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Focu n.7

Gli USA e il mondo: quale futuro per il multilateralismo?

02 novembre 2020

Il multilateralismo è un’invenzione recente, una cornice in cui gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo da protagonisti. Dopo quattro anni di Donald Trump e America First, l'ordine mondiale come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi è in subbuglio. Cosa ne sarà della leadership americana dopo il voto di novembre?

Scopri il portale USA2020

Con questo Focus sugli USA e il mondo termina la serie di approfondimenti sui principali dossier di politica estera che hanno segnato i 4 anni di presidenza Trump, provando a farne un bilancio e a tracciare alcuni scenari futuri. Vi diamo appuntamento a venerdì, con il Weekly Focus settimanale sulla corsa alla Casa Bianca, e ancora al 3 e 4 Novembre, con gli speciali ISPI sul voto USA2020. 

 

Washington e il mondo ieri: costruire l’ordine, mantenerlo

Ammirati, temuti o disprezzati. Additati come imperialisti o invocati come salvatori. Gli Stati Uniti suscitano reazioni e sentimenti contrastanti nel mondo, ma non lasciano quasi nessuno indifferente. Del resto, da ormai oltre settant’anni la politica estera di Washington è una delle variabili - se non la variabile - che più contribuiscono a determinare il quadro internazionale, i suoi equilibri e i rapporti tra i suoi attori più importanti.

Per rendersene conto basta guardare alle molte istituzioni internazionali che conosciamo e diamo quasi per scontate. Dalle Nazioni Unite all’Organizzazione mondiale del commercio, dal Fondo monetario internazionale all’Organizzazione mondiale della sanità, la governance globale degli ultimi sette decenni si è basata su un’insieme di istituzioni nella cui costruzione il ruolo di Washington è stato centrale. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, queste istituzioni diventano il cardine di un nuovo ordine internazionale, che vuole offrire un quadro di regole e strumenti comuni sulla base dei quali ricostruire un mondo trasfigurato dal più grande conflitto della sua storia. Al tempo stesso, quelle istituzioni permettono di gestire le dispute e le tensioni tra gli USA e l’Unione sovietica, offrendo nuovi forum di mediazione come il Consiglio di sicurezza ONU.

Per la Casa Bianca, la rete di organizzazioni internazionali e istituzioni multilaterali creata dopo il 1945 serve anche a trovare una quadratura del cerchio che le permetta di perseguire al contempo due obiettivi apparentemente opposti. Il primo è una Realpolitik che possa mantenere la stabilità internazionale, contenendo il rivale sovietico senza scatenare un’escalation e bilanciando i molti attori regionali per evitare l’emergere di nuovi possibili avversari - soprattutto in Europa. Il secondo è invece una politica idealista e liberale, fondata sulla convinzione che la promozione e la difesa di democrazia, libero mercato e diritti umani nel mondo sia non soltanto una scelta moralmente giusta, ma anche il miglior modo per allargare la cerchia di paesi alleati degli Stati Uniti. Stabilità mondiale e contenimento regionale, sviluppo economico e diffusione della democrazia. Per quanto ogni nuovo presidente dia all’una o all’altra componente un diverso peso relativo, è sull’equilibrio tra queste direttrici che si struttura la politica estera americana per come l’abbiamo conosciuta.

Se con la fine della Guerra Fredda gli Stati Uniti si ritrovano l’unica superpotenza globale, all'inizio del nuovo millennio diventa sempre più chiaro che non esiste paese così potente da poter prevenire, o nemmeno semplicemente gestire, tutte le crisi del mondo. Mentre nuovi attori - la Cina in primis - iniziano a ridurre il gap economico che li separa dagli USA, a Washington si inizia a parlare di “imperial overstretching” e di come la politica estera americana debba far evolvere il proprio hard power in un nuovo smart power, basato sulla condivisione dei costi della sicurezza globale tra Washington e gli alleati. Presidente realista e disincantato, Barack Obama ha ben chiaro, attraverso lezioni come la Libia e la Siria, che nel mondo contemporaneo la Casa Bianca non ha più né i mezzi né il sostegno politico interno per poter agire da “poliziotto del mondo”; tutto ciò che gli USA possono fare in molti casi è limitarsi a far luce sui problemi, senza illudersi di poterli automaticamente risolvere.

