Il Canale di Suez compie 150 anni, ed è ancora fondamentale
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Focus
Il Canale di Suez compie 150 anni, ed è ancora fondamentale (anche per l’Italia)
Alessandro Gili
16 novembre 2019

Il 17 novembre di 150 anni fa veniva inaugurato il più lungo stretto artificiale del mondo, il Canale di Suez. Dalla sua costruzione il Canale ha avuto un’influenza decisiva negli affari regionali e globali, riportando il Mar Mediterraneo ad un ruolo strategico, affievolitosi con l’avvento degli scambi tra le due sponde dell’Atlantico e lo sviluppo dei porti del Nord Europa. Oggi, con il progetto cinese Belt and Road Initiative (BRI), il Mediterraneo ha riacquisito una nuova centralità, e Suez è tornata ad assumere un ruolo di primo piano nei flussi commerciali internazionali, in particolare dopo il suo ampliamento.

Cosa sono i chokepoints? Quali interessi geopolitici ruotano intorno a Suez? Quali prospettive per l’Italia?
 

Cosa sono i chokepoints

I chokepoints (o colli di bottiglia) sono stretti o canali artificiali di importanza globale, punti obbligati per il passaggio di merci e risorse energetiche lungo le principali rotte commerciali internazionali. Nel mondo, sono quattro quelli considerati strategici per i flussi commerciali mondiali: il Canale di Suez, il Canale di Panama, lo Stretto di Malacca e lo Stretto di Hormuz.

Le ultime stime disponibili indicano che il 90% dei flussi commerciali marittimi internazionali transita per almeno un chokepoint, tra cui il 61% dei flussi del petrolio mondiale. La situazione non differisce significativamente se si considerano gli approvvigionamenti alimentari: negli ultimi vent’anni la quota di grano e fertilizzanti commercializzati a livello mondiale transitante per almeno un chokepoint marittimo è passata dal 43 al 54%. Una quota significativa di tale commercio (10% nel 2019, dal 6% del 2000) dipende ora dal transito attraverso uno o più chokepoints come unica via di approvvigionamento disponibile. Snodi tanto strategici quanto vulnerabili essendo collocati in zone caratterizzate da una forte instabilità politica.

 

La geopolitica del Canale di Suez: Belt and Road e non solo

“Il Canale marittimo di Suez sarà sempre libero ed aperto, in tempo di guerra come in tempo di pace, ad ogni nave mercantile o da guerra, senza distinzione di bandiera. Esso non sarà mai soggetto all’esercizio del diritto di blocco”. Il primo articolo della Convenzione di Costantinopoli dell’ottobre 1888 rimane forse l’esempio più chiaro della percezione di strategicità del Canale di Suez e del suo ruolo fondamentale nei flussi commerciali e per la proiezione strategica delle maggiori potenze. Nodo fondamentale, chokepoint nel controllo delle maggiori rotte commerciali, il Canale ha attratto nel corso della sua storia gli interessi delle maggiori potenze, a partire dall’influenza anglo-francese nel corso della prima metà del Novecento per finire, in epoca contemporanea, nel grande gioco dei disegni commerciali, infrastrutturali e di potenza della Cina e non solo. Oggi, a distanza di 150 anni dalla sua costruzione, il Canale rimane una delle arterie fondamentali della globalizzazione e ha anzi acquisito una nuova centralità nel quadro della BRI, che ha nel passaggio attraverso Suez una tappa obbligata della rotta commerciale da Pechino all’Europa e viceversa. Secondo gli ultimi dati del Rapporto Italian Maritime Economy del 2019, nel corso del 2018 attraverso il Canale di Suez è transitato il 9% del traffico commerciale mondiale, con una crescita del 3,6% del numero di navi rispetto all’anno precedente e di addirittura l’8,2% del volume di cargo trasportato; tendenza confermata nei primi cinque mesi del 2019, con una crescita rispettivamente del 5,2% e 7,4% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il petrolio e il gas, risorse essenziali nel mix energetico dei paesi europei, seguono il trend generale: nel 2018 il traffico attraverso il Canale ha rappresentato il 9% dei flussi marittimi mondiali di greggio e l’8% del gas liquido. 

