«Se cade Gereshk, arriveranno anche qui. Sicuro, al cento per cento». A Lashkargah, capoluogo della provincia meridionale dell’Helmand, lo ripetono tutti. Qui i tonfi dei combattimenti arrivano sordi, attutiti. Si combatte al di là del fiume. Soprattutto di notte. La città per ora è risparmiata, ma la preoccupazione cresce di giorno in giorno. Aumentano anche i pazienti nel Centro chirurgico di Emergency. Molti arrivano proprio da Gereshk, una sessantina di chilometri più a nord, cartina di tornasole e valvola di sicurezza per Lashkargah. Si trova lungo il principale anello stradale. Da lì, una deviazione punta verso sud. «Se cade Gereshk, cade anche Lashkargah».
La città non ha mai vissuto tempi di pace veri e propri, ma il suo progressivo accerchiamento riflette una fase nuova del conflitto, iniziata mesi fa. Dopo settimane di revisione del dossier-Afghanistan, a metà aprile il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha annunciato la decisione della sua amministrazione. Ha confermato l’accordo bilaterale di Doha del 29 febbraio 2020 tra Washington e i Talebani, posticipando però la data per il ritiro completo all’11 settembre 2021, circa quattro mesi dopo rispetto a quanto convenuto con i Talebani. In quell’occasione, Biden ha rimosso perfino quel debole legame tra il ritiro delle truppe e l’avanzamento del processo di pace previsto dall’accordo di Doha del 2020. Il ritiro, ha spiegato il presidente Usa, è incondizionato.
Già rafforzati dalla patente di legittimità politica conferita loro da Washington e dall’indebolimento del governo di Kabul, escluso dal negoziato bilaterale e costretto a rilasciare, dopo non poche rimostranze, cinquemila militanti islamisti, i Talebani ne hanno approfittato. Nelle ultime settimane hanno intensificato l’offensiva militare sul terreno. Non è ancora del tutto dispiegata, ma ha già portato a un’imponente conquista territoriale: tra un terzo e la metà dei circa 400 distretti del paese, anche se non dei principali centri urbani, ancora sotto il controllo governativo.
Prima di affondare il colpo sulle città, «i Talebani aspettano che gli americani si ritirino», ci ha spiegato giorni fa il ricercatore Antonio Giustozzi. La velocità del cedimento del fronte governativo «ha stupito anche loro». Colpisce infatti la velocità con cui le truppe governative hanno ceduto nell’area del nord e nord-ovest, dove i Talebani hanno sferrato un’offensiva in chiave preventiva, per evitare che la vecchia “Alleanza del nord” si ristabilisse e desse luogo alla “seconda resistenza”. Il governo di Kabul nega la gravità della situazione, sostiene che i distretti non siano stati veramente sottratti, ma “ceduti” nell’ambito di una ritirata strategica il cui fine è concentrare le forze intorno ai capoluoghi di provincia. In parte è vero, ma «il ridispiegamento militare sarebbe dovuto avvenire lo scorso inverno, non ora. È un errore farlo oggi», continua Giustozzi, che nota il rafforzamento dell’Amir al-Mumineen, la guida dei Talebani.
Haibatullah Akhundzada è riuscito a conquistarsi un’ampia maggioranza di voti nella Rabhari Shura, il più alto organismo di indirizzo dei Talebani, grazie alle scelte politiche degli ultimi mesi. Tra cui quella di mantenere in piedi l’accordo con gli americani, a dispetto della scelta di Biden di posticipare il ritiro. Nella Rabhari Shura, c’era chi spingeva per la rottura completa del negoziato. Akhundzada ha insistito e ha avuto ragione. Il leader supremo talebano è blindato sul fronte interno. Il suo movimento è all’offensiva – non ancora completamente dispiegata – sul territorio. Il presidente Ashraf Ghani, invece, è debole.
