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Gruppo di Visegrad
Il coronavirus in Europa centrale: la partita parallela dei no-euro
Matteo Tacconi
07 maggio 2020

Per gli stati entrati nell’Unione europea dal 2004 a oggi, tredici in tutto di cui dieci situati oltre la cortina di ferro durante la Guerra fredda, l’introduzione dell’Euro è un obbligo. Lo stabiliscono i trattati di adesione, pur senza fissare date. Slovacchia, Slovenia, i baltici, Cipro e Malta hanno compiuto questo passo. Polonia e Repubblica Ceca, Ungheria, Romania, Bulgaria e Croazia non ancora.

Il ritardo si spiega in due modi. Da un lato, la crisi del debito che dieci anni fa ha colpito l’Europa, affossando diverse economie dell’Eurozona, ha consigliato cautela. Dall’altro, molti di questi paesi vogliono recuperare identità nazionale dopo un Novecento tragico. Cedere sovranità è faticoso, farlo in ambito monetario è un salto che fa paura.

C’è un conto da pagare, però, restando fuori dall’Euro, motore principale per quanto imperfetto della macchina comunitaria. Il bazooka della Banca centrale europea è una coperta che non riparerà Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria, per restringere il campo ai tre paesi no-Euro più influenti. Sono la prima, la seconda e la quarta economia della “nuova Europa”, ma anche un polo di critica al modello liberale. Budapest e Varsavia lo contestano con più sfrontatezza rispetto a Praga. Dipende anche dal fatto che il premier ungherse Viktor Orbán e Jarosław Kaczyński, l’eminenza grigia di Varsavia, governano da soli, mentre Andrej Babiš, in Repubblica Ceca, guida un governo di coalizione, quindi è soggetto al limite del compromesso.

Per contenere l’arretramento economico e impostare la ripresa questo terzetto dovrà cavarsela principalmente più degli altri con risorse proprie. La Polonia ha messo in campo un pacchetto di aiuti ponderoso, pari circa a 80 miliardi di Euro, il 15% del suo Pil. In Ungheria e Repubblica Ceca potrebbe arrivare persino al 20%. Si può azionare anche la leva dei tassi: Praga e Varsavia li hanno già tagliati.

A ogni modo non basterà. Si guarda dunque al bilancio comunitario 2021-2027: la grande torta dei fondi strutturali, benzina fondamentale per questi paesi. La Polonia è la prima beneficiaria. La sua quota nel 2014-2020 è stata di 89 miliardi di Euro, un sesto del valore totale del Pil nel 2018. Ungheria e Repubblica Ceca hanno avuto rispettivamente 25 e 24 miliardi.

I primi negoziati sul bilancio 2021-2027, tenutisi a febbraio, sono naufragati. Il gruppo dei “frugali”, Austria, Danimarca, Svezia e Olanda, non ha voluto portarlo sopra l’asticella dell’1% della somma dei Pil dei paesi membri. La Commissione, dato il progredire della pandemia, vorrebbe rendere il bilancio funzionale al recupero economico, e se possibile aumentare la dote fino al 2% del Pil continentale, agganciandolo al Recovery Fund da 500 miliardi di Euro circa. Polonia e resto dell’Est temono che nella redistribuzione peserà anche il numero dei contagi e delle vittime, e i loro dati sono nettamente inferiori a quelli dell’Europa pre-allargamento.

In un recente intervento, pubblicato da Repubblica, il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki ha chiesto un bilancio ambizioso, oltre a una seria lotta all’evasione dell’Iva per colpire i paradisi fiscali e impedire “che siano i più deboli a pagare il prezzo della crisi, chiudendo un occhio sugli illeciti dei potenti di questo mondo”. Probabilmente Morawiecki alludeva all’Olanda, che in queste settimane non gode né di buona reputazione né di buona stampa in Italia, suggerendo in sede di negoziati per il bilancio un’alleanza sud-est. Schema al quale Budapest e Praga potrebbero adeguarsi.

