Le sfide della globalizzazione sono difficili e l’Italia è in ritardo. Ne sono una spia chiarissima i bilanci dei due dicasteri più impegnati su questo fronte, Esteri e Difesa, ambedue largamente sottocapitalizzati e in drammatico, continuo calo. Ancora nel 1999 la percentuale di spesa degli Esteri sul bilancio dello stato passava dal già modesto 0,35% allo 0,27%, soprattutto (ma non solo) a causa del crollo degli stanziamenti per l’aiuto allo sviluppo.
Mezzi inadeguati
Per la Difesa siamo ormai stabilmente assestati al di sotto dell’1% del Pil (0,9%, per le spese complessive della funzione difesa, che includono anche quelle presenti nei bilanci di altri dicasteri), ben al di sotto della media europea (1,42%), delle richieste della Nato (2%) e degli impegni assunti in sede europea. È un bilancio quasi completamente assorbito dalle spese per il personale, arrivate al 63% grazie a un aumento dello stanziamento di 750 milioni, a fronte di un decremento degli investimenti (-560 milioni) e delle spese per l’esercizio e la formazione (-440 milioni). In altre parole abbiamo Forze Armate sempre peggio armate e peggio addestrate, anche se impegnate in difficili missioni all’estero.
Questa cecità strutturale del sistema italiano si riflette anche nelle sue politiche di penetrazione commerciale. È vero che tra il 1999 e il 2008 le nostre esportazioni sono aumentate di un confortante 65% (in valore), ma strutturalmente sono anche divenute più fragili: si registra una diminuzione della competitività in ambito Ue (le esportazioni italiane nell’area Ue crescono più lentamente, passando da quasi il 64% del totale a circa il 58%), un’analoga tendenza verso gli Usa (dal 9,2% al 6,93%), un aumento ancora troppo modesto nei confronti delle economie emergenti dell’Asia orientale (solo mezzo punto, dal 5,6% al 6,1%) e ancora una diminuzione percentuale verso l’America latina (un altro mezzo punto dal 3,9% al 3,3%). In altri termini il sistema produttivo italiano non sembra ancora in grado di accrescere significativamente la sua capacità di penetrazione in direzione delle economie a più alto tasso di crescita.
Tentativi di riforma
I tentativi di reagire sono ancora modesti e probabilmente inadeguati. Gli Esteri hanno al varo un nuovo regolamento che razionalizza l’amministrazione del dicastero, cercando di potenziare la sua capacità di “fare sistema”, per coordinare o quanto meno aiutare le molteplici presenze e politiche italiane verso l’esterno e potenziarne le sinergie. Questo approccio però dovrà riuscire a coinvolgere numerose strutture private e pubbliche e superare la loro evidente riluttanza a essere in qualche modo imbrigliate e indirizzate verso uno sforzo comune, senza peraltro avere la necessaria autorità, a meno che nell’impresa non venga coinvolta appieno anche la presidenza del Consiglio: ma ciò richiederebbe una riforma molto più profonda e difficile di quella sinora abbozzata.
Allo studio è anche una nuova revisione dell’amministrazione della Difesa e, presumibilmente, dello stesso “modello di difesa”, resa certamente più difficile dalle gravi carenze di bilancio e dall’assenza di un chiaro dibattito pubblico sulle opzioni realmente aperte in questa direzione. Manca tra l’altro in Italia la volontà o la capacità di affrontare congiuntamente, almeno sul piano dell’analisi, i complessi problemi, tra loro interrelati, del settore della sicurezza e di quello della difesa, e della nuova, essenziale dimensione delle operazioni miste civili-militari, che invece stanno assumendo una rilevanza sempre maggiore a livello comune europeo e atlantico. L’Italia, paese dalle numerosissime forze di Polizia, parte da questo punto di vista teoricamente avvantaggiata, a condizione però di avere una visione strategica e operativa chiara dell’insieme delle sue capacità e delle linee comuni di evoluzione di questo settore. Una tale riflessione è invece ancora assente e porta a strane e pericolose “innovazioni” quali l’uso di forze prettamente militari per compiti di ordinaria sicurezza in uno schema che sembra più di competizione che di cooperazione e ancora meno di integrazione.
Punti fermi e nuove sfide
Dal punto di vista strategico, ogni riforma della Difesa italiana dovrebbe prendere atto degli importanti mutamenti in corso. Il 2010 vedrà la definizione del nuovo “concetto strategico” della Nato, ma sin dal 2009 si sono delineate problematiche importanti a cominciare dalla prospettiva di un futuro ritiro delle armi nucleari tattiche dal territorio europeo (inclusa l’Italia), il che riapre l’annosa questione della strategia dissuasiva dell’Alleanza e delle garanzie americane nei confronti dei paesi membri non nucleari. Allo stesso tempo si pone con urgenza la questione del nostro contributo al processo di rafforzamento della politica europea di difesa e sicurezza: con quali obiettivi e capacità?
In questo periodo di incertezza e mutamenti la politica estera italiana ha cercato per lo più di mantenere alcuni punti fermi quali il contributo al processo di integrazione europea, la partecipazione all’Alleanza Atlantica, il ruolo nelle Nazioni Unite, la presenza nel “gruppo di testa” delle maggiori potenze industrializzate. Tutti questi capisaldi sono oggi in pieno mutamento al punto da richiedere una riflessione sulla loro tenuta nel tempo o sulla loro stessa natura.
L’Italia si trova dunque a operare su un terreno privo di quei precisi e solidi punti di riferimento che tanto le erano stati preziosi nel passato. Deve prepararsi ad affrontare nuove sfide e nuovi costi. È un processo già iniziato, ma senza essere accompagnato da un vero e ampio dibattito politico interno che consenta la formazione di uno stabile consenso, premessa necessaria per una mobilitazione delle risorse necessarie.