Il 25 giugno, Ghani è stato accolto alla Casa Bianca insieme ad Abdullah Abdullah, a capo dell’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale. L’incontro è avvenuto in uno dei momenti più incerti e drammatici della Repubblica islamica d’Afghanistan, l’architettura istituzionale sorta sulle ceneri dell’Emirato dei Talebani. Biden ha rassicurato i due interlocutori: finisce l’impegno militare, non la collaborazione tra i paesi. Ma il sostegno militare da remoto è complicato e Washington tentenna. Ghani ha però incassato l’impegno di Biden sulla continuità del sostegno finanziario alle forze di sicurezza afgane. Senza, si sfalderebbero in poche settimane.
Nel corso della visita negli Stati Uniti, negli incontri che hanno preceduto quello con Biden, Ghani ha voluto farsi ancora una volta simbolo del carattere repubblicano delle istituzioni. “Difendere la Repubblica è una scelta di valori”, ha dichiarato, “tra un sistema inclusivo e uno che esclude”. Ma la sua posizione è precaria. Il fronte repubblicano rimane diviso. Il governo riproduce la guerra intorno a nuovi corpi istituzionali, pensati per disinnescare il conflitto, concedendo potere a chi non lo aveva. L’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale, l’organismo creato per far ingoiare ad Abdullah Abdullah il nuovo mandato di Ghani dopo le ultime contestate elezioni, ancora non è del tutto formato. Eppure per settimane ci si è accapigliati – senza successo – su struttura, mandato e nomi del Consiglio supremo di Stato. Previsto nell’accordo del maggio 2020 “per accomodare chi era rimasto escluso dall’accordo tra Ghani e Abdullah, soprattutto Rabbani, Karzai, Hekmatyar”, ci ha spiegato Ali Adili, nell’ufficio di Kabul dell’Afghanistan Analysts Network.
“Una parte del quadro politico imputa al presidente una resistenza eccessiva. Ghani ritiene di poter inglobare i Talebani nelle strutture esistenti, concedendo porzioni di potere. Ed esclude invece il governo a interim”, sostiene Adili. Già prima delle elezioni presidenziali, Ghani aveva resistito alle pressioni per rinunciarvi in favore di un governo di transizione. Cercava un mandato forte da giocare sul tavolo negoziale con i Talebani. Ne è uscito con elezioni contestate e un mandato debole.
A Kabul qualcuno sostiene però che Ghani ora sarebbe pronto a farsi da parte, per un governo di transizione, a interim, che faciliti il negoziato. Ma solo a condizione che i Talebani accettino le elezioni. Difficile immaginarlo. In ogni caso, una delegazione governativa dovrebbe arrivare a Doha nelle prossime ore per riprendere negoziati di sostanza con i Talebani. La visita è stata rimandata di un paio di giorni. Pare, ancora una volta, a causa delle divisioni all’interno del fronte repubblicano. La delegazione dovrebbe essere guidata da Abdullah Abdullah e includerebbe nomi importanti della politica, da Hamid Karzai a Yunus Qanooni, da Abdul Rashid Dostum a Gulbuddin Hekmatyar. Gli stessi nomi su cui si è a lungo discusso per il Consiglio supremo di Stato.
Per alcuni attori regionali, in particolare per Mosca, le divisioni interne al fronte repubblicano sono la principale causa dello stallo nel processo di pace. Eppure sono stati i Talebani a decidere di disertare – e far annullare – la conferenza dell’Onu prevista lo scorso aprile in Turchia, con il pretesto che la data scelta da Biden per il ritiro completo posticipava di quattro mesi gli accordi di Doba. La violenza è cresciuta.
Nei primi tre mesi del 2021, secondo i dati resi pubblici ad aprile da Unama, la missione dell’Onu a Kabul, sono 573 i morti e 1210 i feriti, con un aumento complessivo del 29% rispetto allo stesso periodo del 2020. I mesi successivi sono stati segnati da ulteriore violenza, da parte di tutti gli attori del conflitto. Secondo Nader Nadery, membro della delegazione governativa afgana di Doha, la recente avanzata talebana avrebbe portato alla distruzione di 260 edifici pubblici e sarebbero 13 milioni le persone rimaste senza servizi fondamentali. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati lancia l’allarme: sono già 270.000 gli sfollati di questa ultima fase del conflitto, che si vanno ad aggiungere ai 3,5 milioni di sfollati esistenti. Mentre 18 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria.
