Gli ultimi due anni non sono stati particolarmente generosi con il Continente africano.
Oltre alle crescenti difficoltà legate alla siccità e ai cambiamenti climatici, le economie e i contesti sociali hanno risentito ovviamente della pandemia del Covid-19, nelle sue numerose varianti.
Una delle conseguenze più gravi, accanto agli aspetti sanitari, è stata e continuerà ad essere per molto tempo ancora una diffusa crisi finanziaria post-Covid; la quale si traduce in una drammatica carenza di liquidità dei Paesi africani, associata a un forte indebitamento nei confronti della Cina, dell’Europa, e degli altri partner, i cosiddetti “Nuovi Attori”.
Ma in parallelo al Covid, un altro virus di natura diversa, e più specificamente politica, sta diffondendosi pericolosamente in tutto il Continente dal 2020: il colpo di Stato militare, a cui ci si era forse illusi di non dover più assistere, grazie alla graduale ma costante crescita di modelli democratici in Africa, tendenti ad affermare, seppur con alcuni limiti, le regole del buon governo.
In rapida sequenza, putsch militari si sono verificati in Mali nell’agosto del 2020, in Ciad nell’aprile del 2021, di nuovo in Mali sempre nell’aprile del 2021, in Guinea in settembre e in Sudan in ottobre dello stesso anno. Nei giorni scorsi si è aggiunto alla lista anche il Burkina Faso.
Gli esperti di Africa potrebbero far notare che comunque questo dato è esiguo se paragonato alle decine e decine di colpi di Stato degli anni 60-80, guidati da personaggi sanguinari e senza scrupoli come Mobutu Sese Seko, Idi Amin, Menghistu Hailemariam, Muammar Gheddafi, Jean Bedel Bokassa, Hissene Habrè e numerosi altri.
Ma da diversi anni non si assisteva nel Continente ad un ritorno in grande stile del putsch militare quale metodo di conquista del potere politico; e vale la pena cercare di comprendere perché mai venga rievocato oggi, dopo quasi quaranta anni, con un certo successo, il modello del generale/dittatore acclamato dal suo esercito e posto a capo delle istituzioni.
Sebbene le situazioni di partenza e le caratteristiche di Mali, Guinea, Ciad, Sudan e Burkina Faso siano senz’altro differenti, alcuni elementi li accomunano e hanno rappresentato la causa o il pretesto per la presa del potere con un colpo di forza: il disastro economico, la disoccupazione, la diffusa povertà, l’ampliarsi della minaccia terroristica, l’insoddisfazione profonda delle popolazioni per i precedenti governanti, la disaffezione verso il periodico ricorso alle elezioni, e per le mancate promesse dei leader eletti.
I militari putschisti in Sahel, spesso sostenuti almeno nelle prime fasi da manifestazioni popolari di sostegno per le vie cittadine, promettono di prendere a cuore le sorti dei rispettivi Paesi, di abolire la corruzione dilagante, di riformare le istituzioni, di sconfiggere il terrorismo jihadista, di ammodernare la burocrazia, di rivitalizzare la finanza pubblica, di creare nuovi posti di lavoro. In poche parole, di offrire a tutti un futuro migliore grazie allo stile “dirigista” e “autocratico” dei loro governi di transizione.
Transizione è in effetti la parola chiave. Consapevoli che sul piano continentale e internazionale, in genere, un colpo di Stato viene visto con una certa diffidenza e sospetto, i leader militari africani si dichiarano pronti a mantenere le redini del potere per un periodo provvisorio, dalla lunghezza tuttavia indeterminata.
Dopodiché, quando saranno completate le riforme e le ristrutturazioni dello Stato ritenute necessarie per ridare slancio politico, economico e sociale al Paese, si faranno da parte, e ripristineranno l’ordine costituzionale e la competizione elettorale fra i differenti partiti.
Che siano effettivamente disponibili e capaci di mantenere tali promesse è tutto da dimostrare, vista l’attrattiva naturale del potere, tanto più grande quanto più esso si prolunga, e considerate le complessità oggettive che si trovano a fronteggiare, non risolvibili con un tocco di bacchetta magica.
Mentre i colpi di Stato africani del secolo scorso si inserivano nel contesto storico della guerra fredda, e quindi venivano a turno sostenuti, a seconda del loro orientamento, dall’Unione Sovietica o dagli Stati Uniti, quelli odierni sembrano nascere dalla generica insoddisfazione e frustrazione della popolazione locale prima accennata, o dalle ambizioni personali di singoli ufficiali di alto rango dell’esercito, e non sembrano vantare almeno all’origine particolari sostegni internazionali.
