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Commentary

Gli Usa e l’Iraq: oblio e mancate lezioni della storia

09 settembre 2010

Obama ha scelto un basso profilo nell’annunciare la fine formale delle operazioni di combattimento in Iraq. Alta è stata la sede scelta per il discorso alla nazione: l’Ufficio Ovale. Ma i toni sono stati deliberatamente asciutti: nessun proclama di vittoria; nessuna rivendicazione eccessiva dei propri meriti; nessuna critica troppo pesante al suo predecessore. Nulla, insomma, che potesse alimentare nuove polemiche o riaprire una dolorosa introspezione collettiva attraverso la quale l’America è in parte già passata.

Obama ha, sì, rilevato con efficacia le contraddizioni della guerra: «una guerra per disarmare uno stato diventata un conflitto contro i terroristi». Una guerra in conseguenza della quale «il terrorismo e la violenza settaria hanno rischiato di distruggere l’Iraq; migliaia di americani hanno sacrificato le proprie vite; decine di migliaia sono stati feriti». Ma qui si è fermato. Come del resto si sono fermati i suoi avversari repubblicani, al di là delle solite critiche all’Obama che contestava la “surge” del 2007 e si starebbe ora appropriando dei suoi risultati.

Di Iraq nessuno vuole parlare, anche se rimangono ancora dispiegati 50mila soldati americani e la situazione appare tutt’altro che stabilizzata. Le imminenti elezioni di mid-term si giocheranno su altri temi – l’economia e l’occupazione ovviamente – e nessuno vuole mettere l’Iraq (o, più in generale, le guerre in cui sono impegnati gli Usa) al centro del dibattito. Non lo vogliono i repubblicani, che certo non hanno interesse a riesumare la follia di un intervento in ultimo rigettato da una larga maggioranza del paese; non lo vogliono i democratici, sempre poco credibili sui temi della sicurezza, e comunque già attenti a tenere il più possibile l’Afghanistan ai margini della discussione, per timore d’irritare ancor più la sinistra del partito.

Prevale pertanto un comprensibile, ancorché preoccupante, desiderio di oblio. È tempo di «voltare pagina», ha detto Obama. E però l’oblio – ovvero la riduzione dell’esperienza irachena a semplice parentesi – impedisce di usare quanto avvenuto nel 2002-03 almeno come utile lezione. Allora, un dibattito ideologicamente drogato e basato su informazioni se non artefatte quanto meno false ha impedito che una decisione così grave venisse presa con la dovuta riflessione e con un’opinione pubblica debitamente informata e preparata. Nascondere la lezione irachena – non fare ciò i conti la storia – non può aiutare gli Stati Uniti ad affrontare le sfide del futuro.

Tra queste lezioni vi è anche la crescente difficoltà di utilizzare lo strumento militare senza rischiare d’inquinare la stessa natura della democrazia statunitense. Perché l’Iraq (e l’Afghanistan oggi) ci rivela quanto complicato sia oggi per una grande democrazia fare la guerra. Anche per una democrazia con un ampio capitale di disponibilità al sacrificio, e con mezzi militari impareggiabili, quale l’America del dopo 11 settembre. I costi, i sacrifici e gli orrori della guerra non sono sopportabili per periodi lunghi, e gli Usa non sono mai stati in guerra così a lungo come nell’ultimo decennio. Le guerre, per essere combattute, devono essere invisibili, costosamente delegate a contractors delle cui sorti non si deve rendere in fondo conto. E per essere invisibili queste guerre, come sta accadendo con l’Iraq, devono essere rapidamente cancellate dalla memoria.

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