Del nostro passato coloniale restano tracce nella toponomastica di quasi tutti i centri abitati italiani, quotidianamente attraversati nell’inconsapevolezza della memoria che avevano preteso fissare e anche nel vocabolario, dove un lemma assai popolare è “ambaradam” (o “ambaradan”). Sta ad indicare confusione/baraonda, ma pochi sanno che è la crasi di “Amba Aradam”, il nome del massiccio montuoso dove nel 1936, per stroncare la resistenza etiopica all’invasione italiana, il nostro esercito fece uso massiccio di bombe all’iprite e granate all’arsina, in violazione della Convenzione di Ginevra. Ne risultò un massacro.
Il termine entrò nel lessico dei reduci di quella battaglia. Non così la memoria dell’uso dei gas.
A lungo negata, sarebbero occorsi sessant’anni, diverse interpellanze parlamentari e una trentennale polemica - che nel 1995 vedeva coinvolta l’intera la stampa nazionale attorno al dibattito tra lo storico Angelo Del Boca e Indro Montanelli - perché il governo italiano facesse ufficialmente luce nel 1996, per bocca di uno dei suoi ministri, il generale Domenico Corcione, su un aspetto non secondario della storia coloniale del Paese, quello legato all’uso dei gas.
Il confronto con il proprio passato nazionale non è mai operazione facile, ma l’Italia - dove la ‘costruzione della nazione’ e dell’immagine di sé, deriva molti dei suoi caratteri dalla vicenda coloniale - mostra ancora oggi di ignorare la propria storia d’oltremare.
Se storiograficamente grandi progressi negli ultimi anni sono stati compiuti, non così è stato sul piano politico e sociale, dove molti degli avvenimenti e delle questioni del passato nazionale hanno continuato ad essere rimossi, cancellati o edulcorati. E per quanto sia difficile sostenere che si sia trattato di un’operazione organizzata o coordinata, pure si è assistito, da un lato, a tentativi di rivalutazione della vicenda coloniale e, dall’altro, ad uno sforzo di ostinata omissione, di rimozione, quando non di aperta negazione delle sue pagine più buie. Un’operazione che ha attraversato tutte le stagioni politiche della Repubblica. A partire dall’immediato dopoguerra quando, fallita la battaglia diplomatica di rivendicazione dei ‘diritti coloniali’ per la ‘restituzione’ delle colonie perse con il secondo conflitto mondiale, e alla vigilia dello smantellamento del Ministero dell’Africa Italiana, che ormai non aveva più ragione d’esistere, il governo affidava nel 1952, con un decreto interministeriale, l’opera di documentazione e di valutazione dell’attività coloniale italiana ad un gruppo di ventiquattro personalità che risultavano essere, con un’unica eccezione, ex governatori e funzionari coloniali o ‘africanisti’ di indiscussa fede colonialista.
Il «Comitato per la documentazione dell’opera dell’Italia in Africa» produsse negli anni un’opera monumentale, 40 volumi dal titolo L’Italia in Africa, sostanzialmente agiografica e omissiva, che nell’Italia repubblicana avrebbe segnato pesantemente la trasmissione del sapere sulla vicenda coloniale.
La documentazione utilizzata, severamente segnata da ammanchi e confusione, veniva restituita dopo decenni alla ricerca, ma quest’ultima risultava comunque impedita dalla chiusura degli archivi coloniali fino agli anni Ottanta del Novecento.
Nemmeno giovarono al disancoraggio da narrazioni sostanzialmente autocelebrative le ambiguità e i limiti che segnarono il passaggio dal regime fascista alla repubblica. Primi fra tutti l’assenza di processi, al termine della Seconda guerra mondiale, ai criminali di guerra (le richieste di estradizione avanzate dall’Etiopia rimasero inascoltate) e la mancata defascistizzazione delle amministrazioni dello Stato, inclusa l’università, dove l’avvicendamento tra storici coloniali e storici del colonialismo iniziò solo a partire dalla metà degli anni Settanta del Novecento, così che il rinnovamento degli studi, degli insegnamenti, come dei testi universitari e dei manuali scolastici, rispose, negli anni successivi, a ragioni anagrafiche prima ancora che scientifico-epistemologiche.
Sostanzialmente impermeabile ai progressi e agli approfondimenti degli studi storici, non ha seguito gli stessi percorsi e lo stesso sviluppo il campo della divulgazione e della pubblicistica ancorato, in modo più o meno esplicito, al mito della diversità e della bontà del nostro colonialismo: topos fra i più tenacemente evocati, promosso sin dall’inizio della nostra espansione d’oltremare, che veniva associata alle imprese romane, colonizzatrici ma portatrici di civiltà, e ad una idea di “civiltà del lavoro” che nella figura del soldato ricomprendeva quella del colono. Più che un’aggressione imperialistica, quella italiana diventava così l’impresa di miti contadini mossi da spinte demografiche. Il mito della bonarietà del colonialismo italiano traeva nuovo alimento dall’anomala conclusione della nostra presenza in Africa, consumata senza dover affrontare confronti, né armati né negoziati, con i popoli soggetti al nostro dominio. La perdita delle colonie per decisione internazionale, come conseguenza della sconfitta subita nella Seconda guerra mondiale, ha permesso al Paese di non doversi confrontare, negli anni della decolonizzazione, con il proprio passato coloniale, rafforzando così una narrazione e una “mitologia” che continua ad esser parte di una cultura diffusa e di una solida autorappresentazione collettiva. Soprattutto tenacemente difesa dallo Stato, fino al limite dell’abuso pubblico della storia, operato attraverso operazioni censorie o ricostruzioni apologetiche che, negli anni, hanno interessato il campo dei mass media, in particolare quello del cinema e, a volte, anche quello storiografico. E’ il caso della censura che ha colpito il film Il leone del deserto (1981), il documentario della BBC Fascist Legacy (1989) e che non ha risparmiato, più recentemente, nemmeno l’accordo di cooperazione italo-libico (1998) sulla vicenda dei deportati libici in Italia, in cui la locuzione «deportati» è stata sostituita dall’espressione «allontanati coercitivamente dalla loro Patria e dai loro familiari».
