La Siria di domani è un puzzle che si sta lentamente, e dolorosamente, componendo. E, una volta completato, conserverà ben poco del paese che fu. Nonostante la retorica e le roboanti dichiarazioni del regime di Bashar al-Assad, è ormai chiaro infatti che la Siria sia sempre meno destinata a tornare a essere un paese unitario e sempre più condannata a diventare uno “spazio geografico”, diviso per zone d’influenza fra fazioni interne, stati regionali e potenze internazionali. L’accordo in discussione sulle "zone di de-escalation" potrebbe segnare il punto di non ritorno di questo processo.
A ovest, da oltre un anno, si sta consolidando il potere di Assad sui principali centri urbani e sulla costa, quell’insieme di arterie che collegano Damasco ad Aleppo e Latakia e definito dai tempi dell’occupazione francese la “Siria utile”; dove risiedono la maggioranza degli abitanti e dove si svolgono le principali attività economiche. All’interno di quest’area, soprattutto nella zona di confine col Libano, si consolida anche il potere dell’Iran e di Hezbollah, che da mesi stanno rendendo la propria presenza in alcuni villaggi chiave dell’area permanente, attraverso trasferimenti forzati di popolazione e vere e proprie campagne di colonizzazione.
Ma la cosiddetta “Siria utile” rappresenta meno di un terzo del paese. Nel frattempo il sud, dal Golan al governatorato di Daraa’ lungo i confini con Israele e la Giordania, è sempre più vicino a diventare una zona di influenza giordana, col supporto diretto degli Usa e quello meno appariscente (ma non meno determinante) di Israele. Tale zona permetterebbe ad Amman di avere un controllo diretto sui propri confini, soprattutto in chiave di lotta alle infiltrazioni jihadiste, e agli Stati Uniti di poter contare su una zona di intervento rapido in caso di recrudescenza della minaccia terroristica in quest’area, o di eccessivo consolidamento del potere iraniano in Siria.
A nord la situazione è invece ancora in fase di coagulazione, ma i tratti principali si cominciano a intuire. In primo luogo, sembra consolidata la zona di influenza turca nell’area di Al-Bab che, non appena riuscirà a ottenere luce verde da Washington o Mosca, Ankara spera di poter allargare verso Afrin a discapito delle milizie curde del Ypg. In questa zona sono già confluiti molti guerriglieri e rifugiati da quasi tutte le aree riconquistate dal regime nell’ultimo anno, aumentando notevolmente la pressione demografica su questo piccolo territorio. E la pressione potrebbe ulteriormente aumentare se un accordo tra regime e opposizione – simile a quello che portò all’evacuazione di Aleppo – porterà nei prossimi mesi all’evacuazione di Idlib, ultimo centro urbano significativo nelle mani dei ribelli. Nonostante ci siano ancora domande senza risposta sul futuro di quest’area del paese – per esempio, il possibile allargamento verso Afrin – sembra ormai chiaro che i principali attori coinvolti siano consapevoli della necessità di preservare la presenza di una “zona sicura”, all’interno della quale i ribelli non-qaedisti si sentano abbastanza garantiti da una potenza amica per poter finalmente deporre le armi.
Nel nord-est, lungo il confine con la Turchia, il braccio siriano del Pkk, il Pyd, e la milizia ad esso affiliata, il Ypg, hanno un potere ormai consolidato. Tutti gli attori coinvolti sembrano infatti ormai concordare sul fatto che qualche tipo di entità autonoma curda nascerà in quest’area al termine del conflitto. Le uniche voci contrarie sono quelle della Turchia, preoccupata che tale evenienza porti a un rafforzamento del Pkk e a una recrudescenza delle sue attività militari in territorio turco, e quella del regime di Assad, che ha affermato in più occasioni di voler riportare sotto il controllo diretto di Damasco l’intero paese. Due voci nemiche e per adesso troppo deboli per piegare la situazione a proprio favore, ma la cui armonia su questo tema potrebbe aprire inediti scenari su potenziali future alleanze di convenienza.