Se Obama rimane comunque convinto che, per portare avanti la propria agenda con risorse più scarse, gli Stati Uniti avranno sempre più bisogno dell’aiuto degli alleati e dovranno aggiornare e rafforzare l’architettura della governance globale, per il candidato repubblicano alla presidenza nel 2016, Donald Trump, le risorse americane andrebbero semplicemente tenute in casa. Quando Trump presenta la propria candidatura, la sua visione è già chiara: è la stessa che aveva annunciato nel 1987, quando aveva comprato una pagina del New York Times, Washington Post e Boston Globe per spiegare che la politica estera americana aveva fallito e che gli USA stavano pagando per fare gli interessi di sedicenti alleati che, in realtà, sfruttando lo sforzo americano inseguivano il proprio tornaconto.

 

Gli USA ai temi di Trump: nessun amico, nessuna paura

Guardando in retrospettiva i quattro anni di amministrazione Trump, una delle aree di policy in cui il presidente ha mantenuto molte delle sue promesse elettorali sembra proprio essere la politica estera. Per i sostenitori di Trump, il presidente ha realmente messo gli USA al primo posto: rifiutandosi di portare il paese in nuovi conflitti; accelerando il ritiro dal Medio Oriente dopo aver sconfitto lo Stato Islamico; esigendo dagli alleati un contributo equo alle spese per sicurezza e difesa; portando all’attenzione del mondo le insidie dell’espansionismo cinese; aprendo nuovi canali diplomatici direttamente, come con la Corea del Nord, o indirettamente, come è stato per il recente accordo di normalizzazione delle relazioni tra Israele, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti e Sudan

Soprattutto però, come ha spiegato Nadia Schadlow, braccio destro dell’ex Consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, Herbert R. McMaster, il merito di Trump sarebbe quello di aver dato uno scossone al cosiddetto foreign policy establishment americano: risvegliandolo alla realtà dei fatti e di un ordine internazionale le cui regole e istituzioni hanno fallito nel proteggere gli interessi e i valori degli Stati Uniti e, anzi, hanno creato un ambiente ancora più ostile a Washington. E se, da un lato, le decisioni di Trump di far saltare gli schemi - mandando in stallo alcune organizzazioni internazionali e ritirandosi tout court da altre - testimoniano che gli USA non hanno più la forza o la volontà di riscrivere l’ordine globale, dall’altro gli Stati Uniti restano ancora il paese che ne controlla alcuni nodi fondamentali, sui quali può intervenire per mettere sotto pressione il resto del mondo. È la cosiddetta “weaponized interdependence”, che spiega come, ad esempio, la supremazia del dollaro americano nelle transazioni finanziarie abbia consentito alla Casa Bianca di implementare con successo sanzioni unilaterali contro l’Iran; o come la giurisdizione di Washington sui giganti del web gli abbia permesso di mettere in difficoltà il colosso cinese Huawei.

Agli occhi dei critici di Trump, questi quattro anni raccontano invece una storia molto diversa. Quella di un presidente il cui approccio transazionale e contraddittorio alla politica estera ha contribuito a irrigidire i nemici e allontanare gli alleati; un leader che, dietro lo slogan “America First”, ha in realtà indebolito il paese tanto in casa quanto all’estero. Le prove al riguardo sarebbero molte: da una diplomazia maldestra che ha fallito nel contenere i programmi nucleari di Corea del Nord e Iran a una politica mediorientale che ha lasciato campo libero a Russia, Iran e Turchia; dall’incapacità di ottenere concessioni commerciali dalla Cina – gli anni di Trump sono stati contraddistinti da un ulteriore crescita del deficit esterno degli Usa - al rischio di una ripresa della corsa agli armamenti con Mosca. Ciò che più rimproverano a Trump, però, sarebbe la sua incapacità di comprendere che l’interesse americano spesso si difende difendendo gli interessi degli alleati, a volte anche senza averne apparentemente nulla in cambio. Il più grande asset che gli USA possono vantare in politica estera, spiegano, ciò che mantiene Washington più forte di Mosca e Pechino, è proprio quella rete di alleanze che Trump ha ripetutamente bollato come obsolete, inutili, dannose.

È forse presto per provare a capire quale dei due schieramenti offra la lettura più convincente della politica estera americana in questi ultimi quattro anni. Quel che è certo, come ha spiegato il leggendario Segretario di Stato americano Henry Kissinger in un’intervista al Financial Times, è che Trump è “una di quelle figure della storia che compaiono di tanto in tanto e segnano la fine di un’epoca, costringendola ad abbandonare le proprie illusioni”. Cosa ci aspetti nell’era futura è la domanda da un miliardo di dollari.

