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Terrorismo
Hamza bin Laden è morto, ma al-Qaeda no
Giuliano Battiston
02 Agosto 2019

La dinastia bin Laden è destinata a scomparire, ma al-Qaeda rimane viva e vegeta. Si potrebbe riassumere così il commento di Jason Burke, giornalista e ricercatore britannico e autore di molti libri sul jihadismo globale, a proposito della morte di Hamza bin Laden, uno dei figli del fondatore di al-Qaeda. Nato nel 1989, figlio della terza moglie di Osama, la psicologa infantile Khairiah Sabar, cresciuto prima in Sudan, poi in Afghanistan e a partire dal 2001 tra l’Iran – dove avrebbe trascorso molti anni, alcuni dei quali sotto custodia delle autorità locali – e il Pakistan, Hamza bin Laden sarebbe morto due anni fa circa, ucciso da un drone statunitense, forse nelle porose zone di confine tra Afghanistan e Pakistan. Proprio lì dove il padre aveva cominciato la sua militanza grazie all’incontro con il palestinese Abdallah Azzam, l’ideologo della “carovana del jihad” con il quale aveva inaugurato l’“Ufficio servizi” (makhtab al-khidmat) per organizzare gli arabi che intendevano combattere l’occupazione sovietica in Afghanistan.

La morte di Hamza bin Laden, che secondo alcune ricostruzioni nel maggio 2011 sarebbe scampato di poco all’assalto dei Navy Seals nel compound di Abbottabad in cui si nascondeva Osama, è tornata a sollevare interrogativi sullo “stato di salute” di al-Qaeda, l’organizzazione terroristica di cui è diventato testimonial d’eccezione a partire dall’agosto 2015. È stato allora infatti che il medico egiziano Ayman al-Zawahiri, militante dall’età di 15 anni grazie alla lettura dei testi dell’ideologo dei Fratelli musulmani Sayyd Qutb e dal 2011 alla guida di al-Qaeda, lo ha presentato in un messaggio audio annunciando “l’arrivo di un leone dalla tana di al-Qaeda”. I messaggi di Hamza bin Laden si sono moltiplicati nel tempo, con appelli alla lotta armata contro gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita, i “sionisti di Israele” e alla costruzione di un fronte jihadista globale, tanto da fargli meritare nel febbraio scorso una taglia da 1 milione di dollari del dipartimento di Stato Usa.

Nelle sue invocazioni di morte, Hamza ha spesso capitalizzato il legame con il padre, sfruttando l’autorevolezza simbolica del cognome. Così, per esempio, in un messaggio audio di 22 minuti diffuso il 9 luglio 2016 da As Sahab, uno dei canali di comunicazione qaedisti, e intitolato non a caso “Siamo tutti Osama”, minacciava vendetta per l’uccisione del padre e rivendicava l’espansione territoriale del gruppo: subito dopo l’11 settembre «i mujahedin erano assediati in Afghanistan, mentre oggi hanno raggiunto Siria, Palestina, Yemen, Egitto, Iraq, Somalia, il subcontinente indiano, la Libia, l’Algeria, la Tunisia, il Mali e l’Africa centrale».

Al contrario dell’enfasi di quel messaggio, per alcuni analisti la stessa affermazione di Hamza bin Laden nel firmamento qaedista sarebbe un sintomo della fragilità dell’organizzazione. Hamza era privo di qualunque esperienza sul campo, di capacità organizzative o di leadership, e il suo protagonismo mediatico sarebbe frutto esclusivo del “pedigree famigliare”: “Hamza aveva soltanto il nome”, sostiene per esempio Daniel L. Byman, per il quale il rilievo che gli è stato conferito è “un segno dei tanti problemi di al-Qaeda e del disperato bisogno del gruppo” di recuperare centralità e visibilità, di fronte alla crescita dello Stato islamico. La prova? “Il gruppo centrale attorno ad al-Zawahiri non ha lanciato alcun importante attacco terroristico in Occidente nel corso di un decennio, segno di una debolezza allarmante”. Anche il Soufan Center, autorevole centro di analisi sulla sicurezza, sostiene che la sua morte avrà conseguenze strategiche negative per al-Qaeda, perché Hamza bin Laden era il “legame generazionale” tra la vecchia guardia e i nuovi quadri, oltre che un “potenziale unificatore del movimento jihadista globale”. La sua morte è “un duro colpo per il futuro di al-Qaeda”.

Ora, valutare la forza delle organizzazioni jihadiste è complicato, proprio a causa del carattere clandestino in cui operano. I criteri per farlo, poi, possono essere diversi: c’è chi considera le porzioni di territorio controllato, chi la capacità di persuadere i sostenitori, mobilitare i militanti, convincere nuove reclute, chi la capacità offensiva-operativa in ambito “domestico” o transnazionale; chi la visibilità sui media, chi la solidità delle fonti di finanziamento, chi la coesione ideologica della leadership centrale, chi la diffusione geografica del marchio, chi tutti questi elementi insieme. Senza contare che la stessa definizione di “jihadista” è controversa, tanto da aver dato vita a stime ritenute eccessive sul numero dei jihadisti su scala mondiale, spesso ricavate attraverso una griglia analitico-concettuale troppo lasca e porosa, che confonde anziché chiarire.