Regime e alleati (iraniani, filo-iraniani e russi) a est, giordani (e americani) a sud, curdi e turchi a nord: il puzzle si sta lentamente componendo. Ma manca un pezzo fondamentale e potenzialmente in grado di trascinare il conflitto ancora per lunghi mesi, se non anni: l’Est. Dominato dallo Stato islamico negli ultimi tre anni, l’Est è l’unica area del paese dove i giochi sono ancora completamente aperti e dove, in assenza di un credibile accordo politico preventivo, si concentreranno gran parte delle tensioni future. Negli ultimi due mesi l’area ha visto l’accavallarsi di mire e interessi contrapposti, sfociati in incidenti a pericoloso rischio di escalation, come in occasione del bombardamento delle postazioni delle Syrian Democratic Forces – l’alleanza composta da Ypg e milizie arabe dell’opposizione, armata e assistita dall’esercito americano oggi impegnata nell’assedio di Raqqa – da parte del regime di Damasco a cui è seguito l’abbattimento di un caccia siriano da parte dell’aeronautica americana. Oppure il raid lanciato sempre dagli americani contro un gruppo di miliziani vicini al regime che si dirigevano verso la base di Al-Tanf, vicino al confine giordano, oggi occupata dalle forze speciali statunitensi.
Da parte sua, il regime di Damasco cerca di reimporsi come attore fondamentale nei giochi politici nell’est del paese, da cui è stato sostanzialmente assente per oltre quattro anni. Per riuscirci ha anche sospeso le principali offensive nel nord del paese, in particolare a Idlib, nel governatorato di Hama, e nel sobborgo damasceno di Ghouta, ancora in mano all’opposizione. La decisione è stata motivata da due fattori principali: da una parte, recuperare le principali aree di estrazione di idrocarburi, soprattutto intorno a Deir-Ezzor. E, dall’altra, agevolare gli obiettivi strategici dell’Iran, principale alleato del regime e fornitore di gran parte dei suoi combattenti. Teheran infatti mira da tempo a istituire un corridoio diretto che colleghi il proprio territorio al Libano attraverso Siria e Iraq.
È a questo disegno che si oppone la crescente presenza statunitense nel sud, soprattutto nella base di Al-Tanf, sostenuta dalla rinnovata postura anti-iraniana dell’amministrazione Trump. Nel frattempo gli americani, e la coalizione da essi guidata, sono impegnati a sostenere lo sforzo della Sdf per la conquista di Raqqa. Una conquista che segnerebbe la fine di qualunque controllo territoriale significativo dello Stato Islamico ma che pone diversi quesiti dalla difficile risposta relativi al futuro di quest’area. Se da una parte, infatti, gli americani si dicono favorevoli a un controllo almeno temporaneo delle Sdf – a maggioranza composte dallo Ypg curdo – dall’altra i loro alleati – la Turchia, certamente, ma anche gli stati europei – sono scettici su tale soluzione, che rischierebbe di imporre sulla città arabo-sunnita un controllo de facto a dominio curdo. Una situazione che rischierebbe di amplificare recriminazioni e tensioni sociali in una fase estremamente delicata. Il tema è stato per settimane al centro dei colloqui a porte chiuse tra gli Stati Uniti e i loro alleati e non sembra ancora completamente risolto. Escludendo la riconsegna della città al regime – soluzione inaccettabile per l’amministrazione americana e per i suoi alleati – l’unica alternativa che resta è un auto-governo formato da rappresentanti della popolazione locale. Una popolazione che per oltre due anni è stata governata dallo Stato islamico, di cui pochi si fidano davvero, e il cui auto-governo resterebbe estremamente fragile senza una protezione esterna che nessuna potenza regionale o internazionale, inclusi gli Stati Uniti, sembra disposta a garantire. Il compromesso che sembra emergere è quindi un consiglio locale composto da autoctoni che si occupi dell'amministrazione civile, ma tutelato (e "monitorato") da forze di sicurezza controllate dalle Sdf.
Mentre in Iraq la domanda è se il fragile e diviso governo di Baghdad sarà in grado di amministrare adeguatamente la riconquista di Mosul, in Siria, nei giorni dell’assedio di Raqqa, non è ancora chiaro nemmeno a chi dovrà andare esattamente il controllo di quest’area dopo la cacciata del Califfato. Tutto questo mentre, poco più a sud, crescono le tensioni tra Stati Uniti e Iran – e i loro alleati locali – per il controllo del confine tra Siria e Iraq. Un’altra partita, l’ennesima, giocata in territorio siriano da attori e secondo logiche che ben poco hanno a che fare con gli interessi e la popolazione della Siria.
Eugenio Dacrema, dottorando presso l'Università di Trento e ISPI Associate Research Fellow