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REGNO UNITO

Global Britain e "cigni neri"

Filippo Fasulo
|
Davide Tentori
12 maggio 2022

Era il 2018 quando Theresa May, allora Primo Ministro del Regno Unito, dichiarava pubblicamente il nuovo disegno strategico di politica estera britannica. In vista di rendere Brexit una realtà, Londra avrebbe cominciato a perseguire l’ambizione per una “Global Britain”: un Paese che, finalmente libero dalle “catene” imposte dall’Unione Europea, avrebbe potuto mettere in campo nuove alleanze di ogni tipo – politico, economico, difensivo – puntando anche in maniera decisa su partner lontani dall’Europa e con riferimento soprattutto alla regione dell’Indo-Pacifico. Inizialmente, la strategia basata sul trasferimento degli accordi commerciali già detenuti dall’UE con Paesi terzi ha funzionato, fornendo al Regno Unito una buona base di partenza per espandere – una volta uscita dal Mercato Unico – la propria rete di Free Trade Agreements con Paesi terzi.

Tuttavia, le cose non sono andate secondo i piani. La pandemia e lo scoppio della guerra in Ucraina sono due “cigni neri” certo imprevedibili che hanno però contribuito a ridimensionare significativamente le ambizioni del Regno Unito, rallentandone l’economia ed esponendo Londra a vulnerabilità maggiori di quelle avvertite dagli Stati membri dell’UE. Come si ripercuote questa situazione sulla strategia geo-economica britannica?

 

Brexit means Brexit… o forse no?

Il 31 gennaio 2020 l’uscita de iure di Londra dalle istituzioni UE era stata accolta trionfalmente dal Primo Ministro Boris Johnson, forte di una vittoria netta alle elezioni parlamentari solo poche settimane prima. Il sopraggiungere del Covid-19, con i colli di bottiglia lungo le catene di approvvigionamento, aveva poi indotto Downing Street a decidere unilateralmente per un continuo rinvio dell’entrata in vigore a pieno regime dei controlli doganali alle merci importate dall’UE. Il sopraggiungere del Covid-19, con i colli di bottiglia lungo le catene di approvvigionamento, ha poi indotto Downing Street a decidere per un continuo rinvio unilaterale dell’entrata in vigore a pieno regime dei controlli doganali alle merci importate dall’UE. L’ultimo rinvio (il quarto) risale a poche settimane fa, con la decisione di ritardare l’imposizione dei controlli sanitari e fitosanitari alla fine del 2023. Ufficialmente, tale scelta è stata presentata come una misura per contrastare l’inflazione e il costo della vita in aumento, ma si spiega in parte anche con l’insufficiente grado di preparazione dell’Agenzia delle Dogane britannica di far fronte a operazioni inedite, non solo per tipologia ma soprattutto per l’elevata quantità (dato che l’UE rappresenta tuttora il principale partner commerciale di Londra con una quota di oltre il 40% sugli scambi totali di merci). Del resto, la situazione economica non è particolarmente incoraggiante. Dopo il forte rimbalzo positivo nel 2021 a livello di crescita del Pil (+7,4%, la più alta tra i Paesi del G7 ma a fronte di una recessione del 9,3% nel 2020), quest’anno e nel 2023 l’economia subirà un nuovo rallentamento, crescendo (secondo le stime riviste recentemente al ribasso dal Fondo Monetario Internazionale) rispettivamente del 3,7% e dell’1,2% (questa volta invece la più bassa a livello G7). L’elemento che spaventa maggiormente è l’inflazione, che sta colpendo il Regno Unito più di ogni altro Paese occidentale: se Stati Uniti e eurozona potrebbero aver raggiunto il picco dell’aumento dei prezzi con il mese di marzo, le previsioni della Bank of England affermano che potrebbe mantenersi su livelli del 10% per buona parte di quest’anno, per poi convergere nuovamente su valori più “normali” del 2% solo nel corso del 2023.

Perché sta accadendo questo? Le conseguenze economiche della guerra in Ucraina stanno mettendo in luce come, da quando è uscita dal Mercato Unico, la Gran Bretagna sia una sorta di “anello debole” in Europa a livello logistico. Le difficoltà e i rallentamenti nei trasporti, unite alla relativa scarsità di alcune materie prime chiave, costituiscono un mix decisamente negativo per un Paese che dipende fortemente dalle importazioni di beni dal resto del continente. D’altro canto, però, il Regno Unito può contare su alcuni punti di forza: bassa disoccupazione, flessibilità a livello di politiche fiscali e monetarie, e una dipendenza molto bassa dalle importazioni di petrolio e gas della Russia che, in un’ottica di medio periodo, potrebbe essere la carta vincente per uscire dalle “secche” di una fase economica che si preannuncia molto complessa per gli altri Paesi europei, almeno fino a quando non si saranno affrancati stabilmente dall’energia in arrivo da Mosca.

