Sulla Siria, Riyadh non lascia, ma forse raddoppia. Nonostante il dossier siriano sia passato dal tavolo del “vivace” capo dell’intelligence Bandar bin Sultan al-Sa‘ud a quello del più “istituzionale” ministro degli Interni, l’Arabia Saudita non intende frenare il proprio coinvolgimento nel conflitto di Damasco. Due eventi recenti vanno in questa direzione. Dalla Turchia, il Consiglio militare supremo ha rimosso il generale Selim Idriss dalla guida dell’Esercito Libero Siriano (ELS), lamentando l’inefficacia delle sue scelte tattiche, oltre che un’inadeguata distribuzione delle armi sul territorio: una mossa che completa l’egemonia saudita sull’opposizione siriana a discapito del Qatar, dopo la nomina di Ahmad Assi Jarba al Consiglio Nazionale. Considerato vicino a Doha, Idriss è stato sostituito dal generale Abdel Ilah al-Bashir, già responsabile dell’ELS a Quneitra, regione meridionale della Siria (il sud è la roccaforte delle forze sostenute dai sauditi) al confine con la Giordania. Proprio nel regno hashemita, l’Arabia Saudita vorrebbe stoccare le armi pesanti pro-ribelli (missili antiaerei e anticarro) di provenienza pakistana. L’obiettivo è provare a riequilibrare i rapporti di forza tra la Free Syrian Army e l’esercito di Bashar al-Assad. L’indiscrezione, che ha provocato la dura reazione della Russia, è stata smentita dal Ministero degli Esteri di Islamabad, ma si aggiunge ai rumors sulla possibilità che i militari pakistani stiano contribuendo, in patria, all’addestramento della milizia siriana più legata a Riyadh, la salafita Jaish Al Islam. Di sicuro, febbraio è stato un mese di intensi colloqui fra Arabia Saudita e Pakistan: dopo il viaggio del capo di stato maggiore di Islamabad, Raheel Sharif, nel regno wahhabita, l’erede al trono saudita Salman è volato in Pakistan, preceduto dal suo ministro degli Esteri Saud Al-Faisal. Al di là delle consuete dichiarazioni sulla volontà di rafforzare la cooperazione militare, Afghanistan e Siria sono stati al centro delle discussioni bilaterali fra i due storici alleati.
Nel governo saudita cresce la preoccupazione per il fenomeno dei “jihadisti di ritorno”, come suggerisce il trasferimento della pratica siriana nelle mani del principe Mohammad, il ministro degli Interni, coadiuvato dal figlio del re, Mitaeb, capo della Guardia Nazionale. Non è un caso che Mohammad sia anche il responsabile delle politiche di counter-terrorism (per esempio nello Yemen), nonché uomo vicino a re Abdullah. Con l’obiettivo di scoraggiare il ritorno in patria dei tanti jihadisti nativi della penisola e recatisi a combattere in Siria e in Iraq, il sovrano ha emanato, poche settimane fa, un decreto che inasprisce le pene per questa fattispecie di reato, portando gli anni di reclusione fino a un massimo di venti: secondo stime saudite, il 20% di chi è partito dal gigante sunnita per il campo di battaglia siriano sarebbe già tornato a casa. Un analogo progetto di legge è stato depositato all’Assemblea Nazionale del Kuwait e proposto dall’esecutivo del Bahrein. Porre adesso l’accento sulla lotta al jihadismo – che gli stessi sauditi e il Qatar hanno contribuito ad alimentare, armando le molteplici fazioni dell’opposizione al regime degli Assad – significa individuare un terreno politico comune con gli Stati Uniti, alla vigilia della delicata visita di Barack Obama a Riyadh, prevista per il mese di marzo. Proprio il principe Mohammad si è recato a Washington per preparare l’incontro, che avverrà in una delle fasi più tese della storia diplomatica fra i due alleati. Tuttavia, se gli interpreti e le mosse tattiche degli al-Sa‘ud mutano, la strategia di fondo rimane sempre la stessa: quella del “doppio binario”.
Il doppio binario saudita in Siria, che si concretizza nell’aiuto materiale al maggior numero di attori sul campo, è finalizzato a guadagnare spazi d’influenza politica nella Damasco di domani, qualsiasi fisionomia possa assumere il dopo-Assad. Inoltre, un agire politico così ambiguo è favorito dall’opacità e dalla mancanza di accountability democratica propria di ogni autoritarismo; nel caso di Riyadh, questa postura è oltretutto incentivata dallo scarso coordinamento fra gli inner circle che afferiscono ai vari membri della famiglia reale, spesso in competizione per le linee di successione al novantaduenne sovrano Abdullah. Da tempo, il regno degli al-Sa‘ud ha smesso di essere una monarchia piramidale, per avvicinarsi alle forme dell’oligarchia: un’evoluzione silenziosa ma incessante, che si riflette anche sul processo di costruzione della politica estera.
La politica saudita dei due binari è evidente anche in Libano – la cui stabilità è legata a doppio filo agli avvenimenti siriani – dove Riyadh sta ora investendo notevoli risorse diplomatiche ed economiche, in competizione con l’Iran. Così, l’Arabia Saudita promette di donare “senza condizioni” armi francesi alle forze armate libanesi per una cifra pari a 3 miliardi di dollari, mentre prosegue a finanziare e organizzare milizie sunnite anti-Hezbollah. Nella città settentrionale di Tripoli, la più scossa dai riverberi della regionalizzazione della guerra civile siriana, i quartieri di Bab al-Tebbaneh (sunnita) e di Jabal Mohsen (sciita) sono teatro di scontri quotidiani fra milizie confessionalmente connotate, come Ahrar Tripoli, che sarebbe coordinata dall’ex capo della polizia Ashraf Rifi – neoministro della Giustizia – con il sostegno materiale saudita.
Monopolio legittimo della forza (esercito nazionale) e privatizzazione della violenza (milizie) nel Libano, aiuto indiscriminato alle opposizioni armate e lotta ai qaedisti in Siria: una politica bifronte che l’Arabia porterà avanti fino a quando il calcolo costi/benefici non diverrà nettamente sfavorevole per la stabilità interna alla Penisola arabica, dove i toni del dibattito politico stanno già assumendo toni settari aspri (per esempio in Kuwait). Sullo sfondo, c’è, infatti, la sfida con l’Iran per l’influenza regionale, specialmente ora che Teheran e Washington sono tornati a parlarsi e i sauditi (insieme al non intervento militare Usa in Siria) hanno vissuto tutto ciò alla stregua di un pubblico tradimento. La proliferazione del jihadismo, da Baghdad a Beirut, rischia di dare un sapore amaro al vantaggio strategico (perché politico e culturale) che l’Arabia Saudita, grazie alle rivolte arabe del 2011, aveva fin qui accumulato sull’Iran; anche perché il famigerato arco sciita, seppur ammaccato, resiste.