Il raddoppio di una parte del Canale, completato nel 2015 e costato 8 miliardi di dollari, costituisce una pietra miliare nel disegno cinese della Via della Seta Marittima. Dopo l’allargamento, infatti, il tempo di percorrenza del Canale è passato da 18 ad 11 ore e il numero di navi che transitano ogni giorno è aumentato da 49 a 97, incrementando ulteriormente l’attrattività per le rotte commerciali tra Asia ed Europa. La Cina ha ben compreso le opportunità derivanti dall’ampliamento e, a partire dalla nascita della Belt and Road Initiative, ha investito ingentemente in Egitto: tra il 2014 e il 2019, Pechino ha destinato al paese africano 16,36 miliardi di dollari, il secondo valore più alto nel Mediterraneo dopo l’Italia. L’Egitto è stato infatti scelto da Pechino come hub logistico privilegiato per tutta la regione del Mediterraneo orientale: in questa direzione si inserisce l’accordo siglato nell’agosto 2019 alla presenza del presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi per la costruzione ad Abu Qir di un importante terminal che potrà gestire sino a 1 milione di container. Sono presenti inoltre ingenti investimenti nella zona economica esclusiva del Canale di Suez (SCZone). Nel 2013, la cinese TEDA Corporation aveva infatti firmato un accordo di sviluppo della SCZone per un periodo di 45 anni: nel solo 2019 sono stati annunciati investimenti per oltre 5 miliardi di dollari. A Port Said la cinese COSCO detiene inoltre il 20% della Suez Canal Container Terminal, partecipando ai progetti di espansione e potenziamento, in particolare nel settore del transhipment. Pechino è interessata non solo alle infrastrutture portuali, ma si è impegnata in importanti investimenti in vari settori dell’economia egiziana: dall’energia alla costruzione di una nuova capitale amministrativa ad est del Cairo. Quest’ultimo progetto vale da solo 58 miliardi di dollari (4,5 provenienti da Pechino), con lavori realizzati in particolare dalla China State Construction Engineering Corporation (CSCEC). La Cina, attraverso Exim Bank, si è impegnata inoltre nella realizzazione del collegamento ferroviario tra Il Cairo e la nuova capitale, con un prestito pari a 1,2 miliardi di dollari. Come prevedibile, i crescenti legami in termini di investimento si sono tradotti in un costante incremento dei flussi commerciali: nel 2018, l’interscambio tra i due paesi è stato pari a 13,8 miliardi di dollari, in aumento del 27,8% rispetto all’anno precedente.

 

 

Nel grande gioco mediterraneo non c’è solo la Cina. Tra i nuovi attori più dinamici si segnala recentemente l’attivismo russo. Dal 2014, Mosca si è impegnata nella costruzione di una Russian Industrial Zone nella zona del Canale, che si dovrebbe concludere tra il 2020 e il 2021. Il progetto prevede investimenti per circa 7 miliardi di dollari, con a regime circa 25 aziende che porterebbero nell’area una produzione pari a 3,6 miliardi di dollari l’anno. La Russia ha interessi molteplici in Egitto e la sua zona economica permetterebbe innanzitutto ai propri esportatori e fornitori di localizzare siti produttivi nelle immediate vicinanze dei mercati del Medio oriente e dell’Africa. Inoltre, Mosca sta incoraggiando altri paesi della Eurasian Economic Union (EAEU) a contribuire alla Russian Industrial Zone, con la Bielorussia che ha già comunicato l’intenzione di parteciparvi. La creazione della zona russa si inserisce in un quadro più ampio di forti relazioni economiche e strategiche tra i due paesi: dalla costruzione di centrali nucleari in Egitto da parte di aziende russe alla modernizzazione del sistema industriale e ferroviario del paese; dalle negoziazioni per un accordo di libero scambio tra EAEU ed Egitto alla crescente cooperazione tecnica e militare, che si è tradotta in forniture russe di elicotteri e aerei da guerra e sistemi di difesa missilistica.

 

E per l’Italia?

