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Commentary

Guerra in Mali, un pantano insidioso di difficile soluzione

03 novembre 2014

Mentre nelle ultime settimane gli occhi del mondo sono rivolti verso Kobane e la sanguinaria ascesa dello Stato Islamico in Iraq e Siria, nel nord del Mali continua un conflitto di bassa intensità che sfugge ai titoli dei media ma continua a preoccupare la diplomazia mondiale. “La guerra dimenticata del Mali”, come viene etichettata in un recente analisi apparsa su Al Jazeera English, non smette di mietere vittime, terrorizzare intere popolazioni e, da oltre due anni, sta trasformando il Sahel nel campo di battaglia più esteso e insidioso del jihadismo internazionale. 

I negoziati di pace ripresi per la terza volta ad Algeri a metà ottobre, si sono arenati come nelle precedenti occasioni. I gruppi indipendentisti (tuareg e arabi in testa) e il governo centrale non riescono a trovare un accordo soprattutto sulla questione dello statuto politico da riservare alle regioni del nord del paese. Dopo mesi di pour parler in Algeria l’unico risultato raggiunto è stato l’eliminazione dalla bozza dell’accordo della dicitura “Azawad” , ma la firma della pace sembra sempre più irraggiungibile. 

A sottolineare il malcontento della popolazione locale, soprattutto la componente settentrionale, la nascita del gruppo di pressione “Negocies Pas En Mon Nom!” che nelle ultime settimane sta riscuotendo grande successo su Facebook, Twitter e Instagram. Una campagna virale nata da un gruppo di giovanissimi cittadini maliani nativi delle tre regioni settentrionali del paese (Timbuctu, Gao e Kidal) per manifestare la frustrazione nei confronti dei gruppi che, sedendo al tavolo dei negoziati, si ostinano a parlare in nome di tutta la gente del nord. Il gruppo conta più di 3000 iscritti su Facebook e ha invaso la rete di fotografie di gente comune ritratta con il cartello #NegociesPasEnMonNom. Un chiaro monito a un processo di pacificazione e risoluzione del conflitto che non è ancora sufficientemente inclusivo per essere percepito come legittimo e credibile dalla società civile maliana.

Nel frattempo la situazione securitaria delle tre regioni settentrionali del Mali e dell’intera fascia saheliana si sta deteriorando sempre più a causa della crescente volontà di rivalsa dei gruppi jihadisti che si stanno riorganizzando e riarmando, come dimostrano recenti fatti di cronaca. Il 10 ottobre nel nord del Niger le forze speciali francesi hanno reperito e distrutto un convoglio che trasportava dal sud della Libia verso il Mali tre tonnellate di armi pesanti (fra cui sistemi antiaerei SA-7, cannoni da 23mm, centinaia di mortai anticarro, mitragliatrici e migliaia di munizioni calibro da 7.62 a 23mm, secondo una fonte militare). Dopo questa operazione, una nuova base francese è stata aperta a Madama, nord-est del Niger, per controllare i traffici nella zona desertica a cavallo fra Libia, Niger e Mali. 

A seguito di movimenti sospetti di truppe e armi nella regione, la Francia, che da agosto ha regionalizzato la propria presenza militare inaugurando il dispositivo antiterrorismo Barkhane, ha condotto il 28 e 29 ottobre una vasta operazione nell’estremo nord del Mali, la cosiddetta “seconda battaglia del Tigharghar”, dal nome della zona montuosa santuario dei jihadisti saheliani, teatro di violenti scontri nel 2013 e rifugio arduo da espugnare. Nei combattimenti incorsi nella valle del Ametetai ha perso la vita Thomas Dupuy sergente maggiore di 32 anni delle forze speciali e altri due soldati sono stati gravemente feriti, portando a 10 il numero delle perdite francesi dall’inizio della guerra in Mali (11 gennaio 2013). Nella battaglia una trentina di mujahidin hanno perso la vita. 

