Per decenni dal secondo dopoguerra il Medio Oriente è stato il fulcro dell’impegno militare statunitense all’estero: una regione di conflitti apparentemente irrisolvibili, il cui costo sembra ormai troppo alto per gli USA ormai quasi indipendenti dal petrolio del Golfo. Dopo le presidenziali 2020 sarà taglio netto o ritirata controllata?
Prosegue la serie di Focus, in uscita ogni mercoledì, con cui ISPI approfondisce i principali dossier di politica estera che hanno segnato i 4 anni di presidenza Trump, provando a farne un bilancio e a tracciare alcuni scenari futuri.
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Stati Uniti e Medio Oriente ieri: navigando sabbie mobili
Armi in cambio di petrolio. Sono questi i termini dello scambio su cui si è basata la relazione tra Stati Uniti e Medio Oriente dall’inizio della Guerra Fredda ai nostri giorni. Una strategia, quella di Washington, finalizzata a vincere una corsa all’approvvigionamento energetico fondamentale nella sfida economica, tecnologica e militare con l’Unione Sovietica. Così, nel secondo dopoguerra comincia una cooperazione di sicurezza tra Washington e le monarchie del Golfo, il cui sottosuolo custodice due terzi delle riserve mondiali di petrolio e un terzo delle riserve di gas naturale. Sotto la guida di diversi presidenti, da Harry Truman a Richard Nixon, gli Stati Uniti cercano alleanze con tutti i principali attori della regione: Egitto, Iran, Israele, paesi del Golfo. L’accordo sembra beneficiare entrambe le parti: i vecchi e nuovi leader della regione, che ottengono appoggio politico e protezione militare; gli Stati Uniti, che assicurano la continuità del flusso di barili dai campi petroliferi ai mercati occidentali.
Quelle mediorientali sono però acque difficili da navigare. Alla fine degli anni ‘70, la rivoluzione iraniana e l’invasione sovietica dell’Afghanistan mostrano alla Casa Bianca uno scenario inquietante, in cui attori interni ed esterni lavorano per ridurre la presenza e l’influenza statunitense nell’area. Dal doppio shock del 1979 emerge una nuova “dottrina”, elaborata dall’amministrazione di Jimmy Carter, che mette in chiaro che qualsiasi tentativo di prendere il controllo del Golfo verrà considerato un attacco agli “interessi vitali” degli USA. Inizia così un lento ma costante aumento della presenza militare americana nella regione, mirato soprattutto a contenere i due paesi che Washington considera “mine vaganti” per la stabilità mediorientale: l’Iran degli ayatollah e l’Iraq di Saddam Hussein. Negli anni ‘90, la Prima guerra del Golfo e le sanzioni contro l’Iran sono il chiaro segnale che gli Stati Uniti sono pronti a usare tutti i mezzi disponibili per difendere i propri interessi nella regione. Nel1989 l’URSS si ritiradall’Afghanistan e crolla due anni dopo: una “Pax Americana” sembra regnare sul Medio Oriente.
L’11 settembre 2001 segna l’inizio di una nuova pagina per gli Stati Uniti e la loro politica mediorientale. L’amministrazione di George W. Bush dà il via a una war on terror che, con l’intervento in Afghanistan nel 2001 e l’invasione dell’Iraq nel 2003, coincide con l’apice dell’impegno militare statunitense in Medio Oriente. Un picco che fa anche da spartiacque: i due teatri di operazione presentano ben presto agli occhi dell’opinione pubblica americana un conto economico e di vite umane difficilmente giustificato dai modesti risultati.
Con l’arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca nel 2008, gli Stati Uniti cominciano una riflessione sull’ipotesi di un progressivo disimpegno dal Medio Oriente, che consenta di salvare al tempo stesso i risultati conquistati in tanti anni di guerra. Nel suo secondo mandato, Obama avvia una politica di leading from behind, in cui gli Stati Uniti si propongono come i sostenitori di una stabilità mediorientale la cui responsabilità diretta dovrà gradualmente passare nelle mani dei principali attori regionali. È questa visione il filo rosso che unisce gli sforzi diplomatici dell’amministrazione Obama, dalla spinta su Israele per una soluzione dei due stati del conflitto con i Palestinesi, all'insistenza per un’agenda di riforme politiche per i regimi del Golfo, fino all’accordo JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action) per lo stop allo sviluppo delle capacità nucleari iraniane. Nei suoi otto anni da Commander in Chief, Obama riduce il numero di soldati americani impegnati in teatri di guerra da 150mila a 14mila, inaugurando un nuovo approccio militare basato su attacchi chirurgici con droni e forze speciali. Ma i conflitti mediorientali si rivelano ben presto un pantano da cui è impossibile districarsi e alle vecchie crisi si aggiungono nuovi conflitti: Libia, Siria, Yemen. Durante la presidenza Obama, gli Stati Uniti continuano a spendere in media oltre 100 miliardi di dollari all’anno in spese militari. È in questo scenario che si affaccia nel 2016 il candidato alla presidenza repubblicano, Donald Trump: in campagna elettorale, Trump dice quello che molti Americani vogliono sentire e dichiara che sarebbe meglio utilizzare quelle risorse ingenti per rimettere in sesto gli Stati Uniti invece che tentare di esportare la democrazia.
