Dopo lo stallo della pandemia di coronavirus, Hong Kong è tornata sotto i riflettori. Le strade della città sono di nuovo affollate da manifestanti che ignorano le misure di distanziamento sociale, mentre a Pechino le “due sessioni” annunciano il futuro della Cina post-pandemica. La massiccia legislatura cinese ha infatti adottato una “legge per la sicurezza nazionale” a Hong Kong: un completamento del “passaggio di consegne” del 1997, quando la città aveva lasciato il dominio britannico in favore della giurisdizione cinese. I princìpi che avevano regolato il passaggio avevano dato vita alla Legge Fondamentale – quella che è comunemente nota come la “Mini-Costituzione” di Hong Kong. Ed è proprio alla Legge Fondamentale che occorre guardare per capire cosa stia succedendo in questi giorni nella città.
In breve, l’articolo 23 della Legge Fondamentale determina che “Hong Kong dovrà per parte sua promulgare delle leggi per proibire ogni atto di tradimento, secessione, sedizione, sovversione contro il Governo Centrale del Popolo, o il furto di segreti di Stato”. Nella bozza del 1988 quest’articolo era meno preciso e indicava generalmente che la città si sarebbe dovuta fornire di una legge che punisse ogni atto di sovversione o che violasse l’unità nazionale. Tuttavia, dopo il sostegno di Hong Kong alle proteste di piazza Tienanmen, l’articolo era stato reso più preciso e restrittivo.
La città non si è però fornita di una legge in tal senso. Soltanto durante un’altra crisi sanitaria, quella di SARS del 2002-03, Tung Chee-hwa, il Capo esecutivo di allora, aveva tentato di far passare una legge sulla sicurezza nazionale, ma il mezzo milione di cittadini scesi per le strade era riuscito a bloccarla. Dopo Tung, l’articolo 23 era rimasto in sospeso e anche Carrie Lam, l’attuale Capo esecutivo, aveva pubblicamente dichiarato che tale legge avrebbe necessitato del “contesto sociale adeguato” per essere adottata.
Certo è che la pandemia di Covid-19 non ha contribuito a una distensione delle relazioni tra Hong Kong e Pechino. Sebbene avessimo lasciato i movimenti pro-democratici della città vittoriosi alle elezioni distrettuali dello scorso novembre e al graduale affievolirsi delle immense mobilitazioni, le proteste non si erano spente ma soltanto spostate dentro le istituzioni con i consiglieri neo-eletti che tentavano di sfruttare il poco potere acquisito per inserire le richieste dei manifestanti nelle agende delle riunioni distrettuali. Poi era arrivato il lockdown che aveva ridato forza alle strade tanto che gruppi piccoli e medi di cittadini avevano iniziato proteste localizzate contro i quattro corridoi di collegamento con la Cina continentale che Carrie Lam aveva deciso di tenere aperti. In pratica, si trattava di proteste volte ad ottenere un lockdown completo che non erano state ascoltate dal governo cittadino per paura di rinvigorire il “localismo”, la filosofia dietro ai movimenti di protesta più ai margini che chiedono l’autonomia della città.
Se la pandemia, quindi, ha sgretolato ancora di più le relazioni tra Hong Kong e Pechino, perché sul continente si è deciso per una mossa tanto controversa in un momento in cui il paese è già alle prese con un’economia claudicante e una società civile inquieta? Parte della risposta sta proprio nella “fragilità” della Cina post-pandemica, ora in cerca di stabilità interna per dare slancio alla ripresa.
Già le proteste del 2014 e del 2019 avevano chiarito quanto Hong Kong fosse un’area strategica per Pechino e quanto le relazioni tra le due parti fossero compromesse. In entrambi i casi gli hongkonghesi avevano protestato contro la presenza sempre più ingombrante di Pechino negli affari interni della città: nel primo caso, contro lo scrutino delle autorità centrali dei candidati alle elezioni per il governo locale; nel secondo, contro una proposta di legge sull’estradizione che avrebbe messo in pericolo le libertà politiche e civili di tutti i cittadini e soprattutto dei dissidenti che dalla Cina continentale si erano spostati nella città. La pandemia e le proteste contro il lockdown parziale si sono inserite in un più ampio processo di opposizione che è oggi vicino al culmine con questa legge per la sicurezza nazionale, ormai nelle mani del Comitato permanente per l'implementazione.
Per Pechino, Hong Kong rimane uno snodo cruciale nei progetti di sviluppo economico, finanziario e tecnologico cinese. Oltre al ruolo della città sui mercati finanziari, l’area che comprende Hong Kong e parte della provincia confinante del Guangdong, infatti, è stata designata per la creazione di un polo di innovazione alla cinese in grado di rivaleggiare con la Baia di San Francisco. E oggi per Pechino non è possibile rinunciarci, alla luce soprattutto della così ripida risalita economica che l’aspetta dopo i blocchi produttivi richiesti dall’emergenza sanitaria.
Ma seppur vantaggiosa dal punto di vista interno, la stretta su Hong Kong mette ancora più a rischio le relazioni tra la Cina e gli Stati Uniti. Dopo le proteste dello scorso anno infatti Trump aveva firmato l’Atto per la democrazia e i diritti umani a Hong Kong che, tra le altre, richiede che il Dipartimento di stato e altre agenzie nazionali conducano una revisione annuale sullo stato politico della città che determini se cambiamenti nelle relazioni tra Hong Kong e Pechino rendano obsoleti i parametri speciali che regolano le relazioni commerciali tra Hong Kong e gli Stati Uniti. Il Segretario di Stato Mike Pompeo l'ha già impugnato e tocca al Congresso ora decidere se la città sottostarà alle stesse norme che disciplinano il commercio tra Washington Pechino. Riportando un comunicato della Camera di commercio statunitense a Hong Kong alla firma dell’Atto, qualsiasi cambiamento nello stato di Hong Kong “avrebbe effetti devastanti non solo sul commercio e gli investimenti americani a Hong Kong, ma invierebbe segnali negativi a livello internazionale sulla posizione di Hong Kong nell’economia globale”. Per fare un esempio concreto, Hong Kong non è stata fino ad ora coinvolta nella guerra dei dazi tra Cina e Stati Uniti con grande vantaggio per entrambi i paesi. Se ciò dovesse cambiare, le conseguenze sul commercio bilaterale e, di conseguenza, sulle due economie non tarderebbero a farsi sentire, provocando un ulteriore “effetto a catena” su un’economia globale già indebolita dalla pandemia. E se Covid-19 ci ha insegnato qualcosa, è certamente che quello che succede dall’altra parte del mondo non è poi così lontano da noi, e questo vale ancora oggi, ancora di più per Hong Kong.