 

Tra uno sguardo a Ovest…

Tra le nuove (e al contempo storiche) direttrici di politica estera delineate nell’ambito della Global Britain c’è anche il rafforzamento delle relazioni transatlantiche, con il progetto di concludere un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti. Tuttavia tale progetto, dopo l’iniziale spinta propulsiva fornita – in maniera certamente strumentale – da Donald Trump in un tentativo di divide et impera, sembra essersi arenato anche alla luce della volontà dell’attuale amministrazione Biden di rilanciare la partnership economica con l’UE attraverso l’iniziativa (ancora da sviluppare) del Trade and Technology Council. Al netto di queste considerazioni, il Regno Unito ha manifestato comunque negli ultimi mesi un notevole attivismo a livello internazionale, soprattutto a livello dei Paesi G7, schierandosi insieme a USA e Canada tra i Paesi più decisi nel comminare sanzioni alla Russia e nel sostenere attivamente l’Ucraina, e sostenendo direttamente le richieste di adesione alla NATO di Svezia e Finlandia. Una circostanza facilitata dalla minore dipendenza dalle forniture energetiche di Mosca, come si diceva, ma che ha consentito a Londra e a Boris Johnson di mettersi in luce, distogliendo anche parzialmente l’opinione pubblica da scandali e insuccessi politici (come il recente voto in Irlanda del Nord) che da alcuni mesi a questa parte stanno progressivamente indebolendo la leadership del premier.

 

… e uno a Est: obiettivo Indo-Pacifico

Nella prospettiva di individuare un nuovo spazio d’azione per la politica estera britannica l’opportunità offerta dall’Indo-Pacifico riveste un ruolo importante. La premessa è che con Indo-Pacifico si fa riferimento a un concetto strategico di recente conio che, innanzitutto, su iniziativa giapponese e supporto statunitense punta a coinvolgere l’India nel contenimento della Cina, ma che poi serve anche da piattaforma per ampliare la presenza nella regione di attori non locali. Per questa ragione, un punto importante per la strategia di Londra verso l’area è comprenderne il rapporto con Pechino. Se da un lato il Regno Unito dichiara di voler mantenere un’intensa relazione commerciale, di fatto si parla oggi della fine della “Golden Era” delle relazioni tra Cina e Regno Unito che aveva raggiunto l’apice con una visita di Xi Jinping a Londra nel 2015, quando era stato accolto con grandi onori e grandi investimenti. Oggi il Regno Unito identifica la Cina come un “competitor sistemico”, la “maggiore minaccia di base statuale per la sicurezza economica” nazionale e uno Stato autoritario con “valori diversi”.

Si capisce così perché UK si sia impegnata con Australia e Stati Uniti a costituire nel settembre 2021 una nuova partnership militare (AUKUS, dai nomi dei tre Paesi) indirizzata al mantenimento della stabilità nella regione in seguito all’aumento della presenza cinese nel Mar Cinese Meridionale. AUKUS rappresenta pienamente la volontà britannica di ripensare la propria politica estera lontano dall’Unione Europea, visto che ha previsto anche un accordo sulla fornitura di sottomarini all’Australia in sostituzione di una commessa esistente con la Francia che ha creato un incidente diplomatico con Bruxelles. La presenza britannica nella regione, tuttavia, non si limiterà alla sfera strategica, abbracciando anche la complessa architettura di accordi economici regionali grazie alla richiesta di adesione al Comprehensive Progressive Trans-Pacific Partnership (CPTPP). Indo-Pacifico, però non vuol dire solo Cina: rappresenta un’occasione per molti Stati per ripensare la propria presenza nella regione. In questo senso, Londra vuole rafforzare le relazioni anche con India, Giappone, Corea del Sud e paesi dell’ASEAN. Si pensi, ad esempio, alla visita a New Delhi di Boris Johnson del 22 aprile durante il quale ci si è impegnati a siglare un accordo di libero scambio entro la fine dell’anno; alla definizione di un patto di natura strategica con il Giappone per facilitare esercizi militare congiunti; e, tornando al 2021, alla definizione del Regno Unito quale ASEAN Dialogue partner, primo Paese a ottenere questo status da 25 anni.  

 

Fare i conti con la realtà

Il Regno Unito sta affrontando un momento molto delicato, sia a livello economico che politico. Le conseguenze della guerra tra Russia e Ucraina potrebbero agevolare Londra nel medio periodo grazie alla minore dipendenza dagli idrocarburi russi, ma gli obiettivi promessi con Brexit sono ancora lungi dall’essere centrati. Le ambizioni per una maggiore proiezione geopolitica devono al momento scontrarsi con i vincoli imposti dalla congiuntura economica e dalla debolezza dell’attuale governo conservatore. Le difficoltà sperimentate in questi mesi a livello commerciale dimostrano come i piani di Londra per una maggiore indipendenza commerciale non sono attuabili facilmente, o comunque in un orizzonte di breve periodo. Da una ridefinizione dei rapporti di forza economici e della globalizzazione, tuttavia, il Regno Unito potrebbe avvantaggiarsi nel medio-lungo termine sfruttando la vicinanza agli Stati Uniti per avere una proiezione più profonda nella regione, appunto, dell’Indo-Pacifico. Inoltre, dopo che Brexit aveva comportato un nuovo modo di relazionarsi con l'UE, la guerra in Ucraina sembra aver riportato il Regno Unito sul continente europeo, nel tentativo di ritornare cruciale nelle dinamiche del continente grazie al proprio attivismo in difesa di Kiev e in favore dell'allargamento della NATO. Che il disegno della "Global Britain" comporti un rinnovato impegno anche in Europa?

 

 

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