Grande pubblicità ha goduto al contrario, nel 2004, una diversa iniziativa, una mostra, organizzata da autorevoli esponenti del governo, che ha proposto una rilettura del passato coloniale in chiave vistosamente autocelebrativa e revanscista.
Ospitata al Vittoriano di Roma, un luogo di grande peso simbolico per le celebrazioni nazionali, e intitolata «L’epopea degli ascari eritrei. Volontari eritrei nelle forze armate italiane 1889-1941», la mostra riproponeva temi e immagini propri della propaganda del periodo coloniale fascista, che nel soldato indigeno che combatte per l’autorità coloniale italiana celebrava la prova più alta del valore e della forza civilizzatrice italiana. Basata su ricostruzioni fuorvianti e su pesanti omissioni, la mostra rimetteva acriticamente in circolo, per un pubblico che poco o nulla sapeva del passato coloniale italiano, assieme alla retorica dell’epoca, uno dei miti più utilizzati dal regime fascista per organizzare il consenso intoro alle imprese coloniali e scrivere una delle più riuscite pagine di autoaffermazione di sé: il mito dell’ascaro subordinato e fedele ad una dominazione che la mostra presentava come «benevola e protettiva».
La riapertura della pagina coloniale operata dalla destra finiva col rappresentare anche un’iniziativa politicamente avventata e soprattutto inopportuna, dal momento che la mostra veniva inaugurata a luglio dello stesso anno ad Asmara, proponendo l’immagine di un’Eritrea ‘ascarizzata’ proprio all’indomani del sanguinoso conflitto fratricida tra l’Etiopia e l’Eritrea (1998-2000); un conflitto in cui la rivisitazione del passato coloniale aveva rappresentato uno dei fronti di una guerra che si era combattuta anche “a parole”, sul web, attraverso una reciproca e rancorosa riutilizzazione di opposte memorie collettive.
L’ignoranza del passato e una memoria distorta delle vicende coloniali hanno avuto non poche conseguenze sul piano politico-diplomatico, segnando e indirizzando la politica italiana verso le ex colonie in più di un’occasione, come nel caso, per limitarci alla sola Etiopia, dell’assenza, nonostante le promesse, di rappresentanti del governo italiano alle celebrazioni del centenario della battaglia di Adua, nel 1996, e in quello della restituzione dell’obelisco di Axum, che in occasione del centenario l’Etiopia sperava di riavere.
L’obelisco era stato portato a Roma come bottino di guerra nel 1937, per la celebrazione del primo anniversario della creazione dell’Impero e della conquista dell’Etiopia e dei quindici anni della Marcia su Roma. L’impegno alla sua restituzione era stato sottoscritto dall’Italia nel 1947, con la firma del trattato di pace, ma quell’obbligo giuridico si sarebbe trasformato in una trattativa lunga e snervante, condita da prolungate amnesie, pubbliche promesse e violente opposizioni alla restituzione.
Sarebbe stato il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, in visita in Etiopia nel novembre 1997, a impegnarsi per la sua restituzione. La visita di Scalfaro, tesa a rilanciare il ruolo politico-diplomatico dell’Italia nella regione del Corno, rappresentò la prima visita di un capo di Stato italiano in Etiopia dal dopoguerra. In occasione di quel viaggio, per la prima volta, un’autorità italiana condannava con parole chiare e inequivocabili, davanti al parlamento etiopico, la «guerra di aggressione» fascista all’Etiopia. Eppure la gran parte dei lettori dei quotidiani italiani avrebbero appreso altro dai titoli dei maggiori quotidiani, che riservarono un’enfasi maggiore al richiamo, ancora una volta rassicurante ed elogiativo, delle benemerenze e delle virtù italiche in terra etiopica.
La stele di Axum sarebbe tornata in Etiopia, tra mille polemiche, nel 2005.
Nonostante varie proposte per riempire il vuoto che aveva lasciato in piazza Capena, dove aveva svettato per 68 anni, nessun monumento l’ha sinora sostituita. In compenso, nel generale assopimento delle coscienze e delle consapevolezze storiche, e nel silenzio generale, l’11 agosto 2012 veniva inaugurato ad Affile, un comune a qualche chilometro da Roma, un sacrario dedicato al generale Rodolfo Graziani, responsabile di una numerosa serie di crimini contro l’umanità, che la Libia e soprattutto l’Etiopia ancora oggi ricordano come “il macellaio”. Molto prima che in Italia, l’iniziativa sollevava proteste a New York e servizi da parte della BBC in Gran Bretagna e di El Pais in Spagna.