Il Canale di Suez, sin dalla sua apertura, ha rappresentato per l’Italia un importante strumento di proiezione strategica ed economica, via obbligata per le relazioni commerciali con l’Africa orientale, il Vicino e Lontano Oriente. Si calcola che oggi, su 93,8 milioni di tonnellate di merci trasportate da e verso l’Italia, 30,6 milioni hanno nel Canale di Suez il loro corridoio privilegiato. È l’ampliamento del Canale che oggi offre a Roma le opportunità più interessanti: il raddoppio permette, secondo recenti stime, la possibilità di incrementare in misura significativa i flussi verso i porti italiani. In particolare, il numero di container potrebbe aumentare di 170.000 unità, e i minori tempi di transito e sosta lungo il canale grazie al potenziamento permetterebbero un risparmio di circa 180 milioni di euro per l’intero comparto logistico italiano.

Nel corso degli ultimi vent’anni l’Italia ha però perso una parte consistente del proprio peso strategico e commerciale nel Mediterraneo. Tra il 2007 e il 2017, infatti, la quota di flussi commerciali nel Mediterraneo intercettati dall’Italia sono passati dal 12,2 al 10,1%, in un periodo in cui i traffici nel Mare Nostrum sono invece aumentati del 30%. Tra le cause principali, va menzionato il crescente ruolo dei porti spagnoli, del Pireo in Grecia e soprattutto del Nord Africa e del Mediterraneo orientale, più competitivi a livello di costi, nonché la creazione in questi paesi di numerose zone economiche speciali (ZES), strumenti fondamentali per attrarre le merci. Una situazione confermata dalla forte riduzione, tra il 2004 e il 2018, del gap competitivo tra i porti del Nord e del Sud del Mediterraneo. Il trend potrebbe tuttavia invertirsi. L’istituzione di nuove ZES in Italia e soprattutto la scelta della penisola quale punto finale del corridoio marittimo della BRI cambiano le prospettive economiche e strategiche per il nostro paese, sia come terminale logistico delle esportazioni cinesi verso l’Europa che come piattaforma di accesso per l’intero sistema produttivo nazionale al vasto mercato cinese. In questa direzione si inserisce il Memorandum d’intesa firmato a Pechino nel novembre 2019 tra l'Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Orientale e la China Communications Construction Company (CCCC), che istituisce una partnership per la creazione di aree industriali sino-italiane in Cina, collegate al porto di Trieste e al sistema logistico italiano, con possibili ripercussioni positive per le esportazioni.

Se i porti del nord Italia sono i “gate” di accesso ai mercati del Centro Europa, quelli meridionali, con la loro posizione privilegiata al centro del Mediterraneo, potrebbero essere la naturale porta d’accesso al mercato italiano (in particolare centro-meridionale) e fungere da anello di connessione tra Suez e l’Europa. Non solo: i porti del Sud sono infatti funzionali alla strategia delle Autostrade del Mare (MoS) e centrali nel quadro delle previste Trans-Mediterranean Transport Network (TMN-T), prolungamento delle TEN-T. Tale strumento dell’UE appare sempre più essenziale per supportare lo sviluppo di catene logistiche efficienti nel sistema Mediterraneo, creare sinergie tra sponda nord e sponda sud e trasformare la competizione esistente in una efficace cooperazione. Tuttavia, i porti meridionali rischiano di andare incontro ad una progressiva marginalizzazione, a causa delle permanenti criticità logistiche e nei collegamenti stradali e ferroviari con il resto del Paese, nonché ai fenomeni di deindustrializzazione che si sono moltiplicati nel Mezzogiorno nel corso dell’ultimo decennio. La creazione delle previste nuove zone economiche speciali nel Sud Italia potrebbe tuttavia favorire l’attrazione di nuovi investimenti industriali e logistici, migliorando ed incrementando i traffici. Un insieme di sfide ma anche di opportunità per l’intero Paese, che avranno ricadute positive solo se l’Italia sarà in grado di rafforzare la propria dotazione infrastrutturale e creare – attraverso raccordi ferroviari e stradali con i principali porti del Paese e adeguati servizi di logistica nelle aree retro portuali – una capacità operativa che, in termini di costi e tempi, sia in grado di competere con quella dei principali partner europei e del Mediterraneo.

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Tags

Geoeconomia infrastrutture Africa
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AUTORI

Alessandro Gili
ISPI, Osservatorio infrastrutture

Questo Focus è stato pubblicato nell’ambito di un progetto di ricerca sulla dimensione geopolitica degli investimenti infrastrutturali realizzato anche grazie al sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. 

Le opinioni espresse dagli autori sono strettamente personali e non riflettono necessariamente quelle dell'ISPI o del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.

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