Ma c’è un’incognita: lo stato di diritto. Già da tempo si parla di vincolare i fondi strutturali agli standard democratici, e su questo versante l’Europa Centrale è l’osservata speciale. L’Ungheria di Orbán è spesso al centro delle cronache per la sua torsione illiberale. La Polonia di Morawiecki e Kaczyński ha varato in q questi anni una serie di misure sulla giustizia che per Bruxelles hanno falsato l’armonia tra i poteri. Praga non è arrivata a strappi così netti, ma i conflitti d’interessi di Babiš e le posizioni filo-russe e filo-cinesi del presidente Miloš Zeman suscitano un po’ di preoccupazione.

In queste settimane di pandemia nello spazio Visegrád ci sono stati passi ambigui. Orbán ha sospeso il parlamento attribuendosi il diritto di governare per decreto. Kaczyński, malgrado la crisi sanitaria, ha cercato in ogni modo di non rimandare le presidenziali del 10 maggio, che vedevano Andrzej Duda, presidente organico al governo, favorito dai sondaggi. Sarebbe stato eventualmente un voto per posta. La cosa assurda è che il governo, pur senza che la legge su questo rito alternativo fosse approvata dal Parlamento, aveva messo al lavoro per Poste per organizzare la tornata: un abuso di forza non da poco. Solo nella serata del 6 maggio Kaczyński, constatate le difficoltà logistiche e un certo fastidio nel Paese, ha rinunciato al suo piano. A tutto ciò si aggiunge l’obbligo, comunicato nei giorni scorsi dalla Corte di giustizia dell’Ue, di annullare una delle varie leggi “anti-giudici” di questi anni e la successiva procedura d’infrazione aperta dalla Commissione nei confronti di Varsavia. A Praga c’è meno rumore, ma ha fatto comunque discutere un documento della difesa per accentrare il potere nella figura del primo ministro, se si configurasse il peggiore degli scenari.

Dati questi sviluppi, i grandi d’Europa potrebbero seriamente considerare l’ipotesi di tagliare in parte i flussi verso la nuova Europa, almeno quelli per Budapest e Varsavia. Non verranno toccati però quelli erogati attraverso il Coronavirus Response Investment Initiative (Crii), proposto dalla Commissione e già approvato dal Consiglio. Sono fondi strutturali e di coesione non spesi, liberati per far fronte alle spese impreviste causate dal coronavirus. L’Ungheria ha ricevuto 5,6 miliardi di euro, sui 37 totali disponibili: più dell’Italia (2,3 miliardi). Il paradosso è che il bonus è giunto lo stesso giorno in cui Orbán si è attribuito i pieni poteri. Non c’erano molte alternative, a dire il vero. Bruxelles ha precisato che la mobilitazione delle risorse segue lo schema della ripartizione attuale dei fondi. È dunque naturale che l’Est ottenga più dell’Ovest. Inserire una condizionalità sullo stato di diritto avrebbe significato attivare negoziati e bloccare di fatto lo stanziamento, comunque risibile a fronte del volume del bilancio comunitario, che sarà di almeno 1000 miliardi. E su questa torta, volendo, c’è ancora tempo per introdurre clausole penalizzanti su chi non ha cura dello stato di diritto. Operazione a ogni modo rischiosa: il fossato sull’asse est-ovest potrebbe farsi molto profondo, con conseguenze imprevedibili a livello politico come economico. L’Europa Centrale è infatti un’area strategica per le imprese dell’Europa occidentale, a partire da quelle della Germania. La proiezione italiana è tra le più considerevoli. I fondi strutturali sono un’enorme occasione anche per gli investitori.

Intanto, Orbán, Kaczyński e Babiš stanno contestando Bruxelles per la scarsa solidarietà dimostrata nei confronti dei loro paesi. Una postura che può tornare utile sia in chiave di negoziati per il bilancio, sia per il consenso interno. Male che vadano i primi, ci sarà senz’altro qualcuno da incolpare. Sempre e comunque dalle retrovie.

I populisti di Visegrád vogliono un’Europa minima. Sì allo spostamento di risorse e al mercato comune; no a nuove forme di integrazione e a istituzioni più incisive. Pretendono voce in capitolo, ma sono fuori dall’Eurozona, dunque la loro capacità di contare – e proteggersi dagli shock – diminuisce. Questa crisi mette a nudo, ancora di più, se possibile, il dilemma dell’Europa centrale.

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AUTORI

Matteo Tacconi
Giornalista

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