Si chiude il primo anno di amministrazione Biden. Ed è tempo inevitabile di bilanci, a maggior ragione in una democrazia, come quella statunitense, dove i cicli elettorali ormai si dispiegano senza soluzione di continuità e si avvicina la scadenza nodale del mid-term di novembre, quando si voterà per l’intera Camera dei Rappresentanti e per 34 dei 100 seggi al Senato.
Se in termini di atti concreti – legislativi ed esecutivi – il primo anno di Biden presenta diversi chiaroscuri, e non pochi risultati importanti sono stati ottenuti, da un punto di vista strettamente politico la valutazione non può che essere negativa. Ce lo mostra bene il barometro più banale e utilizzato per misurare lo stato dell’amministrazione in carica: quel tasso di approvazione dell’operato del Presidente, che secondo le diverse rilevazioni è sceso per Biden da un 54/55% iniziale all’attuale 41/42. Siamo insomma poco sopra i livelli (bassissimi) di Trump nel gennaio 2018 e di molto sotto (circa 8 punti) quelli di Obama nel gennaio 2010. 2010 che avrebbe visto alle elezioni di mid-term la più pesante sconfitta di un partito del Presidente del post-Seconda Guerra Mondiale.
Cerchiamo allora di capire quali sono i risultati significativi di questo primo anno di Presidenza Biden e quali le ragioni e le cause di queste patenti difficoltà politiche.
I risultati, innanzitutto. Riassumibili in due fondamentali atti legislativi, in alcuni ordini esecutivi e nei primi, tangibili tentativi di misurare gli effetti concreti di questi provvedimenti. Le due leggi più importanti approvate dal Congresso sono il piano di stimolo dell’economia e di risposta alla pandemia (l’America Rescue Plan) del marzo 2021 e il programma d’investimenti infrastrutturali (l’Infrastructures Investments and Jobs Act) del novembre successivo. Provvedimenti, questi, che completano una risposta aggressiva alla crisi economica provocata dal Covid già avviata sotto Trump. E provvedimenti che, per dimensioni e contenuti, in epoca pre-pandemica avremmo probabilmente celebrato come epocali, vuoi per le loro dimensioni (mille miliardi di dollari d’investimenti in capitale fisso sociale; 1,9 miliarid di dollari lo stimulus di marzo) vuoi per le loro ambizioni di trasformazione del paese, della sua (obsoleta) rete infrastrutturale così come del suo faragginoso e speso iniquo sistema di protezione sociale. Tanto per intenderci, l’l’Infrastructures Investments and Jobs Act è il tentativo più ambizioso d’intervenire sulle infrastrutture dai tempi della famosa legge su strade e autostrade del 1956 (lo Highway Act di Eisenhower). A sua volta l’America Rescue Plan prevede una spesa complessiva che è quasi il doppio dello stimulus di Obama del 2009, ed ha attivato programmi estremamente ambiziosi (oltre che onerosi e potenzialmente inflattivi) in una varietà di ambiti, dalla sanità al sostegno alle famiglie, dai sussidi di disoccupazione all’edilizia popolare, solo per menzionarne alcuni.
Le due leggi chiave dell’amministrazione Biden sono state accompagnate poi da una miriade di provvedimenti esecutivi (executive orders), adottati soprattutto nelle prime settimane di Presidenza. Alcuni di questi provvedimenti hanno avuto una valenza principalmente simbolica, ma altri – si pensi solo all’aumento del salario minimo per i contractors federali o a quelli sull’immigrazione o sul tetto di rifugiati ammissibili nel paese – sono stati adottati per promuovere un’azione incisiva e forte oltre che, come da tradizione recente, per aggirare il blocco di un Congresso spesso paralizzato e inefficiente.
Gli effetti di questi “successi” sono ancora difficili da quantificare, ovvero lo si potrà fare solo su un periodo più lungo, quando essi entreranno pienamente a regime. Biden e i suoi sostenitori possono però far leva su una crescita economica molto robusta, – superiore al 6% nei primi due trimestri del 2021, e del 2.3% nel terzo – su una disoccupazione scesa addirittura sotto il 4% e su un contestuale rafforzamento del potere negoziale dei lavoratori, e quindi della loro capacità di ottenere migliori retribuzioni e condizioni di lavoro. Progressi sono altresì visibili in altri ambiti, a partire dalla significativa crescita, destinata ad aumentare nei mesi a venire, del numero di persone che beneficiano di una copertura sanitaria grazie al potenziamento e rilancio di Obamacare avvenuto con Biden.
E però, gl’insuccessi sono stati tanti e la percezione – diffusa ed evidenziata appunto dai sondaggi – è addirittura che di fallimento si debba parlare. Agisce su percezioni e critiche un elemento quasi fisiologico legato al quadro iper-polarizzato degli Stati Uniti d’oggi. Da un lato la polarizzazione alimenta conflitto, radicalizza le posizioni e induce in campagna elettorale a promettere politiche e trasformazioni spesso irrealistiche, creando uno scarto inevitabile tra aspettative e risultati, parole e atti. Dall’altro, in un sistema federale, con poteri diffusi e divisi, vi sono delle costrizioni evidenti alla capacità d’iniziativa presidenziale che un contesto polarizzato tende inevitabilmente ad amplificare.
