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ECONOMIA GLOBALE

"Greenflation": che fare?

Francesco Saraceno
18 febbraio 2022

A partire dalla metà degli anni Ottanta i Paesi avanzati hanno visto progressivamente ridursi la volatilità dell’economia. Durante questo periodo di grande moderazione, durato fino alla crisi finanziaria globale del 2007, le fluttuazioni di Pil e occupazione si sono progressivamente ridotte in ampiezza; inflazione (dopo la brusca frenata dei primi anni Ottanta) e tassi di interesse si sono stabilizzati su livelli moderati così come i salari.

 

Prima della pandemia: la quasi-deflazione

Sulle cause della grande moderazione il dibattito è ancora vivace e la mancanza di consenso su quel periodo storico contribuisce a spiegare la diversità di posizioni sulle prospettive per i prossimi anni. La maggioranza degli economisti ritiene che il lungo periodo di stabilità dei prezzi sia da attribuire all’indipendenza delle banche centrali (introdotta quasi ovunque proprio a partire dagli anni Ottanta) e alla combinazione di globalizzazione e progresso tecnico, che hanno esercitato una pressione al ribasso sui salari più bassi e sui prezzi. Una consistente minoranza di economisti ha invece sottolineato il ruolo giocato da alcune trasformazioni strutturali delle nostre economie, dal recente aumento dell’incertezza e dell’instabilità finanziaria all’invecchiamento della popolazione, passando per l’aumento della disuguaglianza (che ridistribuisce i redditi verso coloro che risparmiano di più) e l’aumento del debito privato (che spinge ad aumentare i risparmi per far fronte ai futuri pagamenti).

Nei Paesi avanzati questo aumento del risparmio è stato accompagnato da una significativa riduzione dell’investimento. In primo luogo, l’investimento pubblico; poi, in misura quasi pari, l’investimento privato, il cui calo può esser fatto risalire al rallentamento della produttività, alla fragilità finanziaria delle imprese, all’incertezza che ha compresso gli “spiriti animali”. Questo ha portato a una “stagnazione secolare” caratterizzata da uno strutturale eccesso di risparmi sugli investimenti. Con la crisi finanziaria globale, di natura keynesiana, la grande moderazione si è trasformata in una quasi-deflazione che da più di un decennio tiene i tassi d’interesse a zero o negativi (il limite inferiore dei tassi). Per anni le banche centrali hanno provato invano a far risalire l’inflazione verso l’obiettivo del 2%.

 

Prezzi più alti dalla transizione energetica…

La pandemia, perturbando l’economia sia dal lato della domanda che da quello dell’offerta, è venuta a scardinare temporaneamente questo quadro di tendenza alla deflazione. Le oscillazioni della domanda e la sua ricomposizione settoriale, la disarticolazione delle catene del valore e le penurie generalizzate hanno provocato la fiammata dei prezzi che abbiamo osservato in queste settimane e che molto probabilmente durerà almeno fino all’estate del 2022. È su questo che si innesta il tema del cambiamento climatico e della necessità di una transizione ecologica. Quanto è probabile che queste sfide di lungo periodo vengano a cambiare il quadro disegnato sopra, portando a tassi di inflazione strutturalmente più elevati?

Sono diversi i canali attraverso i quali il cambiamento climatico potrebbe influenzare in modo duraturo i prezzi. Intanto, è già aumentata la frequenza di eventi climatici estremi (incendi, inondazioni, variazioni estreme della temperatura) che possono avere un impatto significativo sui prezzi di alcuni beni, in particolare alimentari ed energia (si pensi al contributo che nel 2021 un inverno particolarmente rigido e un’estate particolarmente calda hanno dato all’aumento di domanda di energia). Gli eventi climatici estremi, oltre a influenzare i costi di produzione, porteranno a interruzioni nelle catene del valore, premi assicurativi più alti e via di seguito. L’aumento delle temperature e delle malattie legate all’inquinamento, inoltre, deteriorerà il capitale umano e porterà a una riduzione di produttività ed efficienza. Alcuni ricercatori della BCE hanno recentemente evidenziato come l’inerzia nel combattere il cambiamento climatico potrebbe portare a un’inflazione strutturalmente più alta (fino a mezzo punto percentuale annuo). Ma non è tutto; i costi associati alla mitigazione del cambiamento climatico saranno elevati, e si rifletteranno almeno in parte nei prezzi.

