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Commentary

Il califfato compie un anno, il Medio Oriente è all’anno zero

Stefano M. Torelli
29 giugno 2015

Fino a tre anni fa gli analisti e gli studiosi non avevano dubbi: le rivolte in Tunisia, Egitto, Libia, Siria e altri paesi, assurte alle cronache come le cosiddette “Primavere arabe”, erano viste come il vero punto di rottura che avrebbe ridisegnato gli equilibri regionali in maniera radicale. E, in effetti, la questione che più tiene banco oggi nel Vicino Oriente può anche essere vista come una conseguenza – più o meno diretta – di quelle rivolte. Ma, al contrario dei sentimenti che nel 2011 erano maggioritari, il nodo attuale non suscita speranze, ma scenari cupi. Con l’inarrestabile ascesa dello Stato Islamico (IS) e la proclamazione del sedicente Califfato, il Medio Oriente ha di fronte a sé – anzi, al suo interno – un nuovo ingombrante attore parastatale. Lo Stato Islamico minaccia gli stessi confini della regione mediorientale, così come erano stati definiti dopo le due guerre mondiali del secolo scorso. A distanza di un anno dalla proclamazione del Califfato, dunque, è con questo fenomeno che si devono fare i conti ed è in parte come conseguenza della sua comparsa che le potenze regionali ridisegnano le proprie alleanze e progettano le loro politiche. 

Oltre agli attori, vecchi e nuovi, che caratterizzano il nuovo grande gioco mediorientale, vi sono i teatri nei quali la competizione si manifesta. Prima di tutto l’Iraq e la Siria. A un anno dalla proclamazione del Califfato, questi due paesi non sembrano trovare tregua e, nel medio-lungo termine, si prospetta sempre più lo spettro di due paesi smembrati, i cui confini non saranno più quelli di Sykes-Picot e in cui potrebbero continuare guerre intestine ancora per anni. A cavallo tra Iraq e Siria, lo Stato Islamico controlla un territorio grande quanto il Regno Unito e, nel breve termine, non sembra essere destinato a indietreggiare. Al contrario, Baghdad e Damasco sono sempre più chiaramente al centro delle mire dei jihadisti guidati da al-Baghdadi. È in questi territori, o meglio ai loro diretti confini, che si trova il fronte centrale della guerra a IS. 

Ed è qui che gli attori regionali concentrano gran parte dei propri sforzi, seppure con un errore di fondo: l’aver perso di vista l’obiettivo principale. Se, infatti, IS dovrebbe essere – e a parole lo è – il nemico giurato di tutte le potenze regionali che ambiscano ad avere influenza sul Medio Oriente, dall’Iran all’Arabia Saudita, passando per la Turchia e lo stesso Israele, non si può dire che tali attori stiano concentrando i loro sforzi sulla lotta al Califfato. Piuttosto, sembrano tutti interessati a garantirsi uno scenario post-IS a proprio favore. L’Iran, mentre dialoga con l’Occidente per ottenere nuovamente credibilità internazionale, appoggia la resistenza sciita contro IS in Iraq e nel frattempo cerca d'influenzare il governo di Baghdad e sostiene Assad nella guerra civile siriana, sperando di poter un domani avere un controllo indiretto su tutto l’arco sciita che da Teheran arriva nel Mediterraneo orientale. Dal suo canto l’Arabia Saudita sostiene i ribelli anti-Assad in Siria, ma con il timore che lo Stato Islamico possa giovare dell’indebolimento del dittatore siriano e potenzialmente rivolgersi contro Riyadh stessa. E nel frattempo reprime le manifestazioni di islam politico più moderate, vale a dire la Fratellanza musulmana, temendo un confronto con tale forza politica, ma indirettamente favorendo l’emergere dell’islam più radicale. Per non parlare della Turchia, perennemente sospesa tra la sua posizione anti-Assad, la necessità di combattere IS e quella di non concedere un vantaggio strategico ai curdi, con l’incubo che un domani possano rivendicare i loro diritti all’indipendenza. Il dilemma tra affrontare la minaccia islamista e prevenire il revival delle aspirazioni curde nella regione e in Turchia stessa, è alla base dell’ambiguità di Ankara nel gestire tale situazione. È in questo scenario che, nonostante tutto – complice anche una comunità internazionale non in grado di fornire una risposta efficace –, IS continua a diffondere il terrore, mentre gli attori regionali si preoccupano più del futuro.

Ma il futuro è ora, e la tardiva risposta all’espansione del jihadismo in salsa Stato Islamico rischia di ripercuotersi contro altri attori e in altri teatri. È il caso della Libia, che è diventato ormai il terzo avamposto di IS, tanto più preoccupante per chi guarda gli eventi dall’altra sponda del Mediterraneo, in quanto la minaccia sembra essere sempre più vicina all’Europa. Ma è anche il caso dell’Egitto, dove il nuovo uomo forte al-Sisi ha innescato una pericolosa spirale di repressione che rischia di radicalizzare ulteriormente i gruppi afferenti all’islam politico e dove il Sinai è da due anni una terra di nessuno in cui imperversano le azioni di Ansar Bayt al-Maqdis, gruppo jihadista affiliato a IS, con possibili infiltrazioni anche nella Striscia di Gaza (e ciò inevitabilmente preoccupa direttamente anche Israele, che a sua volta, però, è più preso dal contenimento dell’espansione iraniana, che da quella di IS). Senza dimenticare altre aree come il Libano, storicamente sensibile agli stravolgimenti regionali e potenzialmente sotto minaccia dell’estremismo jihadista, vista anche la sua fragilità politico-istituzionale. Oppure la Tunisia, che nonostante stia portando avanti un faticoso progetto di democratizzazione, dal 2013 è uno dei teatri delle operazioni di gruppi radicali islamisti e che recentemente è stata testimone di una gravissima escalation di attentati anche contro obiettivi occidentali, come dimostrato dagli attacchi al Museo del Bardo dello scorso 18 marzo e quello più recente contro un hotel di Sousse, rivendicato proprio dallo Stato Islamico. 

Cosa ne è del Medio Oriente, e cosa di IS, a un anno dalla proclamazione del Califfato? Il Medio Oriente appare senza guida, se si esclude il blocco sunnita costituito da Arabia Saudita ed Egitto, i cui interessi non incontrano però quelli di lungo termine degli altri attori regionali. Ciò vuol dire che, ammesso e non concesso che la presenza di IS dal cuore del Levante venisse cancellata, immediatamente si aprirebbe una nuova lotta intestina tra le potenze regionali per il controllo – politico e simbolico – di quei territori. È tale consapevolezza che determina l’inazione nei confronti di IS. Quest’ultimo, a sua volta, in un anno ha raggiunto importanti obiettivi: controllo di un territorio vasto che gli permette in parte di autofinanziarsi; espansione globale del proprio messaggio radicale, potenzialmente fin dentro i paesi occidentali; creazione di un contesto tale per cui gli attori esterni non riescono a trovare un accordo su come combatterlo. Il graduale passaggio da movimento locale a punto di riferimento globale può forse cambiare almeno l’atteggiamento degli attori internazionali. Ma se il Medio Oriente continua a rimanere vittima dei particolarismi dei singoli paesi che lo compongono, IS continuerà a essere una presenza costante, nonostante abbia sicuramente elementi di fragilità e non sia così invincibile come appare.  

Stefano M. Torelli, ISPI Research Fellow

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Medio Oriente IS stato islamico Califfato Tunisia Egitto jihad Islam radicale
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Stefano M. Torelli
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