Come ampiamente prevedibile, anche alla luce del cattivo risultato elettorale dei democratici alla tornata del novembre 2020, tali costrizioni si sono manifestate con forza in questo primo anno di Presidenza Biden. Al Congresso, e al Senato in particolare, dove i democratici godono di maggioranze assai esigue e il fronte repubblicano, più coeso e compatto, riesce non di rado a bloccare le iniziative democratiche. Negli Stati controllati dai repubblicani, dove le politiche pubbliche federali vengono spesso contestate e rigettate. In un sistema giudiziario dove agisce l’incisiva azione di nomina di giudici conservatori da parte di Trump – dalla Corte Suprema a quelle d’appello a quelle distrettuali (a oggi quasi il 30% dei giudici attivi è stato nominato da Trump). Il tutto esacerbato dalle divisioni di un partito democratico dove bastano solo poche defezioni, come quelle del senatore Manchin (West Virginia) o della senatrice Sinema (Arizona) su alcuni cruciali voti, per ostruire l’iter legislativo.
Provvedimenti fondamentali, non ultimo per la loro valenza politica e simbolica, come il completamento del piano di stimolo e di riforme (il Build Back Better Plan) o la riforma federale per tutelare il diritto d’accesso al voto si sono quindi arenati sulle sabbie di questa paralisi legislativa, suscitando frustrazione e recriminazioni tra i democratici e galvanizzando un fronte repubblicano ancora dominato dalla figura di Donald Trump.
Gli insuccessi legislativi producono divisioni e disillusioni tra i democratici, come si è visto anche in alcune elezioni tenutesi il novembre scorso. Ad alimentare l’impopolarità di Biden contribuiscono però anche altri elementi, relativi al contesto interno così come a quello internazionale. Pesa innanzitutto la mancata realizzazione delle promesse elettorali rispetto alla pandemia. Le diverse varianti del Covid; una campagna di vaccinazione che, dopo una partenza lampo, non è mai decollata (ad oggi, la percentuale di americani che hanno completato il ciclo vaccinale è di poco sopra il 60% e di 12 punti inferiore a quella dell’Italia); un ostruzionismo repubblicano che, su scala locale e statale, si manifesta anche nell’ambito pandemico: tutti questi fattori hanno contribuito, e stanno contribuendo, alla peristenza di una crisi sanitaria che Biden aveva garantito di poter governare e risolvere. Di nuovo, i sondaggi sono implacabili, con una percentuale di americani che approvano la gestione della pandemia da parte di Biden scesa in un anno dal 69 al 45%.
Il contesto economico presenta a sua volta numerosi chiaroscuri e ambiti rispetto ai quali è cresciuto, a destra come a sinistra, il malcontento verso Biden. L’andamento della pandemia alimenta una volatilità economica, evidenziata anche dalle oscillazioni del PIL, che acuisce incertezze e paure. L’inattesa fiammata inflazionistica – frutto dell’inceppamento delle catene globali di produzione e dell’alto prezzo di alcune materie prime, ma in parte anche alimentata dalle politiche espansive di Biden e Trump – concorre a sua volta a esacerbare timori e insicurezze. Il tutto si riflette su un indicatore dal cruciale valore politico nella democrazia dei consumi statunitense: quel tasso di fiducia dei consumatori, che a dispetto dei buoni risultati economici del primo anno di Biden, e sia pure con variazioni regionali senza precedenti, rimane molto basso ed è anzi andato peggiorando nel corso dell’anno.
Rimane infine la politica estera. Che meriterebbe un capitolo a parte; e verso la quale l’attenzione e l’interesse dell’opinione pubblica statunitense sono oggi piuttosto bassi. Biden ha cercato di assecondare sia la richiesta di disimpegno militare proveniente da un paese assai critico verso i fallimentari interventi statunitensi del XXI secolo sia quella di abbandonare una visione ottimistica dei processi d’integrazione globale, proteggendo l’economia statunitense e promovendo una risposta più incisiva alla sfida cinese. Anche in questo caso, però, il consenso iniziale è gradualmente evaporato e le ultime rilevazioni mostrano come un’ampia maggioranza nel paese (55 a 35) disapprovi l’operato di Biden. Pur meno rilevante rispetto al calo complessivo di popolarità del Presidente, anche la politica estera e di sicurezza insomma vi contribuisce, e dall’umiliante uscita dall’Afghanistan alla percepita incapacità di contrastare l’azione russa in Ucraina prevale l’idea che Biden sia un presidente debole e, a dispetto delle promesse, non particolarmente competente.
Il secondo anno di Biden si apre insomma in un contesto per nulla favorevole e al momento è davvero difficile immaginare un’inversione di tendenza, capace sul breve periodo di generare un recupero di consensi indispensabile al Presidente e ai democratici per evitare una pesante sconfitta elettorale in novembre.
Foto in copertina di Gage Skidimore, usata su licenza CC 2