“Risiko” anti-iraniano: USA e Medio Oriente al tempo di Trump
Ad aiutare Trump nel realizzare la promessa di porre fine a quelle che lui ha battezzato “endless wars”, ritirando le truppe USA dai campi di battaglia mediorientali, contribuisce una lenta ma costante diminuzione dell’importanza che i cittadini americani attribuiscono alla lotta al terrorismo tra le loro priorità. Se nel primo decennio degli anni 2000 il terrorismo era prioritario per l’80% circa degli americani, negli anni della presidenza Trump la percentuale si riduce attorno al 66%. Il contrasto al terrorismo internazionale rimane certo un tema importante (specialmente per l’elettorato repubblicano), ma non più di altri temi “domestici” come economia, istruzione e sanità. L’amministrazione Trump può così iniziare una negoziazione con i talebani che porta all’accordo di pace del febbraio 2020, che prevede il ritiro completo dall'Afghanistan delle truppe NATO. A meno di due mesi dalle presidenziali, il Pentagono ha annunciato un dimezzamento della presenza americana in Afghanistan entro la fine di novembre (da quasi 9mila a circa 5mila unità): una notizia benvenuta per il presidente in cerca di rielezione.
Forze militari statunitensi rimangono invece impegnate in operazioni antiterrorismo in Iraq e Siria, ma anche qui i numeri sono ben lontani dai picchi del passato recente. Secondo Trump, infatti, lo Stato Islamico è stato “totalmente sconfitto” e i circa 4mila soldati USA ancora presenti nei due paesi hanno per la Casa Bianca principalmente la funzione di proteggere impianti petroliferi e linee di rifornimento e “tenere d’occhio” l’Iran e i gruppi irregolari ad essa legati.
È proprio l’Iran che torna durante la presidenza Trump il nemico numero uno di Washington in Medio Oriente. A partire dal ritiro unilaterale degli USA dall’accordo sul nucleare nel maggio 2018, i rapporti tra Washington e Teheran si sono fatti sempre più tesi: partendo a metà 2019 con le schermaglie nello stretto di Hormuz fino ad arrivare all’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani a gennaio 2020 in Iraq.
Mentre crescono le tensioni con l’Iran, Washington rafforza in parallelo i legami con i principali rivali di Teheran nella regione: Israele e Arabia Saudita. Alleata fedele degli USA dal dopoguerra, Riyadh è stata oggetto di attenzioni speciali fin dall’arrivo di Trump alla Casa Bianca e, non a caso, meta del primo viaggio all’estero del presidente nel maggio 2017. Un trattamento di riguardo che si è concretizzato in un impressionante aumento delle esportazioni di armamenti dagli USA all’Arabia Saudita, con un valore medio annuale tra il 2017 e il 2019 superiore di oltre 3 volte e mezzo la media degli anni di Obama. In Israele, la presidenza Trump è stata tra i principali sostenitori della politica di Benjamin Netanyahu, riconoscendo Gerusalemme come capitale dello stato ebraico, la sua sovranità sulle alture del Golan e presentando un “piano del secolo” per la soluzione del conflitto israelo-palestinese decisamente sbilanciato a sfavore del popolo palestinese.
Nell’ultimo anno di presidenza, Trump si è proposto ancora più decisamente come il mediatore di una saldatura tra gli interessi di Israele e delle monarchie del Golfo in funzione anti-iraniana: culmine del processo è stata la firma degli “Accordi di Abramo”, con cui Emirati Arabi Uniti e Bahrein hanno ufficialmente riconosciuto Israele e normalizzato le relazioni diplomatiche. A rendere possibile la svolta è stata anche la progressiva marginalizzazione delle istanze palestinesi, tanto nell’agenda di Washington quanto agli occhi del mondo arabo sunnita; un punto irrisolto che però macchia irrimediabilmente il grande disegno di stabilità mediorientale tratteggiato da Trump e dal suo genero e consigliere Jared Kushner.