Uno degli aspetti che anzi più colpisce gli osservatori è che i nuovi leader militari africani, una volta al potere, non paiono particolarmente preoccupati delle reazioni politiche regionali, continentali e globali, forse nella convinzione che negli attuali equilibri internazionali non ci sia granché da temere né dagli altri Stati, né dai vari organismi multilaterali, i quali possono fare ben poco nei loro confronti.
L’Unione Europea, che ha sempre posto alla base della sua cooperazione con l’Africa una parallela attenzione per il buongoverno, per lo sviluppo dei metodi democratici e per la tutela dei diritti umani nel continente, sembra spiazzata di fronte alla nuova realtà dei colpi di mano militari degli ultimi due anni.
Eppure, Bruxelles ha varie volte rimproverato nel recente passato diversi Stati africani, retti invece da governi civili, dove le regole dell’alternanza democratica e della good governance sembravano indebolirsi, come in Tanzania sotto il controverso ex Presidente John Magufuli, o in Zimbabwe ad opera del non meno contestato Presidente Emmerson Mnangagwa, o in Burundi, ai tempi dell’ex Capo di Stato Pierre Nkurunziza, e via seguitando.
Ciononostante, di fronte a violazioni dell’ordine costituzionale ben più fragorose, come un golpe dell’esercito, l’UE non pare disporre di contromisure adeguate, al di là di generiche dichiarazioni di condanna da parte dell’Alto Rappresentante per la Politica Estera a nome dei 27, o il ricorso a limitate misure restrittive individuali nei confronti di alcuni membri delle giunte militari.
In tutti i casi in questione, tranne che per il Ciad in cui i militari hanno preso il potere non per rimuovere i vecchi governanti, ma a causa della morte improvvisa sul campo di battaglia del vecchio Presidente Idriss Déby, le reazioni più incisive sono provenute dagli Stati limitrofi, dall’Ecowas (organismo economico regionale dell’Africa Occidentale), e dall’Unione Africana, organizzazione panafricana per eccellenza. Esse sono consistite sia in Dichiarazioni politiche pubbliche di forte critica nei confronti degli autori dei colpi di Stato, sia in misure sanzionatorie individuali (blocco dei conti correnti esteri, divieto di viaggiare verso altri Paesi, etc.), sia nella sospensione della membership dei Paesi “golpisti”, adottata da parte dell’organismo dell’Africa occidentale e dall’UA.
Nei confronti del Governo militare del Mali, resosi responsabile di ben due colpi di Stato consecutivi, l’Ecowas ha successivamente deciso anche severe misure sanzionatorie nei confronti del Paese, come la chiusura dei confini ed il blocco dei voli, la sospensione di una serie di transazioni commerciali, il congelamento dei conti statali maliani presso la Banca Centrale dell’Africa Occidentale, etc., tutte iniziative condivise e rafforzate dal Consiglio Pace e Sicurezza dell’Unione Africana, con un suo comunicato ufficiale del 14 gennaio 2022.
A fronte delle reazioni risolute dell’Ecowas, e dell’UA, si è quindi riscontrata una risposta tutto sommato contenuta dell’Occidente di fronte ai putsch, malgrado il suo ruolo tradizionale di difensore dei principi democratici, del buon Governo e dei diritti umani.
Si noti che non è soltanto una caratteristica dell’Unione Europea e dei suoi singoli membri, o dell’Occidente in genere, sostenere i principi costituzionali e la partecipazione democratica. Anche l’Unione Africana ne fa un punto d’onore, visto che nella sua Agenda 2063, che sintetizza le sue priorità nel prossimo quarantennio, sono esplicitamente menzionate Good Governance, Democrazia, Rispetto dei Diritti Umani, Giustizia e Stato di diritto.
Esistono anche una Dichiarazione di Lomé sui cambiamenti di Governo incostituzionali in Africa (2000), ed una Carta africana della Democrazia, delle Elezioni e del Buon Governo adottata dall’ UA nel 2012; quest’ultima, ratificata fra gli altri proprio da Ciad, Sudan, Mali, Guinea e Burkina Faso, prevede “la condanna ed il totale rifiuto dei cambiamenti incostituzionali di Governo”, e “l’adozione di sanzioni contro i metodi illegali di accesso al potere” o “la permanenza in carica delle Autorità oltre i limiti di tempo stabiliti”.
