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Commentary

IBK riapre ai tuareg: chance per la pace in Mali?

07 ottobre 2013

Una recente escalation di violenza ha investito il Mali riportando le lancette del processo di pacificazione dell’intera regione indietro di qualche luna. Dopo mesi in cui gli unici botti sono stati quelli dei festeggiamenti di libere e partecipate elezioni, nel paese è tornato a risuonare il suono freddo e metallico delle armi. In poco più di una settimana interruzione dei negoziati di pace, scontri e attentati suicidi al nord; sequestri, arresti e un’insurrezione di militari golpisti, al sud. Il tutto in concomitanza col primo viaggio fuori dal continente del neo-eletto presidente Ibrahim Boubacar Keita (IBK), impegnato in un tour mondiale al cospetto dei “salvatori della patria”, Onu e Francia in testa. 

Una catena di eventi da sciogliere come una matassa di lana per capire cosa stia succedendo oggi nel paese e nell’intero Sahel. La mera cronaca, da sola, non riesce a svelare le radici di problemi nati anni fa e che ancora attendono (invano) delle soluzioni. Primo fra tutti la cosiddetta “questione del nord”.

Alla base della ribellione tuareg scoppiata nel gennaio 2012 che ha fatto crollare il regno di Amadou Toumani Tourè (ATT) e ha portato all’occupazione di due terzi del Mali da parte di gruppi jihadisti, c’è lo sviluppo mancato delle regioni del nord. Né ATT né nessuno dei suoi predecessori hanno saputo sciogliere questo nodo fondamentale che ha originato e nutrito negli anni le istanze indipendentiste delle diverse ribellioni tuareg. Oggi, dopo la guerra francese e l’uscita di scena (apparente) dei seguaci di al-Qaeda, i negoziati previsti dall’Accordo preliminare fra governo centrale e ribelli firmato il 18 giugno in Burkina Faso  dovranno vertere soprattutto su questo punto.

Ma prima di banchettare insieme al tavolo della pace, il nuovo reggente di Bamako (IBK) e i Signori dell’Azawad  dovranno cercare di recuperare una parvenza di fiducia reciproca. Cosa tutt’altro che scontata. Il 26 settembre, infatti, i tre gruppi ribelli che ancora spadroneggiano a Kidal – il Mnla (Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad), il Hcua (Alto consiglio per l’unità dell’Azawad) e l’Maa (Movimento degli arabi dell’Azawad) – dopo aver mantenuto i patti garantendo la sicurezza delle elezioni a fine luglio , hanno improvvisamente abbandonato il dialogo con Bamako.

I giorni successivi a tale presa di posizione, Kidal è tornata a bruciare. Due attacchi a una banca presidiata dall’esercito maliano, un tentativo fallito di attentato suicida e due giorni di sparatorie in pieno centro. Senza contare l’autobomba che ha scosso Timbuctu, a sei mesi dall’ultimo attacco suicida nella città. 16 morti secondo al-Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi) che ha rivendicato l’attentato alla base militare maliana situata in pieno centro. Uno degli attentati più spettacolari dall’inizio delle ostilità a riprova del fatto che, forse, è un po’ presto per andare a stringere mani e a ringraziare l’Onu e Hollande.

Nonostante la soddisfazione sul “dossier sicurezza in Mali” espressa dalla comunità internazionale riunitasi all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a fine set-tembre, le forze jihadiste saheliane sembrano essersi riorganizzate e, approfittando delle scaramucce di Kidal, sono tornate a colpire. La guerra franco-maliana le ha di certo indebolite (sequestri di depositi d’armi e arresti di sospetti collaborazionisti continuano tutt’oggi nel nord) ma il narcojihadismo ha sette vite come i gatti.

Molti dei capi storici dei tre principali gruppi neosalafiti attivi nella regione sono scampati ai bombardamenti e alle incursioni dell’Operazione Serval. Personaggi come Mokhtar Bel Mokhtar – ex Aqmi, poi Mujao, mente dell’attentato di In Amenas e capo fondatore del nuovo gruppo “I firmatari col sangue” –, Yiad ag Ghali – capo storico delle passate ribellioni tuareg, ex ambasciatore del Mali a Riyad convertito alla jihad e fondatore di Ansar Addine (“i difensori della religione”) – e Omar Hould Hama’a – capo militare del Mujao, sono scomparsi da mesi dai radar dell’antiterrorismo mondiale.

