Tunisia, i pionieri di un’ambizione democratica spontanea quanto naif e destinata a infrangersi sugli scogli della real politik sin dal primo voto conquistato senza alcuna fatica dai partiti religiosi. Le primavere arabe vennero derubricate così a cupi inverni islamisti con una velocità incapace di cogliere quanto, con modalità differenti, quelle proteste, quei sogni e quei fallimenti avessero scavato nel tessuto sociale modificandolo, a cominciare dal rapporto tra le generazioni.
Un bilancio di cosa è accaduto nel frattempo non può prescindere dall’attualità: il dilagare dello spaventoso Stato Islamico dalla Siria alla Libia, il conflitto tra Riad e Teheran deflagrato in Yemen, il fragilissimo equilibrio tunisino, il barbaro assassinio del ricercatore italiano Giulio Regeni da parte di quell’Egitto che amava e vedeva allontanarsi sempre di più dall’utopia di Tahrir. Eppure sarebbe riduttivo limitarsi alla cronaca dimenticando i processi che l’hanno prodotta e che la supereranno presto.
A che punto siamo, allora? Ogni paese è un caso a sé stante ma quelli su cui vale la pena soffermarsi, perché quantomeno non vivono routine di guerra guerreggiata, sono Egitto e Tunisia. Gli altri sono storie sospese anche rispetto al processo controrivoluzionario, perché rimaste cristallizzate nel dover essere illusorio di cinque anni fa: la macelleria siriana da 250 mila morti e 5 milioni di profughi di cui ormai tutti hanno dimenticato la genesi disarmata e idealista insanguinata dal regime sin dal primo timido e smilzo corteo a Daraa; la polverizzazione dello Stato libico della cui origine si attribuisce ora la responsabilità all’intervento Nato dimenticando che nel 2011 lo Stato non c’era già più perché frantumato in tribalismi e rivalità da quarant’anni di Gheddafi; lo Yemen poverissimo e finito con tutti i suoi attivisti in balia dell’armageddon irano-saudita; la piazza sciita del Bahrein ignorata sin dal principio anche con la complicità di megafoni della rivoluzione (ma solo sunnita) come la tv qatarina Al Jazeera. A che punto siamo allora, in Egitto e Tunisia?
La Tunisia si batte. Dopo un percorso parzialmente parallelo a quello dell’Egitto, con l’affermazione elettorale dei Fratelli musulmani di Ennahda e dei loro alleati salafiti culminata nel 2013 con gli assassini politici di Brahmi e Belaid in un muro contro muro al limite della guerra civile, il piccolo paese nordafricano ha raddrizzato la barra. Nella cruenta estate della deposizione di Morsi i Fratelli, temendo la deriva egiziana, hanno fatto un passo indietro, si sono seduti intorno a un tavolo per scrivere con l’opposizione la Costituzione più avanzata della regione (ma lo era già prima del 2011), scegliendo la via politica che i cugini egiziani avevano clamorosamente mancato per incapacità altrui in primis ma anche per la malafede dell’esercito.
Oggi la transizione è in fieri ma la gente, dotata dalla rivoluzione di una nuova impazienza, scalpita: l’economia non riparte, il terrorismo dell’Isis ha messo in ginocchio il turismo, le regioni meridionali più povere da cui la rivolta sanculotta di Mohammed Bouazizi aveva contagiato la borghesia cittadina ribollono ancora ma di rabbia diversa, affamata, violenta, quella che ha dato molti dei suoi figli alla causa fondamentalista dell’Isis. “La rivoluzione ci ha portato solo la libertà, non siamo più angariati dalla polizia, possiamo denunciare i corrotti, non finiamo in prigione per aver criticato le autorità” ammettono oggi a Tunisi. Ma è una concessione amara. Solo? Cinque anni fa si chiedevano “karama, dignità, e pane”. Adesso l’ambizione è il pane. L’ultimo voto ha premiato la forza liberale non distantissima dal vecchio regime contro Ennahda, ma il rimpasto di governo ha poi visto i due nemici riavvicinarsi nel comune tentativo di non far fallire il paese. Nel sottobosco, resiliente, pugnace, vive la società civile, quella premiata con il Nobel per la Pace, avvocati, liberi professionisti, professori, donne. La Tunisia si batte, il rovente confine libico è li a ricordare cosa è in attesa se fallisce la politica ma la relativa marginalità del paese nel più ampio contesto geopolitico regionale gioca a favore di un potenziale sviluppo autonomo rispetto agli appetiti delle potenze regionali.
Infine l’Egitto, croce e delizia degli studiosi, quasi cento milioni di abitanti tradizionalmente paciosi, al limite dell’ignavia, risvegliatisi ruggenti in piazza Tahrir. La chiave di una sintesi necessariamente ristretta del paese è questa: l’Egitto è una molotov sigillata dalla repressione militare, dove il caso del giovane Giulio Regeni scoperchia per un secondo l’inferno di servizi in guerra tra loro, malcontento popolare crescente, sindacalismo indipendente sulla trincea un tempo occupata dai volterriani paladini dei diritti umani, militari contro polizia e polizia, ancora, come un tempo, contro tutti per istinto di autoconservazione. Carceri che traboccano (in due anni sono finiti in cella dai 21 ai 41 mila oppositori, caccia alle spie, paranoia istituzionalizzata riguardo alla sicurezza). Un deserto dei tartari sul cui orizzonte non compare mai nulla se non i padri padroni custodi dello stato ma nella cui pancia cova una terza rivoluzione. La società egiziana, con piu merito di quella tunisina perché in origine assai meno evoluta, si è svegliata, ha rotto il muro della paura, i ragazzi finiscono in cella perché simpatizzanti dei Fratelli musulmani ma anche perché marxisti, liberali, atei, ma non si arrendono. Chiude un giornale e ne aprono due più piccoli, più online. Le donne sono molestate come prima, ma denunciano. Lo spazio politico si è chiuso e se ne sono aperti mille culturali, dalla share economy ai workshop domestici con amici riuniti in salotto a ragionare e imparare. Giulio Regeni viene torturato e ammazzato e i social egiziani attaccano il governo con più veemenza dei corrispettivi italiani.
La Primavera araba è morta, la primavera araba è viva. Chissà quanto ci vorrà ancora. Ma l’ultimo capitolo è ancora ben lungi dall’epilogo.
Francesca Paci, La Stampa