Nel caso di al-Qaeda, prescindendo dai numeri sui militanti e valutando l’indirizzo strategico, qualche valutazione si può comunque azzardare. A partire dalla distinzione tra la visibilità mediatica del marchio qaedista e la solidità dell’organizzazione, tanto della leadership centrale quanto dei gruppi affiliati. Come abbiamo cercato di dimostrare già nel 2016 nel libro Arcipelago jihad. Lo Stato islamico e il ritorno di al-Qaeda, se da alcuni anni non vediamo al-Qaeda, infatti, non è perché sia destinata all’estinzione, ma perché ha scelto di abbandonare il palcoscenico. Facendo un passo indietro, adottando un basso profilo, cambiando pelle e strategia rispetto agli anni in cui Osama bin Laden era una presenza costante sui media occidentali e gli attacchi all’“Occidente blasfemo” o ai suoi simboli una priorità. Il relativo silenzio di al-Qaeda non è un sintomo di debolezza, dunque, ma l’esito di una scelta strategica, programmatica, compiuta da Osama bin Laden quando era ancora in vita e poi perfezionata dal suo vecchio sodale al-Zawahiri, capace di traghettare il gruppo fino a oggi a dispetto di tre avvenimenti che avrebbero potuto comportarne la fine: la morte del fondatore Osama; le primavere arabe che, all’inizio, sembravano confutare platealmente la retorica jihadista sulla possibilità di cambiare lo stato delle cose in Medio oriente soltanto attraverso la violenza; infine l’emergere – da un parricidio – dello Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi.

Come rivelano i documenti ritrovati nel compound di Abbottabad dagli americani, prima di essere ucciso bin Laden lamentava che il nome di al-Qaeda fosse associato esclusivamente alla violenza e invocava un cambio di passo, una “nuova fase” che rilanciasse il marchio nel mondo. Alla base, la convinzione su cui il medico egiziano Ayman al-Zawahiri, suo successore, avrebbe fondato il nuovo corso, dopo le primavere arabe: la legittimità passa per il consenso locale, non per l’imposizione e la violenza settaria. Senza il sostegno delle masse, il jihad è inutile. Senza l’appoggio dei musulmani, il Califfato è un castello di carta: la longevità politica deriva dalla persuasione, non dalla violenza. Così al-Zawahiri, che nel 2013 ha messo nero su bianco la sua strategia nelle “Linee generali per il Jihad” e che poi avrebbe affermato: “Non costringiamo nessuno a riconoscere la nostra autorità, non minacciamo decapitazioni, non scomunichiamo chi ci combatte”.

Una strategia esplicitamente opposta rispetto a quella di Abu Bakr al-Baghdadi, che invece ha voluto imporre la propria autorità esclusiva sul fronte jihadista a colpi di scomunica, e che ha esibito in modo muscolare la propria forza militare, finendo per subire la controffensiva in Siria e Iraq. Così, mentre lo Stato islamico alzava il tiro e provocava la reazione degli attori internazionali, al-Qaeda puntava a radicarsi nei contesti locali, a rafforzare i legami sociali, con una concezione meno esclusivista e dottrinaria del jihad, più pragmatica. Non si trattava di una scelta morale, ma strategica, per ridurre l’esposizione militare e cercare di trasformare al-Qaeda da gruppo di avanguardia a movimento popolare, con un radicamento sociale.

L’organizzazione in questi anni ha certo subito battute d’arresto, e ancora oggi sconta un certo scarto anagrafico tra la vecchia guardia della leadership centrale e i nuovi quadri, ma rimane solida. Secondo il rapporto della metà di luglio realizzato dal team di monitoraggio del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite su al-Qaeda e sullo Stato islamico, “a dispetto della salute e della longevità del suo leader, Ayman al-Zawahiri, e a dispetto dell’incertezza sui modi della successione, al-Qaeda rimane resiliente”. Nel rapporto di 24 pagine si nota inoltre che “i gruppi allineati con al-Qaeda, a Idlib, in Siria, Yemen, Somalia e gran parte dell’Africa occidentale sono più forti di quelli dello Stato islamico”, anche se questi ultimi sono più solidi in termini finanziari e operativi.

Non devono sorprendere, dunque, le recenti dichiarazioni di Nathan Sales, coordinatore per il controterrorismo al Dipartimento di Stato americano. “Nel corso degli ultimi anni, al-Qaeda ha assunto una postura strategica e paziente”, lasciando che “lo Stato islamico assorbisse l’impatto degli sforzi mondiali di controterrorismo mentre si ricostruiva pazientemente”. Se forse non è del tutto certo che, come dichiara Sales, “oggi al-Qaeda è forte quanto mai prima”, rimane però vero che, con o senza Hamza bin Laden, “nessuno dovrebbe confondere il periodo di relativo silenzio di al-Qaeda con l’idea che siano usciti dal business”.

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Hamza bin Laden Siria MENA terrorismo
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AUTORI

Giuliano Battiston
Giornalista e ricercatore freelance

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