Quale politica USA in Medio Oriente dopo novembre 2020?
Trump 2.0: Bring America Home Per un presidente che ha fatto del confronto con la potenza emergente della Cina il punto di riferimento della propria politica estera, il Medio Oriente non potrà che rimanere in secondo piano tra le priorità strategiche, anche in un secondo mandato.
Se restasse alla Casa Bianca fino al 2024, Trump avrebbe tempo in abbondanza per cercare di completare la riconciliazione tra Israele e monarchie del Golfo, con il probabile obiettivo ultimo della normalizzazione dei rapporti tra lo stato ebraico e l’Arabia Saudita. In ciò, il presidente sarebbe facilitato se al centro delle vicende politiche dei due paesi restassero nei prossimi anni Benjamin Netanyahu e Mohammad Bin Salman, con i quali Trump ha coltivato un rapporto personale e diretto. Una permanenza al potere tuttavia incerta per il premier israeliano dopo le recenti elezioni e una leadership futura carica di sfide per il principe saudita.
Proseguire il ritiro americano dal Medio Oriente, nel tentativo di delegare la gestione della sua stabilità agli alleati regionali, significherebbe però anche una perdita di influenza per gli USA, tanto più forte quanto più affrettato sarà il disimpegno. Le conseguenze si sono viste nei casi di Libia, Siria e Yemen, che da conflitti regionali si sono trasformati in guerre per procura che hanno finito per portare risultati contrari agli obiettivi di Washington: lasciando ampi spazi di manovra ad attori come Turchia, Iran e Russia e permettendo a gruppi terroristici di diffondersi.
Biden: in cerca di un ritiro ordinato Una presidenza di Joe Biden condividerebbe con Trump l’obiettivo di ridimensionare significativamente l’impegno militare USA nella regione mediorientale, ma si affiderebbe a strumenti diversi, più graduali e inclusivi.
Come ha spiegato tratteggiando la propria visione di politica estera, Biden intende strutturare la presenza militare USA nella regione attorno all’impiego di forze speciali e intelligence che possano sostenere gli alleati locali. Un copione già visto in Siria nella collaborazione tra contingenti americani e truppe curde, ma che ci si chiede ora se potrà ancora funzionare dopo che la credibilità USA è stata messa in discussione dall’improvviso e inspiegabile abbandono degli alleati curdi voluto da Trump nell’ottobre 2019. A differenza del presidente repubblicano, Biden tornerebbe inoltre ad affidarsi alla diplomazia per cercare di risolvere due questioni in cui, secondo il candidato democratico, l’unilateralismo di Trump ha fatto danni: il conflitto israelo-palestinese, con il ritorno del sostegno per una soluzione dei due stati, e il nucleare iraniano, su cui Biden ha aperto alla possibilità che gli USA rientrino nel JCPOA.
Al di là delle differenze tra i due candidati, rimane però un dato di fatto strutturale: la sempre minore dipendenza degli Stati Uniti dal petrolio mediorientale. Se vent’anni fa le importazioni nette valevano il 53% del consumo giornaliero di petrolio negli USA, la percentuale si è ridotta a meno del 3% di oggi grazie alla crescita della produzione domestica statunitense di shale gas e shale oil. In parallelo, l’importanza dell’import da paesi OPEC e del Golfo è calata a favore del Canada, dal 2015 la principale fonte di provenienza del petrolio estero negli USA. Se resta vero che la protezione delle catene di approvvigionamento energetico mondiali e la stabilità dei prezzi del petrolio rimangono un obiettivo di Washington che renderà impossibile un ritiro completo dal Medio Oriente, la crescente autonomia energetica americana rende ormai quegli obiettivi importanti, ma certo non vitali per gli Stati Uniti.
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Focus a cura di:
Paolo Magri, Vice Presidente Esecutivo ISPI
Elena Corradi, Redazione USA2020
Alessia De Luca, Responsabile Weekly Focus USA2020
Fabio Parola, Redazione USA2020
Annalisa Perteghella, ISPI Research Fellow
Valeria Talbot, Co-Head ISPI MENA Centre
Grafiche a cura di Francesco Fadani, ISPI