 

Gli USA dopo novembre: l’ordine mondiale a un bivio

Trump 2.0: la politica della forza bruta. Se Donald Trump fosse riconfermato alla guida della Casa Bianca, non si potrà certo dire, come nel 2016, che la politica estera degli USA per i prossimi quattro anni sarà un’incognita. Tanto gli americani quanto il resto del mondo sanno bene cosa aspettarsi da un Trump 2.0: sarà ancora e sempre più “America First”.

A dettare il tono del secondo mandato sarebbe, fin dal giorno dopo il voto, l’uscita ufficiale degli Stati Uniti dall’Accordo sul clima di Parigi. Un evento simbolico dell’atteggiamento di una nuova amministrazione Trump, che riprenderebbe con ancora più forza nell’opera di smantellamento dell’ordine multilaterale esistente, per ridefinire i rapporti tra Washington e il resto del mondo sulla base di una diplomazia molto più bilaterale. Un approccio “divide et impera” che cade perfettamente in linea con alcune delle costanti di una politica estera di Trump: la convinzione che un ordine internazionale caotico avvantaggi i potenti - e quindi gli Stati Uniti - e che non esistano alleati permanenti, ma solo partner temporanei. È questo secondo punto che preoccupa le capitali amiche di Washington, che dovranno continuare a confrontarsi con un presidente che vede le relazioni tra stati come rapporti di forza dove chi è costretto a chiedere è, per definizione, la parte debole: come ha spiegato un diplomatico europeo: “Se potevamo trattenere il fiato per quattro anni, farlo per otto è troppo”. Europa, Cina, Russia, Medio Oriente: è chiaro a tutti che altri quattro anni di presidenza Trump avrebbero la conseguenza di cambiare il volto dell’ordine globale in modo profondo e duraturo.

Biden: ricostruire la leadership. Da senatore, vicepresidente e ora candidato presidente, Joe Biden ha delineato più volte le fondamenta della politica estera che porterebbe avanti se entrasse alla Casa Bianca: una visione basata sulla ricostruzione dell’immagine degli Stati Uniti all’estero e sul tentativo di restituire a Washington quella leadership politica, economica ma soprattutto morale che ne aveva fatto il perno dell’ordine mondiale multilaterale dal secondo dopoguerra.

Ad attendere il democratico sarebbe però una sfida tutt’altro che semplice: dopo quattro anni di Trump, la fiducia degli alleati degli Stati Uniti è stata scossa nel profondo e non è detto che un cambio di inquilino nello Studio Ovale basti a riguadagnarla. Certo è, tuttavia, che sarebbero in molti a tirare un sospiro di sollievo nel vedere l’attuale presidente lasciare la Casa Bianca, raccogliendo la possibilità di chiudere la parentesi Trump e iniziare un nuovo, più “normale” capitolo nel rapporto tra l’America e il mondo.

Anche con una presidenza Biden, gli Stati Uniti si troverebbero comunque a doversi confrontare con molti dei dossier caldi con cui la scorsa amministrazione ha fatto i conti, non ultimo per le pressioni, quelle sì bipartisan, di un’opinione pubblica ostile a onerosi interventismi globali e al contempo sempre più critica e insofferente verso la Cina. Joe Biden dovrà scegliere come approcciarli: tornando a lavorare attraverso i canali del multilateralismo e della negoziazione, per cercare di costruire un terreno comune con cui interagire con Cina, Russia e altre piccole e grandi potenze; oppure tracciando una linea rossa, con Washington e i suoi alleati da un lato e vecchi e nuovi regimi autoritari dall’altro. L’ex vicepresidente ha promesso un “Summit delle democrazie” nel suo primo anno di mandato: quali ne saranno gli esiti potrebbe dirci molto sulla politica estera di una presidenza Biden.

 

***

Focus a cura di:

Paolo Magri, Vice Presidente Esecutivo ISPI

Elena Corradi, Redazione USA2020

Alessia De Luca, Responsabile Weekly Focus USA2020

Mario Del Pero, ISPI e SciencesPo

Fabio Parola, Redazione USA2020

Grafiche a cura di Francesco Fadani, ISPI

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Focus a cura di:

Paolo Magri, Vice Presidente Esecutivo ISPI

Elena Corradi, Redazione USA2020

Alessia De Luca, Responsabile Weekly Focus USA2020

Mario Del Pero, ISPI e SciencesPo

Fabio Parola, Redazione USA2020

Grafiche a cura di Francesco Fadani, ISPI

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