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Commentary
Il dibattito politico iraniano all'ombra dell'accordo sul nucleare
Giorgia Perletta
30 maggio 2018

Il destino dell’Accordo sul nucleare iraniano (JCPOA) è appeso a un filo o, per meglio dire, alla volontà politica europea di resistere alle pressioni politiche statunitensi. Altresì, è il governo Rouhani a dover resistere, e non solo alle sanzioni secondarie la cui prossima reintroduzione spaventa l’economia iraniana (e gli investitori europei), ma soprattutto alle accuse interne che muovono il dibattito politico.

Il JCPOA, oggi come già in passato, si trova ad essere il palcoscenico dello scontro politico iraniano, dietro cui si snodano gli interessi particolaristici delle singole fazioni. Nulla di nuovo. La politica estera della Repubblica Islamica è sempre stata una proiezione delle dinamiche interne, e le voci che si elevano sul destino (e sulla natura stessa) dell'accordo riflettono, di fatto, il proverbiale fazionalismo interno. A livello internazionale è ben nota la versione ufficiale del governo Rouhani, che ha affidato la sua sopravvivenza e legittimità politiche al raggiungimento (e auspicabile mantenimento) dell’accordo con i P5+1. Il ministro degli Esteri Mohammad Zarif lo definiva un "raro trionfo della diplomazia sul confronto", un messaggio che, tra le righe, affermava la postura moderata e dialogante del governo in carica, e che implicitamente collocava nel "girone dei belligeranti" coloro che si opponevano al JCPOA. All’interno della Repubblica Islamica, infatti, le accuse rivolte a Rouhani tendono a strumentalizzare lo storico sentimento di sospetto e sfiducia verso gli Stati Uniti, la cui rinnovata postura intransigente nei confronti di Teheran ha fornito il pretesto per attaccare il presidente della Repubblica. Per quanto nota la polarizzazione esistente sul valore dell’accordo, che si staglia come la punta di un iceberg dell’intero operato del governo, un pluralismo di voci sta animando il dibattito politico e la loro comprensione risulta determinante soprattutto per individuare la complessità delle sorgenti di accusa.

L’accusa principale rivolta a Rouhani e al suo team negoziale si snoda su diversi piani, ma converge nell'implicare la disfunzionalità del governo in carica dietro il presunto fallimento (per alcune voci politiche già dichiarato) del JCPOA. Nella fattispecie, il prevedibile ritiro di Washington dall'accordo ha fatto nascere dubbi significativi sulla necessità di rimanere fedeli a un patto le cui condizioni non sono "mai entrate in vigore pienamente". Per l’ayatollah Ahmad Jannati, noto per la postura politica militante e intransigente alle aperture, il presidente della Repubblica avrebbe valicato la "linea rossa" imposta dalla Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei. Sulla stessa linea si è espresso anche l'akhund (traducibile con il più generico "chierico") ultraconservatore che guida la preghiera del venerdì nella città di Mashhad, Ahmad Alam al-Hoda, che ha accusato il presidente di "non rispettare il volere esplicito della Guida". Prese di posizione del tutto pretestuose, considerando che proprio il Rahbar ha reso possibile, più o meno indirettamente, la realizzazione dell’accordo, sebbene a livello retorico non abbia mai nascosto i suoi sospetti verso il nemico d’oltreoceano (o come spesso ricorre nella retorica iraniana, con una certa nostalgia dell’enfasi rivoluzionaria, il grande Satana).

Dopo aver affermato la dipendenza europea dalle decisioni statunitensi, il comandante delle Guardie della Rivoluzione, il Generale Mohammad Ali Jafari, ha ribadito la piena indipendenza dello sviluppo economico nazionale nonostante decenni di sanzioni. Un messaggio che lascia intendere come la "resistenza" del Paese "dall’arroganza statunitense" sarà pieno merito degli apparati militari, in contrapposizione con i circoli politici dell’esecutivo che mirano a preservare il dialogo con l’Europa. Alcuni membri del parlamento, invece, hanno accusato il governo per non aver richiesto maggiori garanzie sulla rimozione delle sanzioni, spostando il piano d'accusa a livello economico, più che meramente politico. E sul piano economico, si è anche pronunciato l’ex presidente della Repubblica, Mahmud Ahmadinejad, la cui parabola politica è stata trascurata dai riflettori internazionali ma continua ad essere estremamente significativa nel contesto politico iraniano. In un discorso pubblico titolato: "Barjaam (il nome con cui ci si riferisce al JCPOA), passato, presente e futuro", Ahmadinejad accusa il governo di essere concentrato ad attrarre gli investitori stranieri trascurando le industrie locali, l’elevato capitale umano e le ingenti risorse di cui dispone il Paese. La propensione protezionistica, che riflette una controffensiva alla intimorita e prossima reintroduzione delle sanzioni verso Teheran, è chiaramente retorica, e da parte dell’ex presidente mira ad intercettare il crescente malcontento popolare verso le misure neoliberiste (una delle ragioni che ha guidato le proteste dello scorso anno).

Il politico conservatore già consigliere della Guida e ministro dell’Interno negli anni Ottanta, Ali Akbar Nateq-Nuri, invece, ha riconosciuto i risultati (seppur preliminari e parziali) dell'accordo e del rilassamento delle sanzioni sul sistema economico nazionale, afflitto in precedenza dalla "grave piaga dei commerci illeciti". La disoccupazione (al 12% e al 33% per quella giovanile), ad esempio, è vista come "l’esito di una stortura interna", e non come il fallimento dell’accordo, una retorica spesso addotta dai critici del presidente. Allo stesso modo, Nateq-Nuri, il cui trascorso nell'ala "conservatrice" del nezam non è in contraddizione con il suo attuale sostegno a Rouhani, ha accusato quanti internamente abbiano criticato il presidente in seguito al ritiro statunitense dall'accordo. Nuri ha puntato il dito verso Israele e Arabia Saudita, accusandoli di complottare un cambio di regime che solo il mantenimento del JCPOA potrebbe, di fatto, scongiurare.

In conclusione, si osserva un panorama complesso e dinamico in cui Rouhani viene sfidato su più fronti e da parte di personalità chiave in settori specifici del sistema politico, dalle gerarchie militari al clero politicizzato. Comprendere il pluralismo di queste voci è un accorgimento importante perché facilita l’individuazione di quegli ampi spazi di manovra entro cui si muove l’opposizione al presidente in carica, lasciando intuire i temi che articolano la competizione politica interna.

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Ugo Tramballi
ISPI Senior Advisor

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AUTORI

Giorgia Perletta
PhD Candidate, Università Cattolica

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