Quello tra le due sponde dell’Atlantico sembrava un asse politico e militare indistruttibile. Ma l’arrivo di Trump ne ha sconvolto l’equilibrio, mettendo in evidenza i problemi strutturali dell’Alleanza. Così, mentre sui piccoli schermi va in onda il primo, infuocato, dibattito live tra i due candidati, in Europa si guarda alle presidenziali di novembre per capire se saranno il presidente e la sua squadra (in primis Mike Pompeo, oggi in visita in Italia) a guidare per altri quattro anni la politica Nato degli USA.
Continua la serie di Focus, in uscita ogni mercoledì, con cui ISPI approfondisce i principali dossier di politica estera che hanno segnato i 4 anni di presidenza Trump, provando a farne un bilancio e a tracciare alcuni scenari futuri.
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Gli Stati Uniti e la NATO ieri: una famiglia sempre più allargata
Per oltre quarant’anni, dal 1949 al 1991, l’Alleanza atlantica è stata l’architrave della relazione di sicurezza fra Europa e Stati Uniti. Oltre a fare da deterrente contro la minaccia sovietica, la Nato è stata il foro di consultazione privilegiato fra Washington e gli alleati europei e il luogo in cui le divergenze fra questi trovavano – il più delle volte – una composizione. Con la caduta del muro di Berlino, la sua funzione militare è andata incontro a una progressiva trasformazione. I compiti dell’Alleanza sono via via aumentati, sia a causa dell’emergere di nuove minacce (militari e non), sia causa della necessità di adattare la sua mission all’evoluzione dello scenario internazionale. Da questo punto di vista, l’intervento nelle vicende della ex Jugoslavia ha rappresentato un punto di svolta importante, segnando il primo intervento armato della NATO e la sua prima proiezione ‘out of area’, cioè fuori dall’ambito geografico definito dall’articolo 5 del trattato Nordatlantico – la clausola che stabilisce che un attacco contro un membro dell’alleanza rappresenta un attacco a tutta l’alleanza. Gli attentati dell’11 settembre 2001 e l’avvio della missione ISAF in Afghanistan hanno confermato questa tendenza, consolidando l’immagine di una NATO sempre più ‘globale’ e sempre meno ancorata alle ‘semplici’ esigenze della difesa europea. Parallelamente, però, proprio l’esperienza in Afghanistan ha messo in luce un crescente scollamento delle priorità degli alleati europei rispetto a quelle statunitensi. L’introduzione da parte di molti Paesi europei di limitazioni (‘caveat’) all’impiego delle loro forze è stata causa di tensioni con Washington, tensioni che hanno segnato sia gli anni dell’amministrazione di George W. Bush, sia – in maniera minore – quelli dell’amministrazione di Barack Obama.
L’allargamento dell’Alleanza atlantica ai Paesi dell’Europa centro-orientale (avviato nel 1999 con l’ammissione di Repubblica Ceca, Polonia e Ungheria e proseguito in diverse tornate fino all’ingresso del suo trentesimo membro, la Macedonia del Nord, nel 2020) e lo spostamento a est dei confini della NATO (che, nel caso delle tre repubbliche baltiche, hanno finito per penetrare in territorio ex URSS) sono stati anch’essi fonte di problemi e hanno portato alla luce divergenze che in precedenza – anche causa della maggiore compattezza geografica e ideologica dell’organizzazione – tendevano a rimanere sottotraccia. Il ritorno in forze della Russia sulla scena internazionale all’inizio degli anni Duemila, proprio mentre la NATO stava allargando il proprio raggio d’azione, ha influito in modo importante su questo processo. Fortemente appoggiato, negli anni passati, dagli Stati Uniti, il processo di allargamento è considerato da Mosca un fattore di destabilizzazione del teatro europeo e indicato come uno dei fattori che – unito al dispiegamento di forze NATO e USA in vari Paesi ‘di nuova ammissione’ – ha determinato l’aumento della tensione nella regione registrato in seguito all’esplodere della crisi ucraina nel 2014. Parallelamente, la rinnovata percezione della ‘minaccia da Est’ ha accentuato le diverse visioni di sicurezza esistenti all’interno dell’Alleanza, in particolare fra quanti considerano prioritario il contenimento della rinnovata assertività della Russia e quanti chiedono – al contrario – un ri-orientamento della NATO verso sud e un suo maggiore impegno a contrastare le minacce provenienti dal Medio Oriente e dal bacino del Mediterraneo.