Qualcuno sostiene che siano rifugiati con quel poco che gli rimane dei loro eserciti, mezzi e munizioni in qualche accampamento nel deserto dell’estremo nord del paese. Secondo altri, invece, sarebbero riparati in stati vicini (Niger, Chad, Libia, Tunisia, Sud Sudan?) approfittando della porosità delle frontiere regionali. L’unico capo storico “eliminato” durante la guerra è stato Abu Zeid, l’ “Emiro del Sahel”, guida militare di Aqmi in Mali e signore dei sequestri di occidentali, recentemente rimpiazzato da Said Abu Mughatil, un altro algerino. Fonti ben informate riferiscono di un incontro segreto che si sarebbe svolto il 3 settembre a Infara a 30 km dalla frontiera algerina fra una parte “oltranzista” del Mnla e Aqmi per riprendere insieme la lotta armata nel nord. Doppio gioco del Mnla o ulteriore scissione interna? Per il momento non è chiaro. 

Come se non bastasse, poi, il sud è ripiombato per due giorni nel caos risvegliando i fantasmi sopiti del colpo di stato militare di un anno e mezzo fa. Kati, base-caserma a 15 km da Bamako dei “berretti verdi” del golpista Hamadou Haya Sanogo  da cui sono partiti i tumulti che hanno rovesciato ATT il 22 marzo 2012, è tornata il fulcro dell’ingovernabilità del Mali, che si ritrova ancora una volta sotto scacco del proprio esercito. Ai primi di ottobre le proteste di un gruppo di militari scontenti per delle mancate promozioni degenera in spari, saccheggi, ammutinamento, perfino sequestro e ferimento di un colonnello vicino a Sanogo.

IBK è costretto ad anticipare il rientro da Parigi e, visibilmente seccato, si rivolge direttamente alla nazione attraverso un discorso tv in cui promette fermezza. Il celebre metodo del bastone e della carota grazie al quale, secondo alcuni analisti maliani, ha riportato una schiacciante vittoria alle presidenziali. I suoi sostenitori lo chiamano kan-kelen-tigui che in lingua locale significa “colui che ha una sola parola”. E, a onor del vero, al solenne discorso hanno fatto seguito i fatti: intervento a Kati, arresto dei militari capricciosi, disarmo della base-bunker di Sanogo, chiusura del Comitato di riforma dell’esercito, principale feudo dei golpisti, e pulizia del personale ministeriale. «La ricreazione è finita, il paese non ha bisogno dei capricci dei soldati, ma di voltare pagina» aveva detto in tv. 

Per voltare davvero pagina, però, non bastano i 3,2 miliardi di dollari promessi dal club degli “Amici del Mali” riunitisi il maggio scorso a Bruxelles. Per voltare davvero pagina si deve obbligatoriamente passare dal dialogo con i ribelli del nord. Anche in questo il ritorno di IBK a Bamako ha smosso le acque. Grazie alla mediazione della Minusma, la missione di peacekeeping dell’Onu che sta affiancando il graduale ritiro dei francesi dal Mali, i tuareg hanno liberato dalle prigioni di Kidal una trentina di ex combattenti, soprattutto giovani e giovanissimi maliani militanti del Mujao più per fame che per credo. 

Come contropartita Bamako ha rilasciato 23 separatisti tuareg. «Aspettiamo la liberazione di prigionieri più importanti prevista dagli Accordi di Ouagadougou» ha commentato scettico Mohamed Ag Intallah, uno dei quadri del Mnla a Kidal. Il ritorno al tavolo dei negoziati è stato suggellato da una dichiarazione ufficiale dei leader di Mnla, Hcua e Maa il 6 ottobre. Ripresa di un dialogo che seppur difficile appare sempre più necessario per un reale e stabile ritorno della pace nel paese. A due mesi da importanti elezioni legislative. 

Andrea de Georgio, giornalista, collabora con corriere.it e Rainews24, è corrispondente dal Mali.

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