Il settimo giro di consultazione in cinque anni di Regno di Felipe VI sta iniziando; ma la distanza tra le forze politiche della sinistra per comporre l’unica possibile coalizione di sostegno al candidato socialista all’investitura a premier, Pedro Sánchez, è sempre più incolmabile.
La bocciatura dell’investitura di Sánchez del 25 luglio è stata “traumatica” da diversi punti di vista; e ad oggi si sono compiuti pochi passi avanti durante gli incontri, non molti per la verità, tra la delegazione del Psoe e quella di Unidas Podemos e tra i rispettivi leader. Solo il presidente della Giunta di Galizia, Alberto Feijóo, uno dei dirigenti più lucidi e dialoganti nel Partido Popular, ha provato a infrangere il muro costruito dalle opposizioni di destra verso il candidato socialista, proponendo una via di uscita politica costituita dalla proposta di una coalizione tra Psoe e PP, in sostanza una grande coalizione alla tedesca: una soluzione ardita per il contesto spagnolo, anzi per ragioni storiche quasi un tabù.
Quindi, la crisi dell’investitura di luglio ha lasciato sul campo della sinistra una notevole diffidenza tra le due parti, Psoe e Podemos, e proprio questo frangente ha riportato la situazione allo stato successivo alle elezioni politiche di fine aprile: i socialisti propongono un governo monocolore socialista con sostegno esterno di Podemos, mentre quest’ultimo chiede un governo di coalizione, stile italiano, per la prima volta nella Spagna democratica.
La differenza rispetto a luglio è che, secondo la Costituzione, entro il 23 settembre può svolgersi un’ultima investitura, cioè un’ultima elezione del presidente del Gobierno, e se questo non dovesse succedere si andrebbe alle urne; cioè il Re Felipe VI sarebbe costretto a sciogliere le Camere e indire nuove elezioni, per la quarta volta in quasi quattro anni. Questi sono i fatti.
Se però si entra nel merito dell’analisi bisogna intanto chiarire che i confronti tra i due partiti sono andati a rilento, senza grande interesse di avvicinamento da entrambe le parti. Non c’è stata neanche una reale accelerazione, che è avvenuta solo negli ultimi giorni ed è stata dettata da una parte dalla pressione dell’opinione pubblica (soprattutto quella più legata alla sinistra plurale, decisamente avversa al ritorno alle urne) e, dall’altra, dalle tensioni interne soprattutto a Podemos (in cui una delle sue componenti più influenti, Izquierda Unida, ha sempre espresso un orientamento favorevole al sostegno esterno).
I socialisti, risoluti e fermi intorno alla loro posizione, hanno compreso che la forzatura avvenuta in luglio con il continuo rilancio di richieste da parte di Iglesias di ministeri (anche dopo l’ottenimento della vicepresidenza) e in maniera assai irrituale, durante il dibattito sull’investitura fino alla rottura definitiva, si è trasformata in un passo falso del leader di Podemos. Iglesias non seppe cogliere al balzo la possibilità (e anche il sostegno dei partiti della sinistra indipendentista e del PNV) di avviare il primo governo di coalizione della storia democratica spagnola; non rinunciò, neppure in quel momento, ai toni spregiudicati, che spesso lo attanagliano. E questo vulnus non è, evidentemente, rimarginabile in tempi brevi, nonostante ormai i socialisti e Podemos governino insieme in diverse realtà.
Inoltre nella parte socialista, l’orientamento poco incline al confronto e al compromesso, è stato rafforzato ora proprio dalle difficoltà di consenso di Podemos e dalla crescita del partito nei sondaggi. Solo qualche dirigente di spicco, come ad esempio il leader dei socialisti catalani Miquel Iceta, intravede un possibile percorso di coalizione, ma solo dopo un periodo non breve di governo con sostegno esterno di Podemos.
A questo atteggiamento dei socialisti fanno da contrasto, in un certo senso, anche le ultime interviste e l’attivismo frenetico di Iglesias, che ha proposto prima un governo di coalizione a tempo (con diritto di recessione se non funzionasse) e poi ha invocato il re Felipe affinché si faccia mediatore tra le due parti e si faccia in qualche modo “garante” della formazione di un governo di coalizione, in sostanza una richiesta che risulta evidentemente poco adeguata al ruolo del sovrano indicato dalla Costituzione.
Però poi bisogna aggiungere anche che se i sondaggi danno in crescita il Psoe, attestato intorno al 30%, tuttavia tale vantaggio non è ancora in grado di consentire una maggioranza parlamentare monocolore. Servirebbe sempre il contributo di altri partiti, oppure l’astensione di parte dell’opposizione; possibilità questa che si ritiene assai impraticabile allo stato attuale, visti i rapporti assai tesi, al limite dell’insulto quotidiano, tra Psoe, PP e Ciudadanos (che solo Feijó prova a superare). Permane ancora una volta la difficoltà da parte socialista (ma tutta spagnola) di confrontarsi con un quadro parlamentare multipartitico, non più tendenzialmente bipolare e, in fondo, perdura anche la resistenza a un dialogo fattivo con quella formazione che rappresenta ormai per il Psoe un possibile partner politico: Ciudadanos (sebbene, certo, in questo momento abbia una proiezione verso il centro-destra e populista non indifferente).
Oltre a queste considerazioni, il possibile ritorno alle urne lascerebbe aperto anche un altro problema assai politico e rischioso per le ricadute: un presidente del governo “che sbriga gli affari correnti”, senza fiducia del parlamento da sei mesi, può gestire la conclusione – e le implicazioni politiche – del processo ai leader indipendentisti catalani, prevista per il mese prossimo (senza tralasciare le criticità attuali dello Stato autonomico, in relazione alla questione dei trasferimenti alle regioni e non solo naturalmente)?