Se, come diceva Agatha Christie, «un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova», allora la propensione verso l’estero della Repubblica Popolare Cinese (Rpc) potrebbe essere attraversata da cambiamenti di significativa importanza.
Fin dagli anni Cinquanta la politica estera della Cina è stata caratterizzata dal rispetto dei “cinque princìpi di coesistenza pacifica”, teorizzati durante la Conferenza di Bandung del 1955, e fra i quali spicca la non ingerenza negli affari interni degli altri stati. Tale principio ha contraddistinto la politica estera cinese per quasi sessant’anni facendo oscillare il paese dalle posizioni isolazioniste degli anni Sessanta a una maggiore apertura verso il resto del mondo, come avvenuto negli ultimi decenni, ma mantenendo il rifiuto di un qualsivoglia intervento militare fuori dai propri confini. Un tale atteggiamento è stato recentemente contrapposto dagli analisti all’interventismo americano sia in Medio Oriente, sia laddove la contingenza lo richiedesse, e ha causato anche la condanna dell’opinione pubblica internazionale in occasione del rifiuto cinese di autorizzare in sede Onu interventi umanitari in Sudan – in concomitanza con la crisi del Darfur – e in Siria. Al momento è già in essere un dibattito sull’evoluzione dell’atteggiamento cinese nei confronti dei vicini più prossimi che si articola all’interno del discorso sulla cosiddetta peripheral diplomacy (zhoubian). Lanciata nel 2006, la peripheral diplomacy cerca di trovare nuove soluzioni nell’affrontare il tema del rapporto fra la Cina e i suoi vicini al crescere del peso internazionale cinese, cercando di mantenere relazioni pacifiche pur assicurando alla Rpc la tutela dei propri interessi nazionali, quali dispute sui confini, accesso alle risorse energetiche in mare aperto e, più in generale, la security dell’Asia Orientale.
Tuttavia la peripheral diplomacy non incide sul dogma della non ingerenza, trattandosi comunque di una diversa articolazione dei rapporti bilaterali, mentre danno segnali differenti i tre indizi sull’esposizione cinese in paesi stranieri.
Il primo indizio di una trasformazione della propensione esterna della Cina è costituito dall’invio in Sud Sudan di un contingente di, almeno, 100 soldati cinesi all’interno di una missione di peacekeeping sotto l’egida Onu. La novità della partecipazione dell’esercito cinese a un intervento di questo tipo, annunciato a settembre e concretizzatosi nella seconda metà di novembre, è rappresentato proprio dalla rottura del dogma della non ingerenza, visto che l’operazione è finalizzata a proteggere i civili dalle violenze dei ribelli, ma alcuni sottolineano che vi è anche un forte interesse a proteggere gli investimenti petroliferi cinesi nel paese più giovane del mondo. È ipotizzabile che la dipendenza dalle importazioni porterà la Cina sempre più a dover trovare risposte alle minacce al proprio approvvigionamento energetico dagli scenari più caldi.
Il mutato atteggiamento cinese nei confronti dell’Afghanistan costituisce il secondo indizio. Infatti, al diminuire dell’impegno americano nel paese che ospitò bin Laden, la Cina ha preso l’iniziativa per un maggior ruolo nel processo di pacificazione. A fine ottobre ha ospitato a Pechino un incontro dell’Istanbul Process, un meccanismo di cooperazione regionale formato da paesi mediorientali e centroasiatici. ll meeting è stata anche l’occasione per la prima visita all’estero del nuovo presidente afghano, Ashraf Ghani. Il nuovo atteggiamento cinese nei confronti dell’Afghanistan è visto con favore dagli Usa, che vorrebbero condividere con il gigante asiatico il peso degli oneri del meccanismi di sicurezza regionale, e forse addirittura globale. La Cina in Afghanistan, inoltre, potrebbe dar vita a nuove forme di cooperazione con l’India e l’Iran, paesi anch’essi interessati alla stabilità dell’area. Per quanto questo tema possa in parte ricadere nella peripheral diplomacy in realtà potrebbe celare sviluppi di portata più ampia.
Infine, come riportato negli ultimi giorni da un giornale di Hong Kong, risulta che sia in discussione presso l’Assemblea nazionale del popolo – il parlamento cinese – una bozza di una legge contro il terrorismo, che non solo sarebbe la prima della Rpc, ma soprattutto conterrebbe la possibilità di autorizzare l’esercito e la polizia a effettuare operazioni di controterrorismo all’estero, dietro il consenso dei paesi interessati. Nonostante questa norma sembri scritta per fornire strumenti per fronteggiare minacce come l’Isis, è probabile che, almeno inizialmente, possa essere impiegata per combattere i gruppi separatisti dello Xinjiang che spesso si rifugiano nei paesi confinanti.
Il quadro generale di quelli che abbiamo chiamato “indizi”, però, presenta lo spaccato di una situazione in graduale e lenta evoluzione. Così come queste risposte parziali sono sorte per fronteggiare emergenze contingenti, resta l’interrogativo di quali soluzioni potrà adottare la Rpc nell’affrontare nuovi problemi, soprattutto alla luce di vecchi tabù, quali l’invio di truppe all’estero, già infranti. Potrà anche essere presto per poter affermare di avere la “prova” di una mutata politica estera cinese, ma sembrerebbe probabile che la Cina non potrà a lungo mantenere un atteggiamento di free rider nella produzione di quel bene pubblico globale chiamato international security.