USA e NATO oggi: comandante scettico in capo
Già durante la campagna elettorale del 2016 Donald Trump ha rivolto pesanti attacchi all’Alleanza atlantica, definendola, in diverse occasioni, ‘obsoleta’ e non più in grado di contrastare efficacemente le ‘vere’ minacce poste dall’attuale scenario internazionale,. Da candidato Presidente, Trump ha più volte criticato anche quella che a suo modo di vedere sarebbe l’‘iniqua’ ripartizione degli oneri (il cosiddetto ‘burden sharing’) e l’atteggiamento opportunista degli alleati europei, accusati di contribuire in modo minimo allo sforzo collettivo e di sfruttare in modo sostanzialmente passivo l’‘ombrello di sicurezza’ fornito dagli Stati Uniti. Con l’arrivo alla Casa Bianca, le cose sono cambiate poco e la posizione di Trump è rimasta sostanzialmente critica. Il risultato – sul fronte europeo – è stato di rafforzare la posizione di chi da tempo sostiene la necessità di giungere allo sviluppo di una capacità militare autonoma, sganciata dal contributo statunitense. Negli ultimi tempi il principale fautore di questa scelta di ‘autonomia strategica’ è stato il Presidente francese, Emmanuel Macron, con l’appoggio (seppure più defilato) della Germania di Angela Merkel. Fra l’altro, negli scorsi mesi, lo stesso Macron (che a suo tempo ha evocato la necessità di giungere alla costituzione di un ‘vero esercito europeo’ ‘per proteggerci dalla Cina, dalla Russia ma anche dagli Stati Uniti d’America’) si è espresso in termini molto critici verso la NATO, che a novembre, alla vigilia del vertice di Londra dei Capi di Stato e di governo dei Paesi dell’Alleanza, ha definito ‘in stato di morte cerebrale’.
Già da qualche anno, in realtà, la NATO si è mossa per colmare almeno in parte il divario di spesa rispetto agli Stati Uniti. Nel 2014, a conclusione del vertice di Celtic Manor, gli alleati hanno formalizzato l’impegno di destinare alle spese per la Difesa il 2% del proprio Prodotto interno lordo e di riservare il 20% di tale somma all’acquisizione di nuovi equipaggiamenti. Nella stessa sede è stato inoltre concordato un ‘impegno di convergenza’ in base al quale i Paesi all’epoca sotto la soglia fissata avrebbero dovuto raggiungere tale valore entro dieci anni. Nel 2015 cinque su ventotto membri dell’Alleanza avevano raggiunto l’obiettivo, mentre alla fine del 2019, su ventinove membri, oltre agli USA altri otto lo avevano raggiunto o vi erano vicini, mentre altri sei avevano adottato piani per conseguirlo entro il 2024. Il perseguimento degli obiettivi di Celtic Manor si è accompagnato anche a uno sforzo per rendere più efficiente ed efficace l’uso delle risorse, con la definizione delle priorità da perseguire in una serie di settori-chiave. Tuttavia, l’aumento della spesa militare negli Stati Uniti registrato durante la presidenza Trump (732 miliardi di dollari nel 2019, con un aumento del 5,3% rispetto all’anno precedente; un aumento pari al totale della spesa militare della Germania, secondo di dati del SIPRI di Stoccolma) ha in parte compensato lo sforzo degli alleati europei (nello stresso anno, la spesa complessiva di tutti i membri europei dell’Alleanza è stata di 1035 miliardi di dollari), contribuendo al permanere di un ampio differenziale fra le due sponde dell’Atlantico.
