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L’accusa di genocidio
Il Gambia vince la battaglia per i diritti dei Rohingya
Camillo Casola
|
Giulia Sciorati
31 gennaio 2020

Il Myanmar torna sotto i riflettori della giustizia internazionale. Chiamata a comparire dinnanzi ai giudici della Corte Internazionale di Giustizia (CIG), la leader birmana Aung San Suu Kyi ha respinto le accuse di genocidio indirizzate al governo di Naypyidaw, in ragione dei crimini commessi nei confronti delle comunità Rohingya, stanziate prevalentemente nello stato sud-occidentale di Rakhine e costrette a fuggire, cercando asilo nel vicino Bangladesh. La caduta di Aung San Suu Kyi dal Premio Nobel per la Pace del 1991 è sempre più veloce.

Nel novembre del 2019, a sollevare la questione delle gravi violazioni dall’esercito nazionale birmano a discapito delle minoranze musulmane di etnia Rohingya, è stato il Gambia, piccolo stato dell’Africa occidentale. I Rohingya, spesso definiti dalla stampa internazionale come “il gruppo etnico meno voluto al mondo”, fin dai tempi dell’indipendenza dalla colonizzazione britannica, sono segregati nello stato di Rakhine, al confine con il Bangladesh. Poiché il Myanmar non concede loro la cittadinanza, non possono muoversi liberamente e vivono in campi sovraffollati fuori dal capoluogo del Rakhine, la città di Sittwe. I Rohingya sono quindi considerati ospiti su territorio birmano, e le violenze perpetrate contro il gruppo etnico sono giustificate dalla volontà di garantire la sicurezza della popolazione birmana contro i gruppi terroristici attivi nella regione. La società birmana identifica ancora i Rohingya come “bengalesi musulmani” ed è proprio la loro confessione religiosa che è alla base della mancata integrazione. Il Myanmar è infatti per circa l’80% buddista, al contrario del suo attuale oppositore, il Gambia, la cui popolazione professa per circa il 95% l’Islam sunnita.

Chiedendo alla Corte dell’Aia di pronunciarsi sul caso, il governo gambiano ha dato prova di un inedito protagonismo sulla scena internazionale. A guidare la delegazione, il ministro della Giustizia di Banjul, Abubacarr Tambadou. Avvocato per i diritti umani, ex membro del Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda, Tambadou ha sollecitato l’apertura del procedimento contro Naypyidaw in seguito alla visita condotta al campo profughi di Cox’s Bazar – il principale campo di accoglienza dei rifugiati Rohingya, nel sud del Bangladesh – in occasione di un vertice dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica (OCI) nel paese. Sottolineando l’esistenza di forti elementi di comparazione con quanto avvenuto in Ruanda nel 1994, quando l’inazione della comunità internazionale rese possibile lo sterminio dell’etnia tutsi a opera della maggioranza hutu nel paese, il rappresentante del governo gambiano ha formalizzato l’accusa di genocidio nei confronti del Myanmar. Che il profilo personale e l’esperienza professionale di Tambadou abbiano inciso fortemente sull’iniziativa – fortemente politica, oltre che giuridica – del Gambia, sembra chiaro. Tuttavia, è difficile immaginare che questo possa rappresentare di per sé il solo fattore di interpretazione della volontà gambiana di farsi carico, per conto dell’OCI, del dossier relativo alle persecuzioni delle comunità islamiche nel sud del Myanmar.   