Il conflitto prosegue, a dispetto della grave crisi umanitaria. “Arrivare al potere uccidendo civili, diventare presidenti di un paese di bare, non è una buona idea”, ci ha detto a Kabul Najiba Ayoubi, direttrice di The Killid Radio, rete di radio indipendenti. Per Najiba Ayoubi “quando si entra in un negoziato il primo passo dovrebbe essere accettare un cessate il fuoco. Solo dopo si negozia”. I Talebani avrebbero scelto invece “la strada sbagliata. Vogliono andare al potere con la forza”.
I Talebani combattono ma si dicono ancora disposti a negoziare. Secondo Nader Nadery, avrebbero proposto al fronte repubblicano una tregua di tre mesi, in cambio della liberazione di altri 7.000 detenuti e della rimozione dalle liste “nere” dell’Onu, due richieste avanzate da tempo. La popolazione e i gruppi organizzati della società civile chiedono invece da mesi un cessate il fuoco. Come quello appena entrato in vigore a Qala-e-Now. Per giorni sono andati avanti gli scontri per la conquista del capoluogo della provincia occidentale di Badghis, una delle quattro province per molti anni sotto la responsabilità dei soldati italiani. Poche ore fa è invece arrivato l’annuncio del governatore, Hesamuddin Shams: grazie alla mediazione dei leader tribali della zona, è stato trovato un accordo per una tregua. Parziale, limitata nel tempo, ma un esempio di ciò che andrebbe fatto anche altrove, dicono in tanti.
Prima della tregua, nelle stesse ore in cui i militanti islamisti entravano a Qala-e-Now, una delegazione talebana guidata da Abbas Stanekzai, pezzo da novanta della diplomazia degli studenti coranici, incontrava a Teheran una delegazione del governo di Kabul. Presenti il consigliere del presidente Ghani, Salam Rahimi, l’ex vice presidente Yunus Qanooni, il capo dello staff dell’ex presidente Karzai, Karim Khorram. A mediare, il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif. Che si è detto soddisfatto del ritiro degli americani, ma preoccupato dell’instabilità nel paese confinante. Come l’Iran, molti altri attori regionali stanno intensificando le pressioni sui Talebani affinché tornino al tavolo negoziale. Il dialogo intra-afgano è cominciato nel settembre 2020, producendo poco o nulla. Le capitali regionali vorrebbero imbrigliare i Talebani dentro una cornice politica che li trattenga dalle spinte verso la conquista del potere per via militare. Nessuno sembra gradire l’ipotesi di un governo tutto targato-studenti coranici. E se fuori premono per un accordo, qui in Afghanistan crescono le richieste di pace.
“La pace è un obbligo religioso, un bisogno della politica, la richiesta di tutta la nazione”. Recita così uno dei messaggi della campagna nazionale StopAfghanWar. Lanciata a metà giugno da alcune organizzazioni non governative, “la campagna chiede per prima cosa un cessate il fuoco. È la nostra richiesta da molti mesi e continuerà a esserlo fino a quando la violenza non cesserà”, ci spiega Roshan Siran, attivista di lungo corso, direttrice della Training Human Rights Association for Afghan Women (THRA). Secondo Siran, la campagna manda anche un messaggio politico: “Non vogliamo che le decisioni sul nostro futuro siano prese da altri paesi, da attori estranei alla società afgana. Ci siamo, come donne, vogliamo farci sentire, non permettiamo che ci impongano delle decisioni”, racconta. Per la direttrice di THRA, “dei Talebani non possiamo fidarci. Dicono di combattere per l’Islam, ma di quale Islam parliamo? La nostra società è profondamente islamica, religiosa. Non c’è vera religione che dica di uccidere”.