Le presidenziali 2020 e il futuro del rapporto USA-NATO
Trump 2.0: nebbie sull’Atlantico – Lo scarso feeling fra Trump e la NATO è cosa nota e – con ogni probabilità – destinata a durare anche nel corso di un possibile secondo mandato. Più che di rottura (nonostante le dichiarazioni dei protagonisti), lo scenario appare di progressiva estraniazione. Ciò non significa il temuto disimpegno di Washington. Tuttavia, un possibile ridimensionamento del ruolo degli Stati Uniti all’interno della NATO finirebbe per aumentare l’importanza relativa – oltre che degli Army Prepositioned Stock (APS) dislocati da Washington in diversi Paesi dell’Europa centro-orientale – delle forze ‘a rotazione’ schierate dalla US Army Europe nel quadro dell’operazione Atlantic Resolve, con l’effetto di spostare verso est il baricentro del sistema. È, per certi aspetti, l’ennesimo passo di un processo in corso da anni e acceleratosi con lo scoppio della crisi ucraina; di fronte a un rapporto sempre più difficile con i tradizionali alleati europei, l’attenzione di Washington sembra indirizzarsi verso le capitali dell'Europa centro-oriantale che proprio negli USA ricercano il loro interlocutore privilegiato. Il favore che i Paesi dell’Europa centro-orientale continuano a dimostrare per i ‘tradizionali’ vincoli bilaterali piuttosto che per il quadro multilaterale offerto dall’Alleanza atlantica rappresenta, in questa prospettiva, un fattore ulteriore di convergenza con un’amministrazione che – in questi anni – ha contribuito in maniera importante a indebolire a livello globale la logica e gli strumenti del multilateralismo. Tutto questo senza dimenticare che proprio l’erraticità dell’attuale politica militare statunitense pone questi sviluppi sotto il segno di una sostanziale incertezza.
Biden: amici (quasi) come prima – In diverse occasioni Joe Biden si è già detto favorevole al ripristino di una solida comunità euro-atlantica di sicurezza, arrivando ad affermare che un secondo mandato di Trump significherebbe – con ogni probabilità – la fine della NATO. Dal canto loro, gli alleati europei (soprattutto quelli della ‘vecchia Europa’: i Paesi fondatori e gli alleati pre-1999) guardano al candidato democratico come nel 2008 avevano guardano a Barack Obama: un Presidente che – nelle loro attese – dovrebbe rilanciare un legame transatlantico pericolosamente indebolito dalle tensioni che hanno segnato gli anni del mandato Donald Trump come era stato, all’epoca, per quelle che avevano segnato gli anni del mandato di George W. Bush. Il rischio è che queste attese si dimostrino eccessive (come accaduto nel caso di Obama) e finiscano a loro volta per alimentare la sfiducia e il senso di estraneità fra le parti. L’allentamento del legame transatlantico è, infatti, il prodotto – oltre che delle scelte delle diverse amministrazioni – di un cambiamento strutturale degli interessi statunitensi e della necessità di riallocare le loro risorse politiche, economiche e militari in funzione di questi mutati interessi; una necessità cui nemmeno un’eventuale amministrazione Biden potrà sfuggire. Chiaramente, il tono di Biden non sarà quello di Trump; tuttavia, la sostanza dell’impegno USA potrebbe non essere quella auspicata. Un altro aspetto da considerare è il possibile impatto sugli sforzi volti a giungere a un’identità militare europea autonoma, che potrebbero risentire solo in parte del possibile arrivo di Biden alla Casa Bianca e continuare a rappresentare un elemento di tensione nelle relazioni fra Stati Uniti ed Europa.
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Focus a cura di:
Paolo Magri, Vice Presidente Esecutivo ISPI
Gianluca Pastori, Università Cattolica del Sacro Cuore e ISPI
Alessia De Luca, Responsabile Weekly Focus USA2020
Elena Corradi, Redazione USA2020
Fabio Parola, Redazione USA2020
Grafiche a cura di Francesco Fadani, ISPI