Sempre secondo lo studio della BCE, una transizione ecologica ben gestita, minimizzerebbe l’impatto inflazionistico del riscaldamento climatico. Intanto perché questo sarebbe temporaneo, poi perché la frequenza degli eventi estremi diminuirebbe, riducendo i costi legati alla mitigazione. La transizione ecologica porterà a un aumento temporaneo dell’inflazione attraverso più di un canale. Intanto, l’aumentata tassazione sulle energie fossili (come, ad esempio, la tassa sul carbonio alle frontiere) e l’aumento dei prezzi delle emissioni annunciato dalla Commissione nel suo pacchetto Fit for 55 nel quadro dell’Emission Trading System saranno in parte trasferiti a consumatori e imprese, comportando un aumento dei prezzi di produzione e al consumo. Poi, durante la transizione è probabile che la domanda di alcune fonti di energia come il gas naturale aumenti in modo considerevole, soprattutto se, come è auspicabile, i Paesi emergenti accelereranno la transizione dal carbone. Infine, la produzione di energie rinnovabili è per definizione volatile, e anche se nelle tecnologie di stoccaggio i progressi sono fenomenali, per qualche anno ancora potremmo vedere una significativa variabilità del costo dell’energia. Tuttavia, è importante notare che questi effetti saranno temporanei e che, vista la dinamica dei costi di produzione, la transizione verso un mix energetico con più rinnovabili e meno fossile porterà a termine a prezzi dell’energia più bassi di quelli attuali.

 

… ma quanto più alti?

Insomma, sia che si proceda spediti nella transizione ecologica, sia (soprattutto) che non si faccia abbastanza e ci si accontenti di strategie di mitigazione, l’impatto del cambiamento climatico sui prezzi sarà significativo.  Ma quanto sarà significativo? E come andrà affrontato?

Per rispondere alla prima domanda occorre riflettere su come le dinamiche descritte sopra si innesteranno sulla tendenza alla stagnazione secolare. L’inflazione di questi mesi ha fatto dimenticare a molti che fino a un anno fa le banche centrali facevano sforzi titanici (e sostanzialmente inutili) per contrastare la tendenza deflazionistica dell’economia. Se l’inflazione climatica rimanesse nella forchetta stimata dalla BCE, arrivando al massimo allo 0,5-0,7% nei prossimi anni, non solo essa non costituirebbe un problema, ma potrebbe dare una mano alle banche centrali e aiutare a normalizzare la politica monetaria. Ma la transizione ecologica potrebbe aiutare nella lotta contro la stagnazione secolare in modo più profondo e strutturale: i colossali bisogni di investimenti dei prossimi anni, tanto pubblici quanto privati (la letteratura recente mostra come essi siano complementari e non sostituti) potrebbero contribuire a colmare lo scarto strutturale tra risparmio e investimento che è alla base delle tendenze deflattive dell’economia degli ultimi due decenni.

Quanto alla seconda domanda, occorrerà muoversi con molta cautela. Il quadro che emerge da quanto sopra è quello di un’inflazione che nei prossimi anni avrà una pluralità di cause, quasi tutte legate al lato dell’offerta dell’economia: aumenti di prezzi eterogenei tra settori, ricomposizione dell’offerta, ristrutturazione industriale. Per capire come affrontarla possiamo guardare alla dinamica in corso dopo la pandemia, anch’essa con un’inflazione da offerta e fortemente differenziata tra settori. È chiaro, che si tratti di inflazione pandemica o di inflazione climatica, la risposta non può essere quella di una politica monetaria restrittiva. Questa, infatti, comprimerebbe la domanda aggregata, rischiando di danneggiare la crescita, senza risolvere alcuno degli squilibri settoriali e dei colli di bottiglia che sono tipici di ogni trasformazione strutturale dell’economia. Oltre a essere pronte ad intervenire in caso di surriscaldamento generalizzato, le banche centrali dovrebbero fare ben poco; keep calm and be vigilant, insomma, come sta saggiamente facendo la BCE in questa fase di ripresa post pandemica.

 

Come gestire la “greenflation”?

L’inflazione climatica, di fatto, andrebbe principalmente gestita dalle politiche di bilancio e dalle politiche industriali. In primo luogo, contrariamente alle prescrizioni dei profeti del “bagno di sangue”, si dovrebbe accelerare al massimo il processo di transizione ecologica, per evacuare i fattori temporanei discussi sopra. Poi, per ovviare a squilibri settoriali e problemi temporanei di disallineamento tra domanda e offerta di beni specifici, si dovrebbe ricorrere a un ventaglio di politiche che spazia dall’investimento pubblico alla regolamentazione, passando per incentivi, o ancora sussidi e tasse che affrontino le esternalità ma anche per misure più eterodosse come i controlli di prezzo (fin tanto che questi restano mirati e temporanei), che consentano di evitare rendite ed extraprofitti che rischierebbero di far naufragare la transizione.

In conclusione, il cambiamento climatico e la transizione ecologica potrebbero nei prossimi anni mettere fine alla grande moderazione e, sperabilmente, aiutare le politiche macroeconomiche a estrarre le nostre economie dall’abbraccio della stagnazione secolare. Per evitare che l’economia si avviti in spirali inflazionistiche, occorrerà gestire una fase temporanea di instabilità dei prezzi e di trasformazione strutturale che richiederà, più che politiche monetarie restrittive, inefficaci e dannose, una vasta gamma di misure che consentano di ridurre l’impatto inflazionistico della transizione e della mitigazione del cambiamento climatico.

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AUTORI

Francesco Saraceno
SciencesPo e LUISS

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