Nasce quindi spontaneo chiedersi come mai l’UE e l’Occidente non si mostrino più energici nei confronti dei golpisti africani, sulla scia della tradizione democratica ed in difesa dei diritti umani che li contraddistingue, e che ha rappresentato il marchio di fabbrica della loro collaborazione con i Paesi africani.
Negli ultimi anni, nel Continente si sono scatenate numerose attenzioni da parte dei cosiddetti Nuovi Attori, identificabili in Paesi quali la Turchia, la Russia, gli Emirati, l’Arabia Saudita, il Qatar. Anche la Cina è un poderoso attore in Africa, ma è difficile collocarla nel novero dei Nuovi Protagonisti, considerato che vi opera con successo da decenni.
Non è difficile constatare in primis che tutti i Nuovi Attori, e anche la Cina, sono dei Paesi retti da Governi “dirigisti”, che non devono fare i conti al proprio interno con rumorose opposizioni, lobby, gruppi di pressione, ONG, Comitati Parlamentari, critiche dei mezzi stampa, etc.
La seconda caratteristica di questi Nuovi Attori è che nel loro rapporto con il Continente africano sono portatori di agende nascoste (neanche troppo, per la verità), collegate alla diffusione della religione islamista di stampo wahabita (Paesi del Golfo), all’accumulazione di minerali rari in cambio di armi e mezzi militari (Turchia, Cina, Russia), ricerca di nuove terre e nuove risorse (Cina, Russia), propaganda del sistema politico dirigista quale alternativa alle democrazie di stampo occidentale (tutti i Nuovi Attori).
Proprio per la mancanza di forti opposizioni al loro interno, i Nuovi Attori possono prendere decisioni rapide, trasferire fondi e armi in maniera repentina, agire in sostanza in maniera piuttosto spregiudicata in ambito africano.
Quella che precede è una fotografia di ciò che in effetti sta capitando nella nuova corsa all’Africa, e del successo che tale modus operandi sta riscuotendo di fatto sul Continente africano; metodi innovativi e senza eccessivi scrupoli, dicevamo, con cui l’Europa e l’Occidente devono fare i conti, non senza difficoltà e contraddizioni.
Ad esempio, i leader golpisti sanno che in ambito Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, in genere Cina e Russia si oppongono a Risoluzioni, decisioni e comunicati che si configurino come un’ingerenza negli affari interni altrui, sulla base della loro convinzione che la collaborazione coi Paesi africani non debba essere condizionata da giudizi di valore sul modo di governare (cosiddetta “non condizionalità dell’aiuto”).
Sanno quindi che dal fronte dei Nuovi Attori non perverranno eccessivi problemi, e che gli sviluppi politici interni degli Stati in Africa non fanno parte delle premure primarie di questi partner. Comprendono altresì che il veto di Mosca e Pechino in CdS impedirà in tale ambito anche interventi sanzionatori dei Paesi occidentali, nel caso questi ultimi fossero intenzionati ad adottarne.
Di fronte al ripetersi di putsch militari in Paesi dell’Africa che risultano strategici sia per la loro posizione nel centro del Continente, sia per il ruolo che possono giocare per il contenimento dei flussi migratori irregolari, si pone quindi oggi un grande interrogativo in capo all’UE, agli Stati Uniti, alla Gran Bretagna e agli altri Paesi like-minded: se mantenere la barra del timone sul rispetto dei principi e dei valori che contraddistinguono la cooperazione occidentale, o mostrare un atteggiamento più pragmatico e flessibile di fronte alle derive autoritarie e militari, pur di non lasciare campo libero in quei Paesi ai Nuovi Attori.
D’altronde è vero che da parte dell’UE, dei suoi singoli Stati membri e degli Stati Uniti sono stati presi considerevoli impegni soprattutto in Sudan, ma anche in Guinea, Mali, Ciad e Burkina; e quindi è difficile accettare di perdere, per un presupposto etico e morale non avvertito dai concorrenti, gli investimenti effettuati in termini di risorse, uomini e mezzi (con speciale riferimento alle varie iniziative di formazione militare nel Sahel, e non solo).
Ma è conveniente provare a rincorrere, con metodi che non sono i nostri, i Nuovi Attori nello scramble for Africa? È opportuno rinunciare o soprassedere ai principi di buon Governo e all’attenzione sul “rule of law” che, fin dal termine della guerra fredda, ha caratterizzato gli interventi europei ed occidentali sul Continente?
