Lo scorso 24 marzo il Kuwait ha registrato la sua temperatura più alta di sempre in relazione al periodo: 44,6 gradi celsius, diventando il punto più a nord in cui tale temperatura sia stata raggiunta nel mese di marzo. Pochi giorni prima, anche Arabia Saudita, Bahrein e Qatar registravano temperature record comprese tra i 40 e i 42,8 gradi, ben due gradi sopra i record stagionali precedenti. Secondo l’IPCC, la temperatura media globale salirà di 1,5 gradi entro la fine del 21esimo secolo. In Medio Oriente, secondo il Max Planck Institute, entro il 2050 la temperatura salirà di 4 gradi; entro il 2100 ci saranno 200 giorni l’anno di temperature eccezionalmente alte; in assenza di misure di mitigazione, entro lo stesso anno la regione sarà inabitabile per il genere umano.
La regione regina del petrolio
Il Medio Oriente è anche la regione che detiene la maggior parte delle riserve di petrolio al mondo: 833,8 miliardi di barili alla fine del 2019, circa la metà delle riserve totali globali. All’interno del Medio Oriente, è l’area del Golfo a detenere il primato delle riserve. Con circa 300 miliardi di barili di riserve, l’Arabia Saudita è il primo Paese della regione e il secondo al mondo (dopo il Venezuela), seguito da Iran (155,6 miliardi di barili), Iraq (145 miliardi di barili), Kuwait (101, 5), EAU (97,8) e Qatar (25,2). La regione produce un terzo dell’output petrolifero giornaliero globale: anche in questo caso è l’Arabia Saudita a posizionarsi al primo posto nella regione e al secondo su scala globale (in questo caso dopo gli USA), con una produzione media di 11,8 milioni di barili al giorno (mld) nel 2019, seguita da Iraq (4,7 mbd), EAU (3,9 mbd), Iran (3,5 mbd), Kuwait (2,9 mbd), Qatar (1,8 mbd).
Il modello rentier e il processo di diversificazione
L’ingente disponibilità di riserve petrolifere ha portato i Paesi della regione a costruire modelli economici – il modello rentier – interamente basati sullo sfruttamento delle risorse e sulla rendita da esso derivante. Sebbene ormai tutti i Paesi del Golfo abbiano approntato piani di diversificazione delle proprie economie in un’ottica di emancipazione dal petrolio e sviluppo del settore privato, è evidente come questa trasformazione sia in realtà molto complessa, in quanto comporta il ripensamento dell’intero modello di sviluppo e del patto sociale alla base del rapporto con le proprie popolazioni.
Tuttavia, fattori come il parallelo e pericoloso innalzarsi delle temperature medie nella regione come risultato del cambiamento climatico, il crollo dei prezzi del petrolio nel 2014, l’ulteriore crollo portato dalla pandemia di Covid-19 nel 2020, rendono ancora più urgente per la regione aderire al trend globale della transizione energetica, intesa come la creazione di modelli di sviluppo alternativi e sostenibili, basati sul passaggio da fonti combustibili fossili a fonti rinnovabili.
I piani dei governi
Se si prendono in considerazione le due principali economie del Golfo, Arabia Saudita e EAU, si notano differenti livelli di diversificazione. Nonostante una contrazione del 5,4% nel 2020 dovuta alla pandemia di coronavirus, l’economia saudita rimane la prima della regione. Quasi il 30% del Pil del Paese dipende però dalla rendita petrolifera. Per gli EAU, seconda economia della regione nonostante una contrazione del 6,6% nel 2020, il contributo del settore petrolifero al Pil è pari al 16,6%. La maggiore diversificazione dell’economia emiratina è dovuta a diversi fattori: un avvio anticipato degli sforzi di diversificazione, così come la sua struttura politica federale. L’Emirato di Dubai, in particolare, ha giocato un ruolo di primo piano nella diversificazione dell’economia degli EAU: secondo emirato della confederazione per dimensioni, detiene solamente il 4% delle riserve petrolifere emiratine, e ha dovuto pertanto basare la propria strategia di sviluppo economico su settori alternativi. Non a caso oggi Dubai è il principale hub del commercio e dei servizi regionali, e uno dei primi al mondo.
Gli sforzi di diversificazione dell’economia saudita sono invece più recenti: nonostante i tentativi siano stati numerosi fin dagli anni ’70, il più recente piano di riforme “Vision 2030” è stato lanciato dal principe ereditario Mohammad bin Salman nel 2016. Ad oggi però esso non ha dispiegato quel potenziale di sviluppo inizialmente atteso, e ha rivelato tassi di fiducia e interesse da parte degli investitori internazionali inferiori alle aspettative del Regno.
Se ufficialmente al cuore delle strategie di diversificazione tanto saudite che emiratine vi è la transizione energetica, è più corretto affermare che è la transizione da un modello economico basato sulla rendita a un modello basato sullo sviluppo del settore privato a essere al centro.
Le conseguenze di lungo termine
Quella che potrebbe sembrare una distinzione sottile aiuta però a comprendere come per entrambi questi Paesi la questione ritenuta prioritaria è la possibilità di continuare a generare ricchezza e garantire un patto sociale basato sulla stabilità autoritaria, mentre non è altrettanto in cima alle agende la necessità di fermare gli effetti nefasti del cambiamento climatico e garantire al contempo un modello di sviluppo sostenibile e inclusivo. Dimensione, quest’ultima, prioritaria nei piani di transizione di attori globali come l’Unione Europea e gli Stati Uniti.
I Paesi del Golfo, inoltre (con l’eccezione dell’Iraq), saranno impattati in misura minore dal Green Deal europeo, dal momento che la maggior parte delle loro esportazioni di energia è oggi rivolta verso l’Asia. Ciò contribuisce ad alleviare il senso di urgenza della effettiva emancipazione dalla rendita, che è invece molto forte in realtà le cui economie sono legate a doppio filo alle importazioni europee di idrocarburi.
Considerati questi fattori, il quadro che emerge dal Golfo è quello di un’area che, nonostante le enormi potenzialità per lo sviluppo delle rinnovabili – soprattutto energia solare – registra ancora diverse resistenze ad abbracciare appieno il trend della transizione. Il settore delle rinnovabili è al momento percepito come prioritario per la generazione di energia per il consumo interno, mentre le attività di esplorazione e sfruttamento di combustibili fossili da destinare alle esportazioni continuano a pieno ritmo. Soprattutto, al cuore delle strategie energetiche, sia di Arabia Saudita che di EAU, c’è l’utilizzo del gas naturale come combustibile di transizione. Gli EAU, importatori netti di gas dal 2008, continuano a fare affidamento sulle importazioni di gas naturale dal Qatar attraverso il gasdotto Dolphin, nonostante la crisi diplomatica che per quattro anni ha diviso i due Paesi. L’Arabia Saudita soddisfa invece il suo fabbisogno attraverso la produzione domestica.
I progetti in corso sulle rinnovabili
I progetti per lo sviluppo delle rinnovabili non mancano, ma, soprattutto in Arabia Saudita, essi stentano ad affermarsi pienamente e soprattutto a essere forieri di un vero e proprio cambiamento di paradigma. NEOM, la città saudita del futuro sul Mar Rosso, dovrebbe ospitare il più grande impianto al mondo per la produzione di idrogeno verde. Nel 2019 è entrato in funzione l’impianto solare da 300 MW Sakaka; l’obiettivo di Vision 2030 è arrivare a 40 GW di fotovoltaico e 2,7 GW di energia solare termodinamica (Concentrated Solar Power, CSP) entro i prossimi dieci anni. Gli Emirati, che puntano a produrre il 44% dell’energia dalle rinnovabili entro il 2050, stanno lavorando alla costruzione del maggior impianto per la produzione di energia solare al mondo, il Mohammed bin Rashid Al Maktoum (MBR) Solar Park, dalla capacità produttiva di 5 GW.
Tuttavia, accanto a questi promettenti progetti, rimangono numerosi coni d’ombra. A differenza di quanto fatto da altre major dell’energia globali, né Saudi Aramco né le altre compagnie energetiche del Golfo hanno fissato dei target per la riduzione delle emissioni. Aramco, in particolare, al momento esclude le emissioni generate dalle proprie raffinerie e dai propri impianti petrolchimici dal computo totale delle emissioni generate dalla compagnia. Secondo Bloomberg, includere la totalità delle facilities raddoppierebbe l’impronta ecologica della compagnia, portando il computo totale delle sue emissioni all’equivalente delle emissioni prodotte dal Portogallo.
La motivazione dell’opacità saudita risiederebbe nella volontà di non disincentivare gli investimenti nella compagnia, che ha fatto il suo ingresso sul mercato azionario proprio nel momento in cui la finanza globale si sposta verso investimenti green. Non è un caso dunque che il Medio Oriente sia ancora fanalino di coda per investimenti ESG (Environmental, Social, and Governance), nonostante quattro dei sei membri fondatori del One Planet Sovereign Wealth Fund Working Group siano fondi sovrani di paesi del Golfo.
In conclusione, nonostante la regione del Golfo sia tra le più colpite tanto dagli effetti dirompenti del cambiamento climatico quanto dalle conseguenze economiche del calo della domanda di petrolio, persiste una certa resistenza ad abbracciare appieno il trend globale della transizione energetica. Quasi paradossalmente, le attività di sfruttamento dei combustibili fossili nella regione sembrano destinate ad aumentare nei prossimi anni, allo scopo di estrarre il maggiore ritorno economico possibile prima che l’intero Pianeta si emancipi da essi. Una regione che avrebbe dunque le potenzialità – in termini di risorse naturali e finanziarie – per essere leader nella produzione di energia rinnovabile, rimane per il momento ancorata a un modello profondamente legato agli idrocarburi. Non vi è dubbio che in futuro anche la regione del Golfo dovrà emanciparsi dai combustibili fossili: se si osservano i già evidenti effetti dirompenti del cambiamento climatico nella regione, è auspicabile che questo futuro arrivi il prima possibile.