Il 30 ottobre la risposta jihadista: una serie di attacchi ha causato la morte di 9 militari nigerini nella regione di Tilladeri, vicino al confine col Mali. I terroristi hanno usato la solita tecnica, attaccando a piccoli gruppi a bordo di motociclette obiettivi sensibili (in questo caso il campo di rifugiati maliani di Mangaize, il checkpoint di Bani Bangou e la prigione di Ouallam, dove molti detenuti sono evasi). E, per chiudere questa macabra lista che sintetizza gli ultimi avvenimenti nel nord del Mali, domenica 2 novembre un attentato dinamitardo ad Almoustrate, nella zona di Bourem, ha causato due morti e quattro feriti nelle fila dell’esercito maliano. 

Neanche a farlo apposta qualche settimana fa Jean-Yves Le Drian aveva tuonato contro la missione Onu in Mali, la Minusma: «Il nord del Mali è fragilizzato perché la Minusma non si è fatta trovare pronta all’appuntamento quando doveva». Le parole del ministro della Difesa francese (chiamato “Ministro delle colonie d’Africa” dai suoi detrattori in patria) sottolineano le pressioni che l’Eliseo esercita dall’inizio della guerra in Mali sull’Onu affinché si assuma l’incombenza di rilevare le truppe francesi in prima linea. Quello che la Francia non riconosce pubblicamente, però, è che da quando è stata dichiarata la fine dell’Operazione Serval in Mali, i caschi blu dell’Onu stanno pagando il prezzo di sangue più alto: più di 30 morti e decine di feriti, in maggioranza africani (caschi blu di Niger, Chad, Burkina Faso e Senegal). Detto questo bisogna riconoscere che, come sostengono anche alcune cariche della Minusma, la missione di peacekeeping in Mali presenta ancora diverse falle, ritardi e disfunzioni operative, faticando non poco a mettere al sicuro le popolazioni civili vittime del conflitto.

Nel frattempo, vedendo naufragare ogni spiraglio di negoziazione e temendo una rinascita considerevole dei gruppi jihadisti, i tre principali gruppi armati del nord (Mnla, Maa e Hcua) hanno deciso di rinforzare la propria alleanza, dotandosi di un capo militare comune, il tuareg Mohamed Ag Najim. Questo segnale indica una nuova strategia comune delle tre differenti anime dell’irredentismo arabo-tuareg, che si presentano come alleati imprescindibili della comunità internazionale in funzione antiterrorismo. In un comunicato ufficiale i tre gruppi dicono di aver rinforzato il proprio apparato militare «per garantire la sicurezza delle popolazioni del nord, oggi più che mai minacciate dai gruppi jihadisti», ma il governo centrale e le popolazioni locali guardano con diffidenza alla nuova riorganizzazione delle forze nel nord. Da sottolineare anche che, con la repentina caduta l’1 novembre, dopo le oceaniche manifestazioni di piazza del 31 ottobre, del dittatore Blaise Compaoré dopo 27 anni al potere in Burkina Faso, l’Mnla ha perso il principale alleato regionale e uno dei negoziatori più attivi nel conflitto in Mali.  

Altro fattore di destabilizzazione potenziale sono i legami pericolosi che intercorrono fra alcune componenti dei gruppi presenti ai negoziati di pace e i gruppi jihadisti, soprattutto fra l’Alto Consiglio per l’Unità dell’Azawad (Hcua) e Ansar Addin, la dissidenza jihadista dell’indipendentismo tuareg guidata dal temibile Iyad Ag Ghali, ricercato dai servizi segreti di mezzo mondo. Secondo molti attori presenti ai negoziati di Algeri, infatti, i rapporti personali fra i vari leader dei gruppi armati renderebbe impossibile quanto necessario distinguere fra ribelli e terroristi. Un problema non da poco, in Mali come altrove.   

Il prossimo 8 novembre è previsto a Niamey, un incontro fra i responsabili militari di Mali, Algeria, Mauritania e Niger, Paesi membri del Comitato di Stato Maggiore Operazionale Congiunto (Cemoc), basato in Algeria, per cercare una strategia comune per la stabilità e la sicurezza dell’intera fascia sahelo-sahariana. Il Cemoc, insieme al G5 Sahel - organizzazione regionale nata il 16 febbraio 2014 con sede a Nouackhott di cui fanno parte Mauritania, Mali, Burkina Faso, Chad e Niger - sono solo alcuni dei tentativi della comunità internazionale per far fronte a quello che sempre di più si configura come un pantano insidioso di difficile soluzione.   

Andrea de Georgio, 

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