È vero che, quando si tratta di politica estera, i primi interessi che meritano di essere tenuti in conto e protetti sono quelli nazionali, e che spesso essi vengono posti in secondo piano per il prevalere, in ambito europeo ed occidentale, di considerazioni di ordine etico, o in nome di principi, come quelli democratici, che possono apparire ideali ed astratti.
Eppure anche in Africa i decenni trascorsi dall’indipendenza hanno dimostrato che l’adozione di regole democratiche, ispirate all’alternanza fra schieramenti politici tramite una competizione elettorale, e al rispetto dello Stato di diritto può andare di pari passo con lo sviluppo economico e la crescita del benessere sociale. Ciò vale per Paesi come il Senegal e la Tanzania (i quali non hanno mai conosciuto un sovvertimento con la forza dell’ordine costituzionale), Ghana, Kenya, Sud Africa, Botswana, Zambia, Angola ed alcuni altri.
Inoltre, proprio nella fascia del Sahel, martoriata da attentati jihadisti, criminalità e effetti nefasti del cambiamento climatico, Stati come il Niger, la Mauritania (e fino a pochi giorni fa il Burkina Faso) cercano fra mille difficoltà di far fronte alle sfide securitarie e ambientali mantenendo il rispetto per l’ordine costituzionale e la chiamata periodica alle urne degli elettori. È comprensibile che proprio questi Paesi, in prima linea nella lotta al terrorismo saheliano pur nel mantenimento degli assetti costituzionali, si attendano da parte europea e occidentale una netta presa di distanza dai regimi militari proprio in nome di quei principi di buongoverno rispettati a caro prezzo dalle leadership di Niamey, Nouakchott, e fino al 24 gennaio u.s. di Ouagadougou.
L’attaccamento per i valori del buon Governo e della democrazia e l’impegno per la loro più ampia diffusione è nei cromosomi dell’azione esterna europea (ed in genere occidentale), non soltanto in Africa. Ma è proprio in questo Continente che esistono le opportunità più ampie per fare attecchire in maniera duratura le regole dello Stato di diritto, considerata la gioventù complessiva dei Paesi africani, indipendenti nella migliore delle ipotesi da circa sessant’anni.
Per affermare e divulgare tali valori, l’UE ha avviato un costante ed approfondito dialogo con l’Unione Africana, insieme alla quale ha organizzato e continua ad allestire seminari, incontri, conferenze, corsi di capacity building sulle buone prassi amministrative e di governo, a beneficio dei politici, dei dirigenti e dei giovani e delle donne africani. Peraltro si tratta di una attività a cui l’Italia si dedica con particolare intensità e convinzione, sia con iniziative ufficiali che con l’opera spontanea di associazioni, università, fondazioni ed ONG.
Anche i singoli Membri dell’Unione Europea, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, ed in genere gli Stati occidentali vantano esperienze rilevanti di formazione sui valori democratici e sui diritti umani in Africa.
Sulla base di queste considerazioni, e del ruolo diverso svolto in Africa dai partner europei ed occidentali rispetto ai Nuovi Attori, di fronte ai recenti putsch militari di Ciad, Mali, Sudan, Guinea e Burkina, nonché in ogni analoga situazione politica che possa verificarsi in altri Stati del Continente africano, è coerente che l’Europa e l’Occidente mantengano il buon Governo come stella polare della loro azione. Sia per solidarietà ai Paesi africani che tentano di far funzionare le regole della democrazia e della rule of law in contesti complessi, sia per non incoraggiare indirettamente ulteriori generali e colonnelli di altri eserciti a seguire l’esempio dei Paesi golpisti.
Anche su un piano strategico e di lungo periodo, per le democrazie occidentali sarà molto importante poter contare su un numero considerevole di Stati africani aderenti ai principi del buongoverno e della legalità costituzionale, in nome del nuovo partenariato fra Europa e Africa sancito dai Vertici UE-UA (il prossimo a Bruxelles a metà febbraio), tendente ad una vera alleanza politica di fronte alle sfide globali che ci attendono.
La considerazione da tenere presente è che il primo e più importante investimento che l’Occidente ha compiuto nel continente africano non è di carattere economico-finanziario o securitario; ma consiste nel tentativo di sostenere e diffondere strenuamente lo spirito e la pratica dei valori democratici e dello Stato di diritto.
Disclaimer: Le opinioni dell’autore dell’articolo sono espresse a titolo personale, e non impegnano il Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale.