Cuba non è solo un luogo. È la chiave di una porta chiamata America Latina. Lo aveva compreso, già nell’Ottocento, il poeta e rivoluzionario José Martí. Fu lui a vagheggiare l’idea di un’isola in cui i popoli potessero ritrovarsi in amicizia, “oltre le strettoie degli istmi e le barriere dei mari”. Una frase citata – non casualmente – da Papa Francesco all’arrivo dell’aeroporto dell’Avana, lo scorso 19 settembre. Il Pontefice – figura fondamentale nel disgelo con Washington – ha sottolineato la vocazione di ponte dell’arcipelago che si affaccia in tutte le direzioni.
Ora il presidente Barack Obama cerca di dare un contenuto politico a tali suggestioni. Lo storico viaggio nel paese dell’inquilino della Casa Bianca, dopo 88 anni di assenza e 63 di Guerra Fredda, non termina all’Avana. Bensì prosegue, verso Sud. Obama, dunque, utilizza “metaforicamente” Cuba come “trampolino” per l’America Latina e, in particolare, per una delle nazioni con cui i rapporti sono stati più difficili negli ultimi tempi: l’Argentina. Il 23 e 24, il leader Usa concluderà il tour continentale a Buenos Aires, in un giorno per altro simbolico: il 40esimo anniversario del golpe militare, realizzato quantomeno con la “non opposizione” statunitense. Perché passare dall’isola? È evidente che si tratta di una scelta strategica e non di una semplice questione di “comodità” geografica. Il fattore Cuba – o meglio Castro – ha condizionato, per quasi sessant’anni, la politica Usa nei confronti di quella regione sterminata che si estende dal Rio Bravo alla Terra del Fuoco. E, di conseguenza, le politiche dei differenti stati latino-americani verso il “gigante del nord”. L’imperialismo “yanky” – a volte reale, altre manipolato – ha consentito il coagularsi di alleanze, anche bizzarre, nel Continente. Nel decennio scorso, solo per citare l’ultimo esempio, l’insofferenza verso l’ingombrante vicino è stato il collante del cosiddetto asse bolivariano. Un blocco disomogeneo che, nei suoi tempi d’oro, riuniva, a distanza variabile, intorno all’asse Caracas-L’Avana, anche Nicaragua, Bolivia, Ecuador e indirettamente l’Argentina.
Al contempo, lo spettro del comunismo ha indotto Washington a commettere una serie di errori tragici e grossolani, di cui le guerre centro-americane degli anni Ottanta – la cui eredità più visibile sono il narcotraffico e la violenza record dell’area – sono a malapena la punta dell’iceberg.
Il 17 dicembre 2014 – giorno dell’annuncio della normalizzazione – insieme al “muro dell’Avana” si è infranto anche lo specchio deformato attraverso cui si sono guardati per decenni i due “pezzi d’America”. Un’occasione storica. Da molteplici punti di vista. I primi effetti della normalizzazione Cuba-Usa sono già in svolgimento in un paese che, fino a qualche tempo fa, sembrava “condannato a cent’anni di solitudine”. L’espressione del suo principale cantore, il Nobel Gabriel García Márquez, sintetizza in poche parole gli oltre 50 anni di conflitto civile patito dalla Colombia. La guerra fra il governo e la formazione marxista delle Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (Farc) – tuttora in corso – è sopravvissuta, complice i soldi del traffico di cocaina, ben oltre la fine dell’Urss, senza che nessuna parte riuscisse a sconfiggere l’altra. Il gioco mortale potrebbe, però, durare ancora a lungo senza la “mediazione cubana”. L’Avana, dal 15 novembre 2012, ha offerto il proprio paese come sede per i negoziati tra i due contendenti. Mentre i “buoni uffici” del sistema castrista sulle Farc sta avendo un ruolo determinante nel favorire l’ormai prossimo – anche se la scadenza del 23 marzo, con tutta probabilità, slitterà di qualche mese – l’atteso accordo di pace.
Il “nuovo corso” tra Washington e L’Avana, inoltre, potrebbe allentare la tensione con il cosiddetto “blocco bolivariano”. Una brutta notizia per il suo capofila, ovvero il Venezuela. Caracas vive già un momento difficile per il brusco calo del prezzo internazionale del petrolio – sua principale risorsa – e la drammatica crisi economica. Di certo, l’avvicendamento tra il defunto e carismatico Hugo Chávez e il modesto delfino, l’attuale leader Nicolás Maduro, ha accelerato l’esplosione del malcontento sociale. In queste condizioni, la capacità di influenza continentale della nazione si è drasticamente ridotta. E con Cuba intenta a rimescolare le carte, la retorica anti-yanky del presidente esercita sempre meno appeal sugli ex alleati. Mentre Quito e La Paz attenuano le proprie posizioni nei confronti di Washington, Maduro resta sempre più solo, aprendo nuovi spazi per l’opposizione interna, rafforzata dalla recente vittoria delle elezioni legislative.
È Buenos Aires, però, una delle priorità di Obama. Il momento sembra particolarmente favorevole per gli interessi statunitensi. Il kirchnerismo – con cui la Casa Bianca ha avuto rapporti turbolenti – ha lasciato il governo dopo 12 anni. Il 22 novembre è stato catapultato a sorpresa alla Casa Rosada un presidente di centro-destra, Mauricio Macri, ansioso di ricucire i rapporti con Washington e di reintegrare il paese nei circuiti finanziari globali da cui era stato tagliato fuori dopo il default. Macri l’ha detto chiaramente al Forum di Davos, dove si è recato dopo dieci anni di assenza degli argentini. Buenos Aires, inoltre, è a un passo da un accordo con il più intransigente dei fondi speculativi americani, Elliot Management, guidato da Paul Singer, che potrebbe permetterle di risanare una vecchia ferita e aprire i rubinetti di nuovi crediti internazionali per il paese. Allo stesso tempo, un clima distensivo aprirebbe opportunità di collaborazione e investimenti per gli Stati Uniti, ansiosi di guadagnare spazio nella terza economia della regione, ancora più appetibile a causa della crisi brasiliana.
La partita è aperta. Washington ha buone carte per costruire una relazione più solida con l’America Latina, premessa per una cooperazione efficace su alcuni temi strategici chiave, in primis il contrasto alle “multinazionali del crimine” che dilaniano il Continente. La diffidenza latino-americana per il poco discreto vicino, però, è resistente. Gli Usa devono agire con cautela. Soprattutto devono evitare di ripetere i tragici errori del passato. Cioè cercare di ridurre la regione a “cortile di casa” e miniera di risorse per le proprie aziende. La stagione dei diktat neoliberali applicati in casa d’altri ha già mostrato la propria inefficienza politica, oltre che ingiustizia umana. La temperie storica offre agli Usa l’occasione di passare da una “diplomazia a somma zero” a una “a somma positiva”. La scelta di Obama di passare da Cuba – espressione di quanto la contrapposizione sia stata fallimentare per entrambi – per accedere al Continente è un segnale positivo. La strada per il Sud, però, è ancora lunga.
Lucia Capuzzi, Avvenire