La decisione di avviare un procedimento contro il Myanmar per violazione della Convenzione sul genocidio traccia una netta linea di discontinuità rispetto al recente passato gambiano. Le elezioni del 2016 hanno segnato, infatti, la fine inattesa del regime di Yahya Jammeh. Al potere dal 1994, Jammeh aveva negli anni consolidato i tratti di una governance autoritaria e fortemente repressiva, attraverso violazioni sistematiche dei diritti umani: tortura, arresti arbitrari, uccisioni mirate di giornalisti e oppositori, censura. L’isolamento politico cui la leadership di Jammeh aveva costretto il paese ne aveva fatto uno “stato paria” nella comunità internazionale, costringendo una parte rilevante dei cittadini gambiani a fuggire. La caduta del regime di Jammeh e l’ascesa di Adama Barrow alla presidenza, a conclusione di una grave crisi post-elettorale che ha rischiato di precipitare il paese nel baratro della guerra civile, ha segnato l’inizio di una nuova fase per la storia politica del Gambia. Gli equilibri politici a Banjul restano tuttavia precari: la fragile presidenza di Barrow è fatta oggetto di contestazioni popolari in ragione della violazione delle intese con alcune delle forze politiche originariamente parte della coalizione di maggioranza, che prevedevano una fase di transizione di tre anni al termine della quale nuove elezioni sarebbero state indette. La strategia del governo sembrerebbe, in tal senso, mirare a ottenere sostegno internazionale – e supporto da parte degli stati membri dell’OCI – al fine di ottenere una forte legittimazione esterna, rafforzarsi internamente e consolidare le prospettive di un nuovo mandato elettorale nel 2021.

Il dibattito politico gambiano, peraltro, getta luce su un aspetto paradossale della vicenda. Proprio mentre Banjul cerca di accreditarsi, sulla scena internazionale, come baluardo per la difesa dei diritti delle minoranze oppresse, voci di un accordo che consentirebbe a Jammeh di rientrare in patria cominciano a circolare, insistenti. Benché l’esistenza di un’intesa tra Barrow e Jammeh sia stata smentita dal governo gambiano, le difficoltà politiche interne del presidente in carica e l’ascesa di un movimento popolare a sostegno dell’ex presidente in esilio sembrano quantomeno segnalare la possibilità che una simile prospettiva possa prendere corpo. Mentre le vittime del regime di Jammeh restano, in molti casi, in attesa di giustizia.

La sentenza della CIG a favore delle accuse sollevate dal Gambia è una grande vittoria per il piccolo stato africano: la corte si è infatti espressa all’unanimità contro i reati commessi dalle forze militari birmane in Rakhine. Dei quindici giudici internazionali che tradizionalmente compongono la corte, anche i due giudici indicati rispettivamente da Myanmar e Gambia si sono espressi a favore di quest’ultimo. Sebbene la sentenza non sia vincolante, crea di fatto una base giuridica che potrebbe giustificare l’imposizione di sanzioni a Naypyidaw. Inoltre, siccome il Myanmar non è l’unico teatro di scontro al mondo tra minoranze islamiche e governi nazionali (pensiamo al Kashmir o allo Xinjiang) la posizione della CGI riguardo i Rohingya crea un precedente importante. Così com’è oggi, quindi, la sentenza ha il principale merito di mettere il Myanmar di fronte a una maggiore pressione internazionale. Tuttavia, il tempismo della visita di stato del Presidente cinese Xi Jinping, condotta il 17-18 gennaio 2020, va certamente a diluire l’impatto delle misure provvisorie della CIG. Pechino e Naypyidaw, infatti, hanno firmato 33 accordi afferenti ai progetti della Belt and Road Initiative (BRI), tra cui uno prevede la creazione di un porto in acque profonde sul Golfo del Bengala, proprio nello stato di Rakhine. Tale accordo è rappresentativo del fatto che il “principio di non interferenza” cinese continui a scontrarsi con gli strumenti tipici delle relazioni internazionali in Occidente. Ciò che garantirebbe l’effettiva implementazione delle misure della CIG rimane il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che ha ora il compito di vagliare l’operato della Corte e di decidere su come procedere. Decisione che, secondo i più, il Consiglio ci metterà diversi anni a prendere.

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Programma Africa ISPI

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Myanmar Gambia Africa Asia Religioni
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AUTORI

Camillo Casola
ISPI Associate Research Fellow
Giulia